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La lunga fenditura frastagliata della valle si estendeva sotto i suoi occhi come un solco blu-verde, i fianchi delle montagne coperti da una vegetazione fitta, ostile e magnifica. Ogni volta in cui la sorvolava in ricognizione, lo spirito di Risah cantava. Il vento le sferzava il corpo e le arruffava le penne, l’aria portava i suoni lontani del bosco, quel silenzio rumoroso che sembrava respirare.
Risah completò il terzo giro di perlustrazione e planò fino a sfiorare le cime degli alberi. Solo per il gusto di farlo, solo perché la vita le scorreva nelle vene forte, e dolce, e aspra.
Si sollevò al di sopra del crinale e si lanciò in una picchiata vertiginosa, stridendo di gioia.
Quando il falcone strinse gli artigli sul suo guanto di cuoio, Risah tornò in sé.
Accarezzò Kor sulla testa e gli disse «Bravo». Gli diede un brandello di carne essiccata dalla borsa che aveva in vita. Kor la ingollò senza masticarla, l’epiglottide che scattava nel collo bruno. I suoi occhi erano brillanti come gemme gialle. Avevano un legame, loro due, il legame che ogni falconiera ha con gli occhi e le ali che la portano in cielo, ma Kor pretendeva anche, sempre, costante rispetto.
Risah lo lasciò andare e Kor salì verso la torre dove aveva il nido. Risah abbandonò a malincuore la terrazza di pietra baciata dal sole e tornò verso l’interno della rocca.
«Tutto come al solito?» chiese la vedetta.
«La valle è sgombra» rispose lei.
Scese lungo le scale di legno lucido e pietra. L’adrenalina del volo si stava già esaurendo, sostituita dalla preoccupazione per le notizie che dovevano arrivare quel giorno.
Un marito.
Risah non sentiva la minima necessità di un marito, per di più di un marito sconosciuto e di un mondo lontano.
Ma era suo dovere, quindi si sarebbe adattata.
Sua sorella Maya le andò incontro nel corridoio fuori dal salone del terzo piano, segno che le notizie che aspettavano erano già arrivate.
Risah si tirò indietro i capelli, la folta chioma nero-blu che amava e odiava. Avrebbe voluto dire qualcosa, ma non ci riuscì. Deglutì a vuoto, cercando di non dimostrarsi spaventata.
«Aspettavamo te per vederlo».
Risah deglutì di nuovo. «Ah, è...» non sapeva come continuare.
«È della tribù degli Shanti» le venne in aiuto Maya. «Il pianeta è Surraja. Dicono... hanno la fama di essere belli, i loro uomini».
«Sì?» disse Risah. Riuscì a rivolgerle un sorrisino dispettoso. «Ora vediamo».
E avrebbe dovuto venirle in mente qualcosa, lo sapeva. Un’immagine mentale, un ricordo, una nozione scolastica semi-sepolta nella sua memoria. Ma si sentiva la testa vuota e pesante. Le sembrava che non le avessero mai nominato Surraja, non sapeva dove fosse: in quale sistema, quanto lontano dal loro mondo, nemmeno un’informazione basilare sulla sua geografia. Era un pianeta coperto d’acqua? Desertico in larga parte? Freddo? O era uno dei molti mondi con diversi continenti e aree climatiche?
Neppure degli Shanti ricordava di aver studiato qualcosa. Era una delle ventiquattro tribù, per forza, ma quale? Vivevano solo su un pianeta, o erano sparpagliati per tutti i sistemi dell’Antico Popolo?
Seguì sua sorella nel salone. Pavimenti di legno lucido, quasi rosso, e pareti coperte da una grande libreria. La luce ancora chiara del pomeriggio bagnava la stanza entrando dall’alta bifora.
Suo padre era seduto su una sedia imbottita di pelle giallastra. Aveva un’espressione seria, non felice, ma neppure affranta. Il patto tra le ventiquattro tribù parlava chiaro: i primogeniti dovevano stringere matrimoni con l’appartenente a un’altra tribù. Anche la madre di Risah non era stata una Enner e non era nata sul loro pianeta, Narja.
Risah avrebbe voluto saperne di più della sua tribù di provenienza, avrebbe voluto che qualcuno le avesse insegnato le loro tradizioni, ma Efeni era morta quando lei era ancora una bambina e di lei non si parlava tutt’ora volentieri. Risah sapeva per certo solo che era della tribù degli Zelor, un popolo dai poteri mentali sviluppati quanto gli Enner, se non di più.
Degli Shanti non ricordava proprio nulla, almeno in quel momento.
«Vediamo questo marito, vuoi?» disse suo padre, in tono gentile.
Risah annuì, anche se forse avrebbe preferito vedere la sua video-lettera da sola, prima di condividerla con il resto della famiglia.
