CAPITOLO UNO
Oleg
Il momento di chiusura del Rue's Lounge era la parte peggiore di ogni settimana. Mi scolai la fine della birra e misi giù la bottiglia, alzandomi a malincuore dal tavolo che avevo conquistato a inizio serata. Story, il mio canarino americano, e gli altri membri della band si riunirono intorno al bar, ancora carichi per l’energia dovuta a un'altra performance epica. Esitai, ma non avevo scuse per rimanere. Non quando Rue, la proprietaria con la cresta, aveva già acceso le luci per scacciare gli ultimi avventori. Non quando aveva specificamente puntato la testa per indicarmi la porta. Non avevo motivo di rimanere. Non stavo temporeggiando in attesa di trovare il coraggio per chiedere a Story di uscire.
Impossibile, senza lingua. Non che avessi intenzione di inventarmi un altro modo per comunicare. Non ero il ragazzo per lei. Lo sapevo.
Né sarei rimasto lì a fissarla. Beh, forse un po’. Era dannatamente difficile distogliere lo sguardo quando era presente.
La chitarrista e cantante dalla voce dolce come il miele era magnetica. Ipnotizzante. Gloriosamente talentuosa e dotata di una bellezza punk. No, rimanevo perché non ero in grado di andarmene. Non sarei riuscito a lasciare il locale fino a quando non fossi stato assolutamente sicuro che Story sarebbe tornata a casa sana e salva.
La guardai scolarsi il terzo margarita in pochi sorsi veloci e poi ridere di qualcosa che aveva detto uno dei suoi amici. Il caschetto in stile Debbie Harry era rosa pallido quella settimana: aveva aggiunto una sfumatura di color champagne al suo solito platino, cosa che le rendeva la pallida pelle luminosa. Era tanto bella da far male. Mi costrinsi a uscire. Sapevo che il bar le era familiare e che lì aveva molti amici. C’erano anche i suoi compagni di band, tra cui il fratello. Avrebbero dovuto tutti prendersi cura di lei.
Ma c’era l’alcol. Forse anche droga.
E sapevo di non essere l'unico mudak a nutrire pensieri oscuri su ciò che avrebbe voluto fare con l'enigmatica cantante degli Storyteller. I membri della band a volte rimanevano a bere dopo la chiusura del Rue, il che era legale dal momento che erano sul libro paga del locale. Quelle serate me ne stavo nella mia Yukon Denali in attesa di vedere Story mettersi al sicuro nel furgone della band o andarsene con qualcuno che conosceva.
Quella sera uscirono tutti dopo di me, accompagnati dalle loro groupie. Non avrei dovuto aspettare a lungo. Presto sarebbe stata al sicuro, fuori dalla mia vista. Potevo tornare all'attico e riprendere il conto alla rovescia fino alla settimana successiva, quando avrebbe suonato di nuovo.
Andai all’auto e appoggiai l'avambraccio sul cofano, in attesa di assicurarmi che uscisse da lì in sicurezza. Story barcollava trotterellando nelle sue Dr Martens verso il parcheggio, chiaramente sopraffatta dall'alcol. Le calze a rete avevano un buco sulla coscia che mi fece venire voglia di finire il lavoro. Di strapparle e farmi strada leccando fino alla cima di quelle gambe formose.
Solo che non avevo una lingua con cui leccarla.
Bljad’. Ero stato con una donna non più di due volte da quando mi era stata tagliata. Non sapevo come fare l'amore con Story, senza la maledetta punta della mia lingua.
Suo fratello, il playboy della band, aveva una ragazza bollente per braccio e procedeva dietro alla sorella, che barcollava verso il loro furgone. Il suo furgone, probabilmente. O almeno di solito lo guidava lui. Di tanto in tanto si presentava con una piccola Smart. Flynn disse qualcosa a Story e si allontanò dal furgone, portando con sé le due accompagnatrici.
«Cosa? Aspetta, Flynn, non puoi!» gli gridò dietro Story.
Lui la ignorò.
«Ho bevuto troppo per guidare fino a casa.»
Flynn non la stava nemmeno ascoltando. Stava dicendo qualcosa alle ragazze, e loro ridacchiavano in risposta.
Il resto del gruppo si era disperso su altri veicoli, lasciando Story da sola con il furgone.
Ubriaca.
Bljad’. Non ero tipo da andare a dirle di non guidare ubriaca. Ovviamente non ero in grado – non potevo – dire un cazzo di niente a nessuno. Ma non mi piaceva.
«Flynn!» lo chiamò Story. «Non puoi accompagnarmi, prima?»
«Ho bevuto anch’io» disse, anche se pensavo che probabilmente fosse in condizioni molto migliori della sorella.
Mi allontanai dalla mia auto per farmi vedere. Puntai le chiavi alla Denali. Era chiusa quasi quanto lo ero io nella comunicazione da tantissimo tempo, cazzo. Di solito non ci provavo nemmeno. Così le persone smettevano di cercare di comunicare con me. Di includermi. In questo modo, diventavo invisibile. Per quanto potesse esserlo un uomo di due metri per quasi centotrenta chili. Story mi vide ed esitò. Aveva capito le mie intenzioni, lo vedevo. E le stava considerando.
Una parte di me avrebbe voluto che rifiutasse. Non sarebbe dovuta salire in macchina di uomini che non conosceva davvero. Voglio dire, lei mi conosceva dal locale, ma avrei potuto essere un pervertito qualsiasi.
