1.
Dale Carter aveva già rapinato trentaquattro banche quando entrò nella mia vita. Con quel nome da giocatore di football nessuno si stupiva che sapesse come correre via, anche se più che un cornerback sarebbe stato perfetto come running back.
I soliti esperti da talk show lo ripetevano a ogni intervista: quello che rendeva Carter diverso dalla maggioranza degli altri rapinatori era la pianificazione delle vie di fuga. Quante volte si sente parlare al TG di “rapinatori asserragliati in banca”? L’impressione in questi casi è che per il rapinatore non finisca mai bene. Spesso non finisce bene neppure per gli ostaggi.
Carter era diverso. Lui e la sua banda entravano in una filiale, la rapinavano, uscivano e sapevano sempre come svanire. Nessuno si faceva male, non seriamente. Una guardia giurata una volta era stata tramortita, era vero, ma in fondo farsi tramortire era il suo lavoro.
E Dale Carter... Dale Carter era il nuovo Dillinger, quasi un secolo dopo. Affascinante, astuto, imprendibile.
La gente tifava per lui. Che cosa faceva di male, in fondo? Rapinava banche. Le banche rapinavano tutti noi su base giornaliera senza che nessuno glielo impedisse... che provassero un po’ anche loro a vedere come ci si sentiva.
Questo era quello che pensava l’uomo comune e questi erano i motivi per cui Dale Carter era diventato una sorta di eroe popolare. I giornalisti ne parlavano con una vaga ammirazione, l’FBI veniva derisa per non essere ancora riuscita a prenderlo. Cosa di cui tutti o quasi erano felici.
“Tanto la banca è assicurata” dicevano gli intervistati fermati per strada dopo una rapina. Non era proprio così e i crimini di Carter non erano crimini senza vittime, ma la gente non lo sapeva o preferiva ignorarlo.
Tutti lo adoravano. Gli uomini volevano essere come lui, le donne volevano finire a letto con lui. Era una specie di rock star, di attore hollywoodiano, di giocatore di football, appunto.
In internet potevi trovare le magliette con la faccia di Carter. C’erano pagine f*******: dedicate a lui. Fan-page, intendo.
Carter, d’altronde, non poteva lamentarsi per lo sfruttamento della sua immagine. Era ricercato dall’FBI e da un certo numero di polizie nazionali. Era in fuga. Sempre in fuga.
Dei suoi complici non si conosceva il nome o la faccia. Erano quattro, tra cui l’autista. Dalle telecamere di sorveglianza si deduceva che erano tutti uomini, ma non era sempre stato così. Durante le prime dodici rapine una di loro era quasi sicuramente una donna. La stampa continuava a impazzirci. Doveva essere la donna di Carter. Era ovvio, non poteva essere altrimenti. Forse poi si erano lasciati. Forse era morta. Forse si era ritirata. Forse era in maternità. Forse era ammalata. Forse era segretamente nelle mani dell’FBI. Forse...
Le ipotesi sulla cosiddetta “Lady Carter” erano diventate più folli di giorno in giorno, finché non avevano iniziato a spegnersi, anche se mai del tutto. Lei, comunque, non era ricomparsa.
Ma il centro del palcoscenico era occupato da Carter stesso. Di lui si sapeva quasi tutto, ormai. Quello che non si sapeva, i giornalisti potevano comunque inventarselo.
Carter era... fotogenico, mettiamola così. Aveva uno di quei visi interessanti e virili, gli occhi a fessura e un corpo appetitoso, tutto snello, sodo, ma anche working-class. O comunque, quella era l’impressione generale, perché di lui non c’erano delle foto ben fatte, in tempi recenti, ma solo fotogrammi delle telecamere di sicurezza o foto “rubate” con il cellulare dalle vittime stesse delle rapine. Guardando la cosa con distacco, era una follia.
Poi, ovviamente, c’erano le sue foto da ragazzo, attorno ai diciotto anni. Le avevano vendute i suoi stessi genitori e in realtà l’idea mi faceva un po’ schifo.
Questo lungo preambolo per spiegare che quando incontrai Carter per la prima volta lui era considerato una specie di s*x symbol e una specie di eroe, più che un rapinatore. Io non avevo un’opinione precisa, se non sul livello di decenza tenuto dai miei colleghi: dal bassissimo al nullo.
