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Il richiamo della foresta

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Blurb

Buck, figlio di un San Bernardo e di una femmina di razza Collie, passa le proprie giornate in tranquillità nella valle di Santa Clara. Un giorno, il giardiniere della villa, per pagare alcuni debiti lo ruba, rivendendolo come cane da slitta in Alaska a una coppia di cercatori d’oro. Nonostante il radicale cambiamento di vita, il cane impara ad adattarsi alle nuove regole diventando col tempo un leader rispettato dai compagni della muta. Dopo questa esperienza viene nuovamente venduto a Charles, a sua moglie e al fratello, un trio di improvvisati avventurieri che non sanno come gestire un branco di cani da slitta e nemmeno come fronteggiare l’ostile territorio dell’Alaska. Incontrano durante il loro viaggio John Thornton, un vero amante della natura e dei cani che capisce subito le condizioni pessime nelle quali versa il povero Buck, ormai allo stremo delle forze e denutrito. Dopo averlo liberato, il nuovo padrone cura il cane e lo riporta agli antichi splendori di forza e coraggio. Sempre in viaggio alla ricerca dell’oro, una notte, di ritorno dalla caccia, il protagonista trova Thornton e i suoi compari trucidati dagli indiani che stanno festeggiando l’avvenuto massacro. Buck, solo contro tutti, riesce a vendicare il suo amico/padrone uccidendo tutti i pellerossa. Ormai libero si unisce a un gruppo di lupi conosciuto nel frattempo seguendo così il proprio richiamo della foresta.

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CAPITOLO 1
CAPITOLO I Verso i primordi Buck, non leggendo i giornali, non poteva sapere i guai che si preparavano non solo per lui ma per tutti i cani di grandi dimensioni, di forte muscolatura e di lungo e caldo pelo fra lo stretto di Puget e San Diego. Perché gli uomini scavando nelle buie profondità dell'Artico, avevano trovato un biondo metallo, e le compagnie di navigazione e di trasporti ne avevano diffuso la notizia facendo accorrere migliaia di cercatori nelle regioni del Nord. Questi uomini avevano bisogno di cani, e i cani che cercavano dovevano essere forti, di robusta muscolatura per sopportare le fatiche, e con folte pellicce che li proteggessero dal freddo. Buck viveva in una grande casa nella vallata di Santa Chiara baciata dal sole. Era detta la "Proprietà del giudice Miller". Un po' lontana dalla strada, era mezzo nascosta tra gli alberi, attraverso i quali si poteva scorgere la grande e ombrosa veranda che la circondava dai quattro lati. Si giungeva alla casa per viali di ghiaia che andavano per vasti prati sotto i rami intrecciati di alti pioppi. Sul dietro tutto era costruito in dimensioni più vaste che sul davanti. Vi erano grandi stalle, a cui accudivano una dozzina di mozzi e di stallieri, file di casette rivestite di vite selvatica, per la servitù, e una distesa ordinata e senza termine di costruzioni minori, i lunghi filari di viti, verdi pascoli, frutteti, e cespugli. Vi era un impianto per il pozzo artesiano, e la grande vasca di cemento dove i ragazzi del giudice Miller facevano il bagno tutte le mattine e prendevano il fresco al pomeriggio. Buck regnava su questa vasta tenuta. Lì era nato e lì era vissuto per quattro anni della sua vita. E' vero che vi erano altri cani: non si sarebbe potuto fare a meno di altri cani, in una proprietà così vasta; ma non contava. Andavano e venivano, alloggiando nei popolosi canili o vivendo oscuramente nell'intimo della casa come Toots, il cagnolino giapponese, o Ysabel, la messicana senza pelo, strana creatura che raramente metteva il naso fuori dell'uscio o le zampe a terra. Vi erano inoltre i fox-terriers, una banda che gridava paurose minacce a Toots e a Ysabel guardandoli attraverso le finestre e sfidando una