Ma abbassò le spalle in segno di sconfitta. Tenne le chiavi alzate e gesticolò verso di me. «Oleg, puoi portarmi a casa?» biascicò. Voleva che guidassi il suo furgone. Annuii, muovendomi prima ancora che il mio cervello potesse considerare le conseguenze.
La situazione avrebbe richiesto di comunicare. Di tentare una conversazione. Ci sarebbero stati silenzi imbarazzanti riempiti molto probabilmente da contatti visivi evitati e dal profumo metallico della paura. Quello che succedeva ogni volta che una donna interessante come Story si avvicinava troppo. Cazzo, quanto lo odiavo.
Spaventavo le persone a morte. Ero grande, minaccioso, coperto dei tatuaggi tipici della bratva e della prigione siberiana, e non potevo parlare perché il mio ultimo capo mi aveva tagliato la lingua per impedirmi di svelare i suoi segreti. Trasudavo intimidazione. E avevo tutta l’aria di uno che sa uccidere un uomo a mani nude senza fatica.
Cosa che avevo fatto. Molte volte.
Ero un sicario della bratva.
Story barcollò un po' quando arrivai; le afferrai il gomito, tenendola ferma. Si appoggiò a me, regalandomi un sorriso sfocato. «Grazie per avermi salvata. Sapevo che lo avresti fatto.»
Cercai di ignorare l'effetto che mi fecero al battito cardiaco le sue parole. Accelerò, poi saltò un colpo, e poi riprese a correre.
Sapeva che lo avrei fatto.
Bene, bene. Perché avevo pensato che fosse stata a un soffio dal chiamare il 911 per accusarmi di stalking perché mi palesavo agli spettacoli di quella bellissima cantante ogni settimana da un anno.
Non avevo intenzione di diventare lo stalker di Story Taylor.
Mi piaceva solo vederla esibirsi ogni settimana. Non sapevo bene da quanto ne fossi così ossessionato. Dalla prima volta che li avevo visti suonare?
No, lì ero diventato un fan. Quando avevo capito che avrei voluto avere il suo corpicino sotto il mio per farla urlare di piacere.
La terza volta?
Forse.
Tutto quello che sapevo era che adesso ne ero dipendente. Non sarei voluto venire. Odiavo che i ragazzi della mia cellula bratva avessero capito e volessero aiutarmi a comunicare con lei, cazzo. Volevo rimanere invisibile. Un muro che nessuno poteva interpretare. Mi ero spento, quando improvvisamente mi ero ritrovato in prigione senza lingua. Avevo imparato a comunicare con i pugni e avevo smesso di tentare qualsiasi altra forma di comunicazione. Ma lei era il mio punto debole.
Non riuscivo a starle lontano.
Non riuscivo a impedirmi di essere il primo ad arrivare e l'ultimo ad andarsene, il sabato sera. Non avrei voluto provare interesse per nulla, specialmente per una perfetta sconosciuta che non aveva alcun interesse per un uomo forte, gigante e muto.
Ma eccomi qui.
Di nuovo.
Incapace di distogliere lo sguardo dal suo bel viso. Né di stare lontano da quel corpo caldo a cui avrei voluto dare piacere per ogni centimetro. E nemmeno di pensare di lasciarla senza protezione, dal momento che nessuno avrebbe mai osato rompermi le palle.
Le tolsi le chiavi dalla mano, aprii la portiera del passeggero del furgone e la sollevai con le mani alla vita. Adorai la sensazione della sua pelle soda sotto i miei palmi, cazzo. Adorai sostenerne tutto il peso, averne il controllo.
«Oh!» L’aiuto la spaventò, e le sfuggì una risatina strozzata. «Grazie.» Di solito non si devastava tanto. Spesso sorseggiava un solo drink mentre il resto del gruppo si ubriacava. Quella sera era stata un’occasione rara.
Chiusi la portiera e gli occhi, sperando che il mio cazzo si calmasse. Di smetterla di reagire come un adolescente coglione ogni volta che potevo toccarla. Aveva un odore dolce, come di margarita e vaniglia.
Sapevo che non era mia.
Che non lo sarebbe mai stata.
Eppure una parte di me si rifiutava di capirlo. Una parte di me l'aveva reclamata la prima volta che le avevo posato gli occhi addosso.
Salii sul furgone e lo avviai, poi guardai verso di lei e feci spallucce per le indicazioni. «Oh, ehm, ecco.» Tirò fuori il telefono e aprì l'app Google Maps. Inserì un indirizzo e la voce automatizzata iniziò a dare indicazioni. «È più facile di quanto sappia spiegarti io» biascicò. Agitò una mano in modo irregolare nell'aria. «Potrei fare confusione o qualcosa del genere.»
Impostai il telefono nella console centrale e seguii le indicazioni. Il suo appartamento si trovava a pochi chilometri dal locale, in un quartiere discreto. Trovai un posto dove parcheggiare, spegnere il furgone e consegnarle le chiavi.
Ora sapevo dove viveva.
Il che era un problema enorme.
Non l'avevo mai seguita volutamente. Per non scavalcare il confine per il territorio degli stalker. Ma ora che lo sapevo… dannazione.
Sarei riuscito a stare lontano?
Adesso avrei voluto saperla al sicuro ogni volta che lasciava casa, non solo il locale.
Accidenti.
Probabilmente no.
Sarebbe stato un problema per me. E per lei.
Per entrambi.