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Mi chiamo Robin Hare e sono una giornalista. Mi occupo della sezione cultura e spettacolo del Richmond Times-Dispatch. Dato che il mio è un giornale locale mi trovo a coprire un po’ di tutto, dai concerti ai matrimoni, dalle mostre alle fiere. Non la cronaca, comunque, e men che mai la cronaca nera. Non sono quel tipo di giornalista.
Quando incontrai Carter, quindi, non stavo inseguendo una notizia né nulla del genere. Anche perché, diciamocelo, era un po’ difficile che io “inseguissi” una notizia. Di solito sceglievo tra i comunicati stampa di quali eventi occuparmi.
Ero semplicemente in banca per cambiare tipologia di conto corrente. Il mio aveva troppe spese e non usavo metà delle opzioni che prevedeva.
Entrai nella mia sede della EVB e mi misi in coda per parlare con un addetto. Era quasi primavera e la giornata era calda, quindi indossavo solo dei pantaloni di lanina e un maglione a lupetto. Ai piedi avevo delle decolté con il tacco a spillo, ma non troppo alto, e a tracolla avevo la mia solita borsa gigantesca piena di cose. La giacca l’avevo lasciata in macchina. Non prevedevo di metterci molto. Prevedevo di sbrigare le mie cose e tornare in ufficio, mangiare qualcosa di veloce e poi fare un salto all’inaugurazione di una mostra sulle palle di cannone antiche. Questo era il genere di notizia eccitante che coprivo normalmente. D’altronde... ero uscita dal college solo un anno prima: la consideravo la mia gavetta.
Mentre aspettavo guardai il mio riflesso nella vetrata, un po’ per vanità un po’ per trovare qualche difetto. I pantaloni erano stropicciati, ma non al punto da essere sciatti. Il mio caschetto corto con le mèches bionde e ramate aveva bisogno di una messa in piega, ma non urgentemente. Nel complesso la mia figura snella faceva una buona impressione, mentre avrei potuto fare di più sul versante trucco, dato che quella mattina mi ero giusto data un velo di mascara e un po’ di blush.
Stavo comunque raggiungendo un verdetto moderatamente a mio favore quando tutto cambiò. La vetrata in cui mi stavo specchiando andò in frantumi e nella filiale entrarono quattro uomini armati.
La cosa che mi colpì di più fu la loro tranquillità. Il vetro si era sbriciolato praticamente in verticale, senza che le schegge schizzassero da nessuna parte. I rapinatori avevano un passo veloce, ma non correvano. Tre di loro indossavano dei passamontagna neri e imbracciavano delle mitragliette, il quarto aveva una pistola ed era Dale Carter.
Fu lui a parlare.
«Restate fermi e nessuno si farà del male. Per favore, tutti i clienti si spostino verso...»
«Posso avere un autografo?» strillò una giovane donna alla mia destra. La fissai allucinata.
Dale Carter non fece una grinza. Le rivolse un piccolo sorriso. «Dovrebbe prendere la situazione con più serietà, signorina: questa è una rapina, forse non l’ho ancora detto».
Mentre lui parlava i suoi complici ci facevano spostare di lato puntandoci le mitragliette contro. Non so che cosa avesse in mente l’idiota che voleva un autografo, ma faceva paura. Le mitragliette nere facevano paura e gli sguardi freddi dei rapinatori erano terrorizzanti.
Mi spostai in fretta, cercando di non intralciare e sentii un suono simile a un “pop”. Non feci in tempo a chiedermi che cosa fosse, perché sentii un forte dolore a una gamba. Così forte che la gamba cedette e mi trovai per terra.
Qualcuno gridò.
Cercai di rialzarmi, di mettermi almeno a sedere, ma il dolore aumentava e aumentava. Guardai verso il basso e vidi che sull’interno della mia coscia destra si allargava una macchia scura. Sul pavimento di marmo della banca c’erano delle strisciate rosse. Liquido rosso che gocciolava dalla mia gamba.
«Butta quella pistola! Buttala, ho detto!» sentii gridare. Ma non era proprio un grido. Era un ordine ad alta voce. Vidi Carter che puntava l’arma contro un uomo in jeans e giaccone. «Buttala subito, idiota. Tu, vai a prendere il kit del primo soccorso» aggiunse, rivolto a uno dei suoi uomini. Nel frattempo il tizio in giaccone aveva buttato l’arma per terra e un altro dei rapinatori la stava spingendo via con un calcio.