legione di cameriere che li proteggevano armate di scope e di strofinacci. Buck non era né un cane casalingo né un cane da canile. Il reame era tutto suo. Si tuffava nella vasca o andava a caccia con i figli del giudice; scortava Mollie e Alice, le figlie del giudice, durante lunghe passeggiate mattutine o crepuscolari; e, nelle serate invernali, stava sdraiato ai piedi del giudice davanti al camino scoppiettante della biblioteca. Si lasciava cavalcare dai nipotini del giudice o li faceva rotolare sulI'erba, e sorvegliava i loro passi nelle loro avventurose escursioni alla fontana nel cortile delle scuderie e anche più in là, verso i prati e i cespugli. Andava imperiosamente fra i terriers e ignorava Toots e Ysabel nel modo più assoluto, perché era un re: un re di tutto ciò che camminava, strisciava o volava nella proprietà del giudice Miller, compresi gli uomini. Elmo, suo padre, un grande San Bernardo, era stato il compagno inseparabile del giudice, e Buck prometteva di seguire le orme paterne. Non era grosso come lui: pesava solo centoquaranta libbre, perché sua madre Shep era una cagna da pastore scozzese. Queste centoquaranta libbre, tuttavia, a cui bisognava aggiungere la dignità che proviene da un buon vivere e da un universale rispetto, gli permettevano di comportarsi in un modo veramente regale. Durante i suoi primi quattro anni di vita aveva vissuto al modo di un aristocratico benestante; era orgogliosamente soddisfatto di sé, ed era anche un tantino egoista come sono spesso i gentiluomini di campagna per il loro stesso isolamento. Ma si era salvato dal pericolo di diventare solo un grasso cane casalingo. La caccia e gli altri esercizi affini all'aria aperta gli avevano tolto il grasso e rafforzato i muscoli; e l'amore per l'acqua era stato per lui, come per tutti quelli della sua razza, un tonico salutare. Questa era la condizione del cane Buck sullo scorcio del 1897, quando la scoperta dei giacimenti del Klondike, richiamò uomini da tutte le parti del mondo nel gelato Nord. Ma Buck non leggeva i giornali, e non sapeva che Manuel, uno degli aiutanti del giardiniere, era una conoscenza alquanto pericolosa. Manuel aveva una passione fatale: gli piaceva giocare alla lotteria cinese. Inoltre, in questo gioco, aveva una debolezza ancora più fatale: la fede in un sistema; e questo fu la sua rovina. Perché per giocare con un sistema bisogna avere molto denaro, mentre il salario di un aiuto giardiniere poteva bastargli solo a mantenere una moglie e una numerosa progenie. Nella memorabile sera del tradimento di Manuel, il giudice era a una riunione dell'Associazione dei Viticoltori, e i ragazzi si davano da fare per organizzare un circolo sportivo. Nessuno vide lui e Buck attraversare il frutteto dove Buck credeva di andare a fare una semplice passeggiata. Ad eccezione di un unico uomo, nessuno li vide arrivare alla piccola stazione di College Park. L'uomo parlò con Manuel e ci fu tra loro un tintinnio di monete. - Dovete impacchettare la merce prima di consegnarla, - disse rudemente lo straniero; e Manuel passò due volte una solida corda attorno al collo di Buck sotto il collare. - Torcetela e lo terrete fermo come vorrete, - disse Manuel, e lo straniero grugnì un cenno affermativo. Buck aveva accettato la corda con tranquilla dignità; certo era una cosa insolita: ma aveva imparato ad aver fiducia negli uomini che conosceva e a far loro credito di una saggezza superiore alla propria. Quando però i capi della fune furono messi nelle mani dello straniero, ringhiò in modo minaccioso. Aveva semplicemente espresso il suo scontento, pensando nel proprio orgoglio che questo equivalesse ad un comando. Con sua sorpresa la fune gli si strinse attorno al collo togliendogli il respiro. Furioso balzò addosso all'uomo, che lo fermò a mezza strada, lo