Maya posò l’emittente per terra e la accese.
Poco dopo in mezzo alla sala compariva l’immagine di un uomo, leggermente sfarfallante. Passarono un paio di secondi, prima che l’uomo iniziasse a parlare, istanti che Risah usò per studiarne l’aspetto.
Con un certo divertimento, si trovò a pensare che somigliasse a Kor. La sua era una delle tribù dei pianeti desertici, senza dubbio. La carnagione del suo futuro sposo era olivastra, i capelli di un castano appena più scuro della sua pelle, con vaghi riflessi dorati. Aveva i lineamenti affilati, gli occhi chiari a fessura, un paio di linee verticali sulle guance. Alto, snello, spalle larghe e fianchi stretti, chiaramente tirato a lucido in fatto di efficienza fisica, il tutto coperto da abiti morbidi e beige, composti di diversi strati.
Era bello, sì, non si poteva negare. Risah ne fu sollevata, ma provò anche una punta di preoccupazione. Un uomo più brutto sarebbe stato di certo grato di averla in moglie. Questo? Non era detto.
Il suo futuro sposo rivolse un mezzo inchino rispettoso all’aria davanti a sé e si raddrizzò subito. Parlò con un accento morbido e un po’ strascicato.
«Onorevole famiglia Andorr della tribù dei Narja... Onorevole Risah Andorr, mia legittima consorte. Mi rivolgo a voi secondo le usanze dell’Antico Popolo, per rendere definitivo e vincolante il legame tra le nostre due famiglie».
Risah si rese conto che aveva qualcosa tra le mani e che stava leggendo. Il che era confortante, perché significava che sapeva leggere.
«Rispettosamente, mi presento. Il mio nome è Maren Kabal, della famiglia Kabal, della tribù degli Shanti. Così come gli Andorr proteggono e amministrano la regione delle valli del... mmm, Klokt, su Narja, i Kabal proteggono e amministrano da sei generazioni la regione della distesa del Dolar, su Surraja. Ti do il benvenuto tra la mia gente, Risah. Che il nostro legame sia saldo e prospero».
Per il momento era tutto un bla-bla prestampato e Risah si chiedeva se il suo futuro sposo avrebbe detto qualcosa di anche appena interessante.
«Come prescrivono le consuetudini, mi impegno a...» Maren lanciò un’occhiata un po’ scettica al suo foglio, forse in cerca dell’eufemismo ufficiale «...generare due volte con te, in modo che il nostro sangue si unisca a vantaggio di entrambe le nostre tribù. Quando il frutto del nostro legame sarà...» un’altra occhiata al foglio «...sbocciato... sbocciato? Ehm, quando sarà sbocciato entrambi saremo considerati liberi dai nostri obblighi».
Era chiaro che del termine “sbocciato” non aveva una grande opinione. D’altronde dire “quando i marmocchi saranno svezzati, potremo finalmente andarcene per la nostra strada” non sarebbe stato bene. Per quanto il senso del panegirico fosse proprio quello.
Maren mise da una parte il foglio e continuò in tono più sbrigativo e meno fiorito.
«Sfortunatamente sono impegnato sul fronte di Kairak, per cui non potrò adempiere alla mia parte dell’accordo per ancora almeno sei mesi. Suggerisco che tu rimanga sul tuo pianeta, con la tua famiglia, ma se dovessi vederla in modo diverso le porte delle mie tende, nel Dolar, sono aperte per te. Aspetto con impazienza la tua comunicazione formale».
A dire il vero non sembrava molto impaziente, non più di Risah, quanto meno.
«Visto che non sempre mi sarà possibile mandarti notizie in video, conto di scriverti ancora via testo non appena tutte le carte saranno pronte. Saluto rispettosamente te e la tua famiglia».
Dopo un altro mezzo inchino, la sua immagine svanì.
Risah restò in silenzio. Si aspettava che ricevere quella lettera avrebbe reso il suo futuro più chiaro, ma per il momento non sapeva che cosa pensarne.
Sua sorella Maya emise una risatina.
«Rivediamolo, Risah. Voglio misurarlo!»
Lei sbatté le palpebre.
«Misurarlo?»
«Esatto. Voglio sapere quant’è alto. Tu non vuoi saperlo?»
«Non particolarmente».
Maya sbuffò. «Sei la solita. Spero che tuo marito non sia privo di entusiasmo quanto te!»
In realtà, Risah sperava proprio il contrario.
Registrò la risposta più tardi, in camera sua. Nel frattempo si era documentata sugli Shanti e aveva anche letto i documenti del matrimonio.
