INTRODUZIONE DELL’AUTRICE
Ti ho chiesto io, creatore, dal fango
Di farmi uomo? Ti ho chiesto io
Di trarmi dal buio?
J. Milton, Il Paradiso perduto, X, vv. 743-45
Gli editori delle Standard Novels, scegliendo Frankenstein per una delle loro collane, hanno manifestato il desiderio che io fornissi qualche ragguaglio sull’origine del racconto. Mi fa piacere accontentarli, per dare finalmente una risposta comune alla domanda che mi è stata posta tanto di frequente: come giunsi io, allora fanciulla, a concepire e a sviluppare una storia così terrificante? È vero che sono contraria a parlare di me pubblicamente, ma siccome questa narrazione apparirà solo in appendice a uno scritto già composto e riguarderà me esclusivamente in quanto autrice, difficilmente potrò accusarmi di intrusioni personali.
Non è strano che io, quale figlia di due note personalità letterarie, abbia pensato sin da giovanissima di scrivere. Bambina, già scrivevo; e il mio passatempo preferito durante le ore lasciate allo svago era metter giù storie. Ma avevo un diletto più caro di questo: costruire castelli in aria, indulgere in sogni a occhi aperti, inseguire folle di pensieri, interminabili successioni di avvenimenti immaginari. I miei sogni erano, all’inizio, più fantasiosi e piacevoli dei miei scritti. In questi ero una pura imitatrice, ripetevo quanto altri avevano già fatto piuttosto che assecondare le impressioni della mia mente. Ciò che scrivevo cadeva almeno sotto gli occhi di un’altra persona: il compagno e amico della mia fanciullezza. I sogni no; essi erano tutti e solo miei. Non ne parlavo a nessuno, erano il mio rifugio nella tristezza, il più dolce piacere della libertà.
Da fanciulla vissi soprattutto in campagna e trascorsi lungo tempo in Scozia e ne visitai i luoghi più pittoreschi, ma la mia residenza abituale era nei pressi di Dundee, sulle spiagge settentrionali del Tay, tristi e abbandonate. Tristi e abbandonate le chiamo ora nel ricordo, ma tali non erano per me, allora. Erano, anzi, il recinto sacro della libertà, la felice regione dove, inosservata, potevo comunicare con le creature della mia fantasia. Scrivevo, ma in uno stile alquanto banale. Sotto gli alberi del parco che circondava la nostra casa, o sui fianchi aridi dei nudi monti vicini, lì nascevano e si accrescevano le mie vere invenzioni, slanci aerei della mia fantasia. Non ero io l’eroina dei miei racconti. La mia vita mi appariva troppo insignificante. Non mi figuravo di certo che romantiche avventure ed eventi meravigliosi si sarebbero verificati nel mio futuro, ma non ero chiusa in me stessa, nel mio io, e sapevo popolare il tempo di creature molto più interessanti per me, a quell’età, delle mie personali sensazioni.
In seguito la vita reale, sempre più densa di avvenimenti, prese il posto della finzione. Mio marito, tuttavia, fin dall’inizio si mostrò molto ansioso che io mi misurassi con i miei genitori e iscrivessi il mio nome sul registro della fama. Mi incitava senza tregua a guadagnarmi una reputazione letteraria, ciò che ora mi è infinitamente indifferente, ma che allora desideravo anch’io. Voleva che scrivessi non già nella convinzione che avrei prodotto qualcosa di notevole, ma per poter giudicare se io fossi una speranza per il futuro. Ma non facevo nulla. Ero allora tutta presa dai viaggi e dalle cure per la famiglia e le letture e le conversazioni con lui, tanto più colto di me, assorbivano tutta la mia capacità di studio.