strinse ancor più forte alla gola e con uno strattone se lo caricò sulla schiena. La fune strinse senza misericordia mentre Buck annaspava furiosamente con la lingua penzoloni fuori della bocca e il grande petto anelante. Mai in vita sua era stato trattato così vilmente, e mai in vita sua si era arrabbiato tanto... Ma le forze lo abbandonarono, la vista gli si annebbiò, ed egli non capiva più nulla quando i due uomini lo caricarono sul bagagliaio di un treno. Quando riprese i sensi si accorse che la lingua gli faceva male e che era sballottato in qualche cosa in movimento. Il fischio acuto di una locomotiva a un passaggio a livello gli fece capire dov'era: aveva viaggiato troppo spesso col giudice per non conoscere la sensazione di essere in un bagagliaio. Aprì gli occhi con l'angoscia di un re rapito. L'uomo gli saltò alla gola, ma Buck fu più svelto di lui: le sue mascelle gli afferrarono la mano e non la lasciarono finché non perse nuovamente i sensi. - Maledizione, ha un attacco, - disse l'uomo nascondendo la sua mano straziata al custode del bagagliaio che era accorso al rumore della lotta. - Lo porto a San Francisco per incarico del padrone; crede che un veterinario laggiù possa curarlo. Quel che era avvenuto in quella notte di viaggio, I'uomo lo raccontò con molta eloquenza nel piccolo retrobottega di una taverna del porto di San Francisco. - Ci ho guadagnato in tutto cinquanta dollari, - brontolava; - se lo avessi saputo non l'avrei fatto nemmeno per mille pagati l'uno sull'altro. La sua mano era avvolta in un fazzoletto insanguinato e il pantalone destro era stracciato dal ginocchio alla caviglia. - E quello che te l'ha venduto quanto ha preso? - domandò il padrone della taverna. - Cento, - fu la risposta. - Neppure un soldo di meno. - Fanno centocinquanta, - disse il taverniere facendo il conto, - ma li vale davvero. Il ladro si tolse la fasciatura sanguinosa e si guardò la mano lacerata. - Se non mi piglio l'idrofobia... - Vorrà dire che sei nato per essere impiccato, - disse il taverniere ridendo. - Sù, dammi una mano per imballare il carico, - aggiunse. Sbigottito, soffrendo tremendamente alla gola e alla lingua, mezzo morto, Buck cercò di resistere ai suoi tormentatori. Ma fu domato e abbattuto più volte finché i due riuscirono a limare il suo grosso collare di ottone; poi gli tolsero anche la fune e lo spinsero in una gabbia di legno. Rimase per il resto di quella spaventosa notte covando la sua rabbia e il suo orgoglio ferito. Non riusciva a capire che cosa significasse tutto questo. Che cosa volevano fare di lui quegli strani uomini? Perché lo avevano chiuso in quella stretta gabbia? Non riusciva a capacitarsi, ma si sentiva oppresso dal vago senso di una sciagura imminente. Più volte durante la notte balzò in piedi nel sentire aprire la porta, aspettandosi di vedere il giudice o almeno i ragazzi. Ogni volta era la faccia gonfia del taverniere che lo guardava alla fioca luce di una candela. E ogni volta il grido di gioia che già tremava nella gola di Buck si cambiava in un mugolio selvaggio. Infine il taverniere lo lasciò solo e al mattino quattro uomini entrarono e presero su la gabbia. Più che aguzzini apparvero a Buck come esseri diabolici, sudici e stracciati, ed egli si volse furioso contro di loro di là dalle sbarre. Gli uomini si misero a ridere e gli tesero un bastone che Buck subito addentò finché non comprese che era proprio quello che volevano. Allora si sdraiò tristemente e lasciò che la gabbia fosse issata su di un vagone. Poi lui e la cassa in cui era rinchiuso passarono per varie mani. Impiegati della ferrovia si presero cura di lui; fu portato in un altro vagone, un carro lo trasportò insieme a un mucchio di scatole e di pacchi su di un traghetto, dal traghetto fu portato in un grande magazzino ferroviario e