Davanti agli occhi avevo delle strane macchie bianche e stavo piangendo. Non avevo ancora capito che cosa mi fosse successo, ma la gamba mi faceva male, tanto male. La gente parlava tutta insieme. Avevo paura.
«State calmi. Non fate rumore. Tu, chiama un’ambulanza».
La voce di Carter continuava a essere tranquillissima. Due dei rapinatori continuavano a tenere sotto tiro i cassieri, ma non si stavano facendo consegnare i soldi né nulla del genere.
«Tempo?» chiese Carter, mentre gli porgevano una valigetta del primo soccorso.
«Centottanta secondi» rispose quello più vicino alla vetrata in frantumi.
«Okay» disse lui. Si infilò la pistola in tasca e si accucciò accanto a me. «Non sembra niente di grave» disse. Aprì la valigetta. «Non c’è molto sangue. Ti fa male?».
«S-sì...» singhiozzai io. Ma vederlo così calmo in qualche misura aveva calmato anche me.
«Tra poco arriverà l’ambulanza» mi disse lui. Mi slacciò i pantaloni. Non pensai nemmeno per un secondo di oppormi. Era così tranquillo. Sembrava un paramedico. «Non credo che sia l’arteria femorale. Non sembra proprio. Ma comunque... come ti chiami?».
«R-Robin. Robin Hare».
«Okay, Robin. Ora ti piego la gamba. Solo un pochino. Mi sa che farà male».
Subito dopo lo fece. Mi fece piegare il ginocchio e mi abbassò ancora un po’ i pantaloni. Vedevo la pelle chiara della mia coscia tutta sporca di sangue e una ferita scura da cui usciva altro sangue. Tutta la parte interna della mia coscia era imbrattata, i miei slip avevano una macchia rossa come se mi fosse venuto all’improvviso il ciclo.
Carter era accucciato accanto a me, in equilibrio sulla punta dei piedi. Vedevo i suoi jeans, la sua cintura di pelle, la giacca di velluto a coste marrone bruciato, imbottita, e la camicia blu che aveva sotto. Una brochure nella tasca interna della giacca di qualcosa di nome Mechanics Cooperative, un odore di dopobarba leggero.
Mi spruzzò sulla ferita del betadine spray e iniziò a bendarmi. «Andrà tutto bene, Robin, non è grave. Tempo?» chiese, di nuovo, a voce più alta.
«Ventitré» rispose lo stesso tizio di prima. Stava guardando un cronografo o roba del genere.
«Adesso ce ne andiamo» riprese a parlare Carter. Sicuro e tranquillizzante. Confusamente, pensai che avevano interrotto la rapina. Qualcuno mi aveva sparato e avevano interrotto la rapina.
«Che... che cosa...»
«Quel tizio lì voleva fare l’eroe, dolcezza. La sua mira fa davvero schifo, ma per fortuna non ha preso niente di vitale. Fossi in te gli farei causa, però» commentò Carter, con un mezzo sorriso.
Per la prima volta lo guardai in faccia. Il suo sguardo era concentrato, le sue mani continuavano a lavorare mentre parlava. Riuscì persino a rivolgermi un sorrisino tranquillizzante. Aveva delle piccole rughe attorno agli occhi, pensai. Piccole rughe espressive. Anche gli occhi erano calorosi. Sì, era bello, ma non perché avesse una bella faccia o un bel fisico. Era bello perché era lì al cento percento.
«C-Carter?» chiesi.
«Già» confermò lui, con un altro mezzo sorriso. «Tempo?».
«Dodici».
Carter bloccò la fasciatura e si alzò in piedi.
«Grazie a tutti per la collaborazione. Tranne all’idiota lì, è chiaro. Lei dovrebbe vergognarsi, signore. Sarà per un’altra volta».
Fece cenno ai suoi complici di uscire e quelli lo fecero, continuando a tenere sotto tiro l’interno. In quanto a Carter, si voltò e se ne andò.
Si sentì uno stridore di freni, all’esterno, e poi il rombo di un motore. Tutto lì. Se ne erano andati.
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Il calo della tensione mi mandò praticamente K.O. Mi trovai attorno delle persone, poi paramedici, poi venni sollevata e caricata su una barella. Qualcuno mi sfilò del tutto i pantaloni. Venni coperta con un qualcosa di dorato, un telo termico, e infilata in un’ambulanza. Vicino a me un paramedico in uniforme fluorescente e un poliziotto con un taccuino che prese il mio nome, i miei dati e mi chiese che cos’era successo. Cercai di spiegarglielo nel modo migliore possibile, ma sbrigativamente.