Nell’estate del 1816 ci recammo in Svizzera dove fummo vicini di Lord Byron. Dapprima trascorremmo ore felici sul lago o passeggiando sulle sue rive e Lord Byron, che stava componendo il terzo canto del Childe Harold, era l’unico che riuscisse a mettere i suoi pensieri sulla carta. Poi, quando ce li fece leggere, rivestiti di luce e di armonia, ci sembrò che consacrassero col sigillo della divinità le glorie del cielo e della terra che noi avevamo condiviso con lui. Ma il tempo umido, un’estate inclemente, una pioggia incessante, ci confinarono in casa per lunghe giornate. Ci vennero tra le mani alcuni volumi di storie di fantasmi, tradotte in francese dal tedesco; tra queste c’era L’amante infedele, dove l’eroe, quando cerca di stringere a sé la sposa con la quale ha scambiato voti solenni, si accorge di avere tra le braccia il cereo spettro di colei che aveva tradito. C’era il racconto di un peccatore, capostipite della propria stirpe, che un crudele destino condannava a baciare, con un bacio di morte, i figli della sua infausta casata, proprio quando costoro arrivavano all’età delle promesse. Allora la sua gigantesca, inconsistente immagine racchiusa, come il fantasma di Amleto, in una completa armatura, ma con la visiera sollevata, compariva a mezzanotte tra i bagliori incerti della luna e avanzava lenta lungo il viale buio. L’apparizione si perdeva nell’ombra delle mura del castello, ma d’improvviso un cancello si schiudeva. Si udivano dei passi. Si apriva la porta di una camera; lo spettro si avvicinava al giaciglio del giovane immerso in un sonno tranquillo. Un inestinguibile dolore si stampava sul suo viso nel momento in cui si chinava a deporre il bacio sulla fronte del giovane che, da quell’istante stesso, appassiva come un fiore falciato. Da allora non ho più letto quei racconti, le cui vicende sono però incise nella mia memoria come le avessi lette ieri.
“Ciascuno di noi scriverà una storia di fantasmi”, disse Lord Byron e la sua proposta fu accettata. Eravamo in quattro. Il nobile scrittore cominciò un racconto, un frammento del quale fu stampato alla fine del suo poema Mazeppa. Shelley, più adatto a ricoprire di splendore e di scintillanti fantasie idee e sentimenti e a donar loro la musica del più melodioso dei versi della nostra lingua che a mettere a punto la struttura di una storia, ne iniziò una ricordando alcuni avvenimenti della sua infanzia. Il povero Polidori elaborò l’atroce idea di una dama dalla testa ridotta a teschio, così punita per aver spiato attraverso il buco di una serratura. Cosa vi avesse visto l’ho dimenticato; qualcosa di sconvolgente e sconveniente, certo. Ma quando ella fu ridotta così, molto peggio del ben noto Tom di Coventry, Polidori non seppe più cosa farne e fu costretto a relegarla nella tomba dei Capuleti, l’unico luogo degno di lei. Anche gli illustri poeti, stanchi della banalità della prosa, abbandonarono ben presto un compito così poco congeniale.
Io continuavo ad arrovellarmi per trovare una storia all’altezza di quelle che ci avevano spinti all’impresa. Una storia che testimoniasse i misteriosi terrori della nostra anima, che ci scuotesse con brividi di orrore. Una storia che facesse temere al lettore di guardare dietro di sé, che gli gelasse il sangue nelle vene e gli facesse balzare il cuore in gola. Se non fossi riuscita a ottenere tutto ciò, la mia storia di fantasmi sarebbe stata indegna di tale nome. Riflettei, ponderai: invano. Provavo quella totale incapacità di inventare che è la più grande disperazione di uno scrittore, allorché il puro Nulla risponde alle sue ansiose invocazioni. “Hai trovato la tua storia?”, era la domanda che mi si poneva a ogni risveglio, e a ogni risveglio ero costretta a una mortificante risposta negativa.
Ogni cosa deve avere un inizio, per dirla con Sancho, e questo inizio deve essere legato a qualcos’altro che viene prima. Gli Indu hanno posto il mondo su un elefante ma hanno messo l’elefante su una tartaruga. L’invenzione, bisogna ammetterlo con umiltà, non consiste nel creare dal nulla, ma dal caos. Prima di tutto si deve trovare il materiale; noi possiamo dar forma a una sostanza oscura e inerte, ma non possiamo creare la sostanza stessa. In tema di scoperte e di invenzioni, anche quelle che appartengono al regno dell’immaginazione, torniamo continuamente alla storia di Colombo e dell’uovo. L’invenzione consiste nella capacità di cogliere le possibilità di un soggetto e nel saper dar forma e attrattiva alle idee che contiene in sé.
Lunghe e numerose furono le conversazioni tra Lord Byron e Shelley, e io vi prendevo parte come devota ma pressoché muta ascoltatrice. Durante una di queste si discusse di varie dottrine filosofiche, della natura dell’origine della vita e della possibilità di scoprirne e decifrarne la vera essenza. Si parlò anche degli esperimenti del dottor Darwin (non di ciò che egli ha realmente fatto o affermato di aver fatto, ma di quanto si diceva allora che avesse fatto, cosa molto più interessante per il mio intento), il quale aveva conservato sottovetro un segmento di vermicello finché non si era mosso, sospinto da un’energia di origine ignota. Ma dopotutto ciò non significava “dare la vita”. Forse un cadavere poteva essere rianimato: con il galvanismo si era ottenuto qualcosa del genere; forse le diverse parti di un corpo potevano essere manipolate, riunite e animate da un nuovo soffio vitale.