finalmente messo su di un treno espresso. Per due giorni e due notti il vagone fu trascinato da fischianti locomotive, e per due giorni e due notti Buck non mangiò né bevve. Nella sua angoscia si era messo a latrare al personale del treno, che aveva risposto facendogli dispetti. Quando si gettò contro le sbarre fremendo e con la bava alla bocca, quelli si misero a ridere e a canzonarlo. Mugolavano e abbaiavano come vilissimi cani, miagolavano, agitavano le braccia e strepitavano. Tutto ciò era veramente ignobile, egli lo capiva; ma appunto per questo la sua dignità ne era maggiormente offesa e la sua rabbia cresceva sempre di più. Non badava molto alla fame, ma la mancanza di acqua gli dava crudeli sofferenze e portava la sua rabbia fino al delirio. Sensibilissimo com'era, il cattivo trattamento avuto gli aveva infatti dato un accesso di febbre alimentata dall'infiammazione della gola arsa e tumefatta. Era contento di una cosa: gli avevano tolto la corda. Quella corda aveva dato loro uno sleale vantaggio, ma ora che non c'era più, avrebbe potuto mostrare quel che sapeva fare. Non gli avrebbero certo messo un'altra corda al collo: su questo aveva già deciso. Non, mangiò né bevve per due giorni e per due notti, e durante questo periodo di pena accumulò una riserva di rabbia che prometteva male per il primo che gli fosse capitato davanti. Aveva gli occhi iniettati di sangue e si era trasformato in un demonio arrabbiato. Era così cambiato che lo stesso giudice non l'avrebbe riconosciuto. Gli impiegati del treno respirarono di sollievo quando lo scaricarono a Seattle. Quattro uomini portarono cautamente la gabbia dal vagone in un piccolo cortile dalle alte mura. Venne un omaccione con una maglia rossa che gli saliva fino al collo e firmò il registro del corriere. Buck indovinò che quest'uomo era un altro aguzzino e gli abbaiò furiosamente gettandosi contro le sbarre. L'uomo ebbe un riso crudele e afferrò un'ascia ed un bastone. - Non vorrete mica farlo uscire adesso! - chiese il corriere. - Sicuro, - rispose l'altro dando un colpo d'accetta alla gabbia per provarla. Immediatamente i quattro uomini che l'avevano portata balzarono via e, mettendosi in salvo sul ciglio del muro, si prepararono a osservare lo spettacolo. Buck si avventò sulle schegge di legno e vi affondò i denti pieno di furia; dovunque l'ascia si abbatteva dall'esterno egli si precipitava dall'interno ringhiando e latrando freneticamente ansioso di gettarsi sull'uomo dalla maglia rossa che continuava tranquillo il suo lavoro. - E adesso avanti, diavolo dagli occhi rossi, - disse l'uomo quando ebbe fatto nella gabbia un'apertura sufficiente perché Buck potesse passare. Nello stesso tempo lasciò cadere l'ascia e afferrò il bastone con la destra. Buck era veramente un diavolo dagli occhi rossi, tutto raccolto per scattare, col pelo irto, la bocca grondante di bava e un lampo folle negli occhi sanguigni. Si scagliò dritto contro l'uomo con le sue centoquaranta libbre di furia aumentate da tutta la passione accumulata in quei due giorni e in quelle due notti. A mezz'aria, proprio quando le sue mascelle stavano per chiudersi addentando, ricevette un colpo che lo arrestò di colpo facendogli battere i denti dolorosamente. Fece una capriola battendo a terra col dorso e col fianco. Non era mai stato colpito da un bastone in vita sua, e non riusciva a capacitarsi. Con un ringhio che era in parte un latrato ma assai più uno strido, balzò in piedi e si slanciò. Ancora fu colpito e gettato a terra. Questa volta comprese cos'era un bastone, ma la sua furia non gli permetteva di essere prudente. Caricò ancora una dozzina di volte, e ogni volta il bastone arrestò il suo attacco e lo stese a terra. Dopo un colpo più crudele, strisciò ai piedi dell'uomo troppo stordito per slanciarsi. Fece qualche passo