Al pronto soccorso mi disinfettarono e mi medicarono. Mi diedero un bel po’ di antidolorifici e mi ficcarono in una stanza singola. Almeno quello. Un medico venne a visitarmi e mi spiegò che andava tutto bene e che il giorno dopo avrei potuto andarmene. Poi vennero due tizi dell’FBI e mi chiesero di nuovo che cosa fosse successo. Glielo raccontai piuttosto stringatamente. Mi dissero di non parlarne con nessuno e mi spiegarono che non potevo ricevere visite. Mi dissero che davanti all’ospedale era pieno di giornalisti che volevano parlare con me.
Mi resi conto di non avere il cellulare. Era rimasto nella mia giacca, in macchina. Chiesi ai due federali di poter avvisare i miei genitori che stavo bene e loro me lo concessero.
Alla fine, quando ormai era il primo pomeriggio, restai sola. Non avevo praticamente più nulla, perché i vari sanitari che si erano occupati di me mi avevano spogliata per curarmi. Indossavo uno di quegli odiosissimi camicioni da ospedale aperti dietro e per andare in bagno potevo decidere se camminare scalza o mettermi le scarpe con il tacco a spillo. Dato che con le seconde non riuscivo a camminare ci andai scalza. Mi lavai anche un po’, già che c’ero, e tornai a letto.
Accesi la TV e scoprii che ero diventata famosa.
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Ovviamente era tutto folle. Se prima Carter era stato una specie di anti-eroe, ora era un eroe vero e proprio. Aveva rinunciato alla rapina per soccorrere una vittima innocente. L’uomo che mi aveva sparato veniva criticato da tutte le parti: da sinistra perché c’erano in giro troppe pistole e guarda che cosa succede quando tutti possono avere un’arma; da destra perché non spari a casaccio in mezzo a dei civili. L’uomo che aveva sparato, per inciso, era una guardia giurata fuori servizio.
Carter, ovviamente, era un dio o giù di lì. La tizia che gli aveva chiesto un autografo venne intervistata e mancò poco che desse a tutti il suo numero di telefono nella speranza che lui la chiamasse. Un altro cliente presente in banca fornì un resoconto più sobrio, ma rovinò tutto commuovendosi sul finale. Sembravano tutti pronti a erigere una statua del loro rapinatore di banche preferito.
Un esperto (spuntava sempre fuori un esperto) spiegò che la banda di Carter aveva continuato a seguire la tabella di marcia della rapina pur in assenza di rapina. Erano molto organizzati. Erano dei professionisti veri. La loro priorità era diventata subito soccorrere il ferito (io) perché se fossi morta alle loro accuse si sarebbe aggiunta anche la complicità in un omicidio. La banda di Carter stava sempre attentissima a non peggiorare la sua posizione legale, ci informò. Dal tono in cui parlava la sua ammirazione era evidente.
Mi chiesi che cavolo ci fosse da ammirare, in uno, solo perché non aveva lasciato crepare dissanguato un altro essere umano. Mi chiesi anche se a qualcuno fosse venuto in mente che senza la rapina io comunque non avrei avuto una coscia bucherellata.
Verso le sei di sera ero ormai assonnata. Mangiai il cibo insapore dell’ospedale e reclinai un po’ di più il letto, attenuando le luci.
Stavo quasi per addormentarmi quando entrò un paramedico ispanico in uniforme azzurra.
«La porto a fare una lastra, signora» mi informò, con un lieve accento sudamericano.
Sbadigliai e annuii. In realtà ne avrei fatto anche a meno. Inoltre mi sembrava che mi avessero già fatto una lastra.
Ma in fondo non aveva importanza. Il paramedico mise qualcosa dentro un sacchetto giallo per i rifiuti organici, poi mi aiutò a sedermi su una carrozzella.
«Prendo le sue scarpe» mi spiegò. «Se le venisse freddo ai piedi. Vuole un telo per coprirsi un po’ meglio?».
Apprezzai la premura. «Sì, grazie» dissi.
Mentre lo dicevo per la prima volta voltai la testa per guardarlo in faccia. Un Dale Carter con la carnagione scura e i capelli neri mi coprì con un telo verde e mi sorrise, per poi afferrare le maniglie della mia sedia a rotelle e spingermi fuori dalla camera.