Scese la notte su questi discorsi ed era già trascorsa l’ora delle streghe allorché ci ritirammo per dormire. Ma quando poggiai la testa sul guanciale non potei prendere sonno e neppure potrei dire che stessi pensando. L’immaginazione, senza che lo volessi, si impadronì di me guidandomi: le immagini si susseguivano nella mia mente vivide come non mi era mai accaduto prima, travalicando i confini consueti della fantasticheria. Vedevo - a occhi chiusi ma con la mente ben desta - lo studioso di una scienza sacrilega, pallido, inginocchiato accanto alla cosa che aveva messo insieme. Vedevo l’orrida forma di un uomo disteso, poi una macchina potente entrava in azione, il cadavere mostrava segni di vita e si sollevava con movimento difficoltoso, solo parzialmente vitale. Doveva essere terrificante: come terrificante sarebbe l’effetto di qualsiasi opera umana che riproducesse lo stupendo meccanismo del Creatore del mondo. L’artefice è atterrito dal proprio successo. Pieno d’orrore fugge da quella sua spaventosa creatura. Forse spera che, abbandonata a se stessa, la debole scintilla di vita che vi ha acceso si spegnerà; che quella cosa cui ha dato un’animazione così imperfetta sarà risucchiata nella morte. Potrebbe addormentarsi, certo che il silenzio eterno della tomba calerà sull’attimo di vita di quell’essere orrendo al quale egli aveva guardato come alla cuna della vita. Scivola nel sonno, poi si scuote, riapre gli occhi: la cosa è lì, in piedi, accanto al suo letto, ne sta aprendo le cortine e lo fissa con occhi giallastri e acquosi, ma penetranti.
Io aprii i miei per il terrore. La visione mi possedeva a tal punto da darmi brividi di paura; volevo sostituire quelle fantasie orripilanti con la rassicurante realtà che mi circondava. La rivedo ancora adesso nei particolari: la stanza, il parquet scuro, la luna che tentava di penetrare attraverso le persiane chiuse, e la consapevolezza del lago ghiacciato e delle alte cime innevate delle Alpi al di fuori. Non riuscivo a scacciare quel fantasma pauroso, mi perseguitava. Dovevo cercare di pensare ad altro. Mi aggrappai all’idea della mia storia di fantasmi, la mia noiosa, sfortunata storia! Oh, poterne concepire una che spaventasse il lettore come io mi ero spaventata quella notte!
Improvvisa come la luce e come questa benvenuta, giunse l’idea: “L’ho trovata! Come ha terrorizzato me terrorizzerà anche gli altri! Non ho che da descrivere lo spettro che si è posato sul mio cuscino a mezzanotte”. La mattina seguente annunciai di aver trovato una storia. Cominciai lo stesso giorno con le parole: Fu in una notte tetra di novembre, e mi limitai a trascrivere il nero terrore del mio incubo da sveglia.
All’inizio pensavo a un racconto breve, appena poche pagine, ma Shelley insisté perché sviluppassi l’idea in forma più ampia. Se non debbo a mio marito alcun suggerimento né per la storia né per il filo delle emozioni, certo gli debbo molto per l’incoraggiamento e lo stimolo senza i quali la mia vicenda non avrebbe mai assunto la forma nella quale è stata presentata al mondo. Da questa affermazione devo escludere l’introduzione. Per quanto ricordo, essa fu scritta interamente da lui.
E ora, una volta di più, licenzio la mia mostruosa progenie perché segua la sua strada e prosperi. Nutro un affetto particolare per essa, nata nei giorni felici della mia primavera, quando morte e dolore non erano per me che parole, suoni privi di echi interiori. Le sue molte pagine mi parlano di numerose passeggiate, gite in carrozza, conversazioni appartenenti a un tempo in cui non ero sola e il mio compagno non era qualcuno che non incontrerò più su questa terra. Ma ciò ha un significato solo per me, tali associazioni non concernono affatto i lettori.
Voglio solo aggiungere qualche parola a proposito di alcune variazioni che ho apportato in seguito e che riguardano principalmente lo stile. La storia è immutata, né vi ho introdotto nuove idee o avvenimenti. Ho corretto il linguaggio là dove era così povero da sminuire l’interesse della vicenda, e questi interventi riguardano quasi esclusivamente l’inizio del primo volume; tutti sono confinati in parti secondarie della narrazione e ne lasciano intatto il nucleo e la sostanza.
M.W.S.
Londra, 15 ottobre 1831