barcollando mentre il sangue gli usciva dal naso, dalla bocca e dagli orecchi; il suo bel pelo era sporco di bava sanguinosa. Allora l'uomo fece un passo avanti e gli diede risolutamente un terribile colpo sul naso. Tutte le sofferenze che aveva avuto fino allora erano nulla in confronto del profondo spasimo che provò. Con un ruggito feroce, che sembrava quello di un leone, si slanciò ancora contro l'uomo, ma questi, passando il bastone dalla destra nella sinistra, lo afferrò con tranquilla sicurezza alla mascella inferiore e gliela torse. Buck descrisse nell'aria un giro completo e la metà di un altro. Picchiando poi a terra con la testa e col petto, s'avventò per l'ultima volta. L'uomo gli diede il capo di grazia che aveva accortamente serbato per ultimo, e Buck si abbatté come un cencio, privo di sensi. - Per domare i cani non ha l'eguale, ecco quel che dico, - gridò entusiasta uno degli uomini sul muro. - Druther doma un cane al giorno e il sabato due - rispose il corriere arrampicandosi sul suo carro e avviando i cavalli. Buck riprese i sensi, ma non le forze. Rimase sdraiato là dov'era caduto e gettò uno sguardo all'uomo dalla maglia rossa. - "Risponde al nome di Buck", - disse tra sé l'uomo leggendo la lettera del taverniere che gli annunciava la spedizione della gabbia e del suo contenuto.- Bene, Buck, ragazzo mio,- continuò bonariamente, - abbiamo avuto una piccola conversazione, e la miglior cosa che si possa fare adesso è di non pensarci più. Tu hai capito qual è il tuo posto e io so qual è il mio. Se sarai un buon cane, tutto andrà benone, ma se sarai un cane cattivo, te ne darò quante potrai portarne, capito? Così parlando gli carezzava senza paura la testa che aveva colpito così crudelmente, e sebbene il pelo di Buck si ergesse istintivamente al tocco di quella mano, egli sopportò la carezza senza protestare. Quando l'uomo gli portò dell'acqua, bevve avidamente e poi mangiò una generosa porzione di carne cruda, a pezzo a pezzo, prendendola dalla mano stessa dell'uomo. Era stato vinto, lo sapeva; ma non prostrato. Capì una volta per tutte che contro un uomo armato di un bastone non c'era niente da fare, imparò la lezione e non la dimenticò più per tutta la vita. Quel bastone fu una rivelazione: lo introdusse nel regno della legge primitiva. Le vicende della vita avevano adesso un aspetto più fiero; ed egli le affrontò con tutta la sagacia nascosta nella sua intelligente natura. Nei giorni successivi giunsero altri cani, in gabbie o al guinzaglio, alcuni docilmente altri infuriando e latrando come aveva fatto lui e, ad uno ad uno, li vide sottomettersi al dominio dell'uomo dalla maglia rossa. Ogni volta osservò lo spettacolo brutale e si fissò in mente la lezione: un uomo con un bastone fa legge, è un padrone che deve essere obbedito anche se non necessariamente amato. Su questo ultimo punto, Buck non cadde mai in colpa, sebbene vedesse dei cani che dopo essere stati picchiati facevano servilmente festa all'uomo, scodinzolando e leccandogli la mano. Vide anche un cane che non volle mai cedere né obbedire, e che infine fu ucciso nella lotta. Ogni tanto venivano uomini, degli stranieri, che parlavano ora rudemente, ora gentilmente e in tutti i possibili modi con l'uomo dalla maglia rossa. E quando passava fra di loro del denaro, gli stranieri se ne andavano portando con sé uno o più cani. Buck si domandava dove andassero, perché non tornavano mai indietro. La paura del futuro era forte in lui, e ogni volta si rallegrava di non essere stato scelto. Venne anche il suo turno sotto forma di un ometto magro che parlava un cattivo inglese con molte espressioni strane e insolite che Buck non capiva. - Sacredame! - gridò scorgendo Buck. - Quello un buon forte cane! Eh? Quanto? - Trecento ed è regalato, - fu l'immediata risposta dell'uomo in