Maren Kabal aveva trentasette anni ed era alla terza leva obbligatoria nelle Forze Congiunte dell’Alleanza Tribale. Aveva raggiunto il grado di tenente e aveva pure ricevuto un paio di onorificenze. E aveva aspettato fin quasi alla scadenza dei termini prima di sposarsi con una donna di un’altra tribù, come prescriveva la legge.
Le donne dovevano sposarsi entro i trent’anni, gli uomini entro i quaranta. Erano matrimoni di servizio che, nel migliore dei casi, duravano tre-quattro anni. Il tempo di concepire due bambini e svezzarli. Ma era piuttosto comune che la famiglia creata a tavolino durasse di più, perché i genitori intendevano crescere i figli nelle rispettive tradizioni.
In quanto alle tradizioni degli Shanti, Risah non era sicura che le sarebbero piaciute.
La tribù degli Shanti viveva quasi esclusivamente su Surraja, un mondo a circa un mese di viaggio da Narja. Pianeta scarso di acqua e vegetazione, quasi del tutto desertico e percorso da gigantesche tempeste di sabbia.
Gli Shanti erano un popolo semi-nomade, vivevano in grandi tende capaci di resistere alle tempeste e credevano nella separazione dei ruoli. Alle donne non era consentito combattere o esprimere opinioni in fatto di guerra. Molte di loro non studiavano, non avevano una professione, si occupavano solo della famiglia e dei bisogni della tribù.
Risah non era sicura di voler mettere piede su Surraja. Senza dubbio, lei e suo marito avrebbero potuto concepire anche su un mondo più civile.
Da questo punto di vista, che Maren stesse combattendo su Kairak tornava a suo vantaggio. Kairak era a tre mesi di viaggio da Surraja. Maren non ci sarebbe tornato prima della fine della leva, nessuna licenza poteva essere così lunga. Avrebbero dovuto incontrarsi su qualche altro pianeta. Purtroppo Risah dubitava che Maren sarebbe stato d’accordo su un’inseminazione artificiale, anche se sarebbe stato certamente più comodo per entrambi. Molte tribù la consideravano una violazione dell’essenza del Patto. Che senso aveva che due primogeniti di tribù diverse si sposassero, se poi non si incontravano nemmeno per concepire e non avevano rapporti diretti? Persino su Narja la pratica era guardata con sfavore.
Risah sospirò e mise via il volume sulla storia dei popoli. Sperava che quel libro fosse datato o inaccurato e che gli Shanti fossero molto più evoluti di come li dipingeva l’autore.
Per la registrazione indossò un abito molto neutro: non troppo elegante, ma non sciatto, assolutamente non rivelatore, ma neppure concepito per nascondere del tutto le sue fattezze. Un abito di spessa seta scura, con riflessi verdastri, chiuso in vita da un’alta fascia damascata. Risah sul suo mondo era considerata gradevole, persino bella se si impegnava un po’, ma chissà che cosa ne avrebbe pensato Maren Kabal. Forse l’avrebbe trovata troppo magra, o troppo pallida, o non gli sarebbe piaciuto il contrasto tra il colore della pelle e i capelli nero-blu. O, ancora, avrebbe trovato insignificante il suo viso.
Di certo era probabile che vedesse la sua video-lettera insieme ai suoi commilitoni, quindi Risah intendeva essere molto formale.
Prese il foglio con il testo che avrebbe letto e iniziò a registrare.
«Onorevole tenente Maren Kabal, Onorevole famiglia Kabal della tribù degli Shanti, porgo a voi tutti i miei rispettosi saluti e vi ringrazio per avermi accolta tra la vostra gente. Che il nostro legame sia saldo e prospero».
O anche no, Risah intendeva restare legata a Maren giusto per il periodo strettamente indispensabile.
«Come prescrivono le consuetudini, mi impegno a generare due volte con te, Maren, in modo che il nostro sangue si unisca a vantaggio di entrambe le nostre tribù. Quando il frutto del nostro legame sarà sbocciato entrambi saremo considerati liberi dai nostri obblighi».
Era troppo presto per dirgli che comunque lei era favorevole all’inseminazione assistita?
Forse sì, specie se lui era un tipico esponente della sua cultura.
Si limitò a un sorriso educato, solo di bocca.
«Mi farà senz’altro piacere ricevere tue notizie via testo. Se avrai voglia e tempo di parlarmi delle tradizioni della tua gente, te ne sarò grata. Auguro a te e ai tuoi commilitoni sul fronte di Kairak salute e vittoria. Che gli spiriti vi proteggano».
L’ultima era la parte più insincera della video-lettera. Infatti, se Maren fosse morto in guerra, lei sarebbe stata libera da ogni obbligo. Non era abbastanza per augurargli di crepare, ma di certo non rendeva molto sentiti i suoi auguri.