maglia rossa. - E poiché è denaro del governo, non vorrete contrattare, eh, Perrault? Perrault rise. Considerando che i prezzi dei cani erano andati alle stelle per la straordinaria richiesta, non era quella una somma eccessiva per un così bell'animale. Il governo canadese non ci avrebbe rimesso, e le sue spedizioni non sarebbero state meno veloci. Perrault s'intendeva di cani e guardando Buck comprese che di cani simili se ne poteva trovare uno su mille. - Uno su DISMILLE, - commentò fra sé. Buck vide passare denaro fra loro e non si meravigliò quando, insieme con Curly, una brava cagna di Terranova, fu portato via dall'ometto magro. Fu l'ultima volta che vide l'uomo dalla maglia rossa, e quando, insieme con Curly, dal ponte del Narwhal, guardò il porto di Seattle che si allontanava, fu l'ultima volta che vide le calde terre del Sud. Lui e Curly furono condotti da Perrault sotto coperta e consegnati a un gigante dalla faccia bruna chiamato François. Perrault era un franco-canadese di carnagione bruna; ma François era un franco-canadese di mezzo sangue e ancor più bruno di lui. Appartenevano ad un tipo di uomini che Buck non conosceva, ma che in seguito avrebbe incontrato in gran numero, e sebbene non si affezionasse a loro, li rispettò tuttavia lealmente. Capì subito che Perrault e François erano brave persone, calme e imparziali nell'amministrare la giustizia, troppo esperte in fatto di cani per poter essere ingannate. Sotto il ponte del Narwhal, Buck e Curly incontrarono altri due cani. L'uno era un grande animale dal pelo bianco che era stato portato dallo Spitzberg dal capitano di una baleniera, e che aveva poi partecipato ad una spedizione geologica alle isole Barrens. Aveva una certa cordialità traditora, sempre in festa anche quando meditava qualche tiro, come quando, ad esempio, rubò la porzione di Buck durante il primo pasto. Buck già si preparava a punirlo, ma in quel momento stesso la frusta di François fischiò nell'aria raggiungendo il colpevole; e Buck non dovette fare altro che ricuperare il suo cibo. Concluse che era stato quello un bel gesto da parte di François e il mezzosangue salì molto nella sua stima. L'altro cane non diede manifestazioni di amicizia né ne ricevette; e non cercò di rubare niente ai nuovi venuti. Era un tipo triste, imbronciato, e fece capire subito a Curly che desiderava essere lasciato solo altrimenti ci sarebbe stata baruffa. Si chiamava Dave, mangiava, dormiva, sbadigliava nel frattempo e non si interessava a nulla nemmeno quando il Narwhal attraversò lo stretto della Regina Carlotta, e si mise a rullare, a beccheggiare e a scuotersi come un indemoniato. Mentre Buck e Curly, eccitatissimi, sembravano impazziti dalla paura, egli alzò la testa con un gesto di noia, volse loro uno sguardo distratto, sbadigliò e tornò a dormire. Giorno e notte la nave vibrava sotto il continuo impulso delle eliche, e sebbene i giorni scorressero eguali, Buck si accorse che l'aria diveniva più fredda; infine, un mattino, l'elica si fermò, e il Narwhal, fu pervaso da un'atmosfera di eccitazione. Buck se ne accorse al pari degli altri cani, e capì che stava per avvenire un cambiamento. François mise loro il guinzaglio e li portò sul ponte. Al primo passo sulla superficie fredda le zampe di Buck affondarono in qualche cosa di bianco e di morbido, molto simile al fango. Balzò indietro sbuffando. Una gran quantità di quel fango bianco si agitava nell'aria. Si scosse; ma continuava a venirgli addosso. Annusò curiosamente quella cosa e provò a leccarla. Sembrava fuoco e subito scompariva. Buck non capiva. Provò ancora con lo stesso risultato. Intorno a lui quelli che lo guardavano ridevano forte ed egli si sentì pieno di vergogna senza sapere perché: era la prima neve che vedeva.

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