Chapter 1
Miss Black
LA PERDIGIORNO
The Little White Chronicles
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Little Black Chronicles:
-Il mio incubo preferito
-Nella tana del lupo
-Il vampire bianco
-Segni sottili
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1.
Visto che Jean faceva di mestiere la perdigiorno l’inverno del 2009 aveva deciso di passarlo a Gerusalemme. Ma poi, subito prima di Natale, la situazione in città si era fatta di nuovo calda e Jean aveva pensato bene di migrare verso la Turchia, che le piaceva egualmente ma era più tranquilla.
Così aveva raccolto le sue tre valigie e aveva cercato un biglietto per Istambul. Ne aveva trovato uno per Roma, dove avrebbe potuto cambiare volo, e l’aveva comprato.
Lei e le sue tre valigie si erano imbarcate nel giro di due ore, lasciandosi alle spalle un appartamento in affitto quasi vuoto e qualche piatto non proprio pulito.
Si era accomodata nel suo posto in classe turistica con l’abituale, vago sorrisetto sulle labbra, incastrandosi tra due bambini saltellanti e un tizio senza un occhio.
La mamma dei bambini, una donna dall’aria burrosa, cercava di tenerli sotto controllo dalla sua poltroncina dall’altra parte del corridoio, ma, visto che non poteva raggiungerli, i due continuavano ad agitarsi sui sedili e a schiamazzare. Se la spassavano davvero, considerò Jean quando le arrivò una gomitata. Il bambino non se ne accorse nemmeno.
Era chiaro di capelli e con il naso all’insù, mentre il suo fratellino aveva i capelli un po’ più scuri e doveva essere minore di un paio d’anni. Per il resto le loro facce erano identiche.
La madre continuava a rimproverarli in italiano, mentre i due usavano un po’ l’italiano e un po’ l’ebraico.
L’uomo senza un occhio aveva appoggiato la testa vicino all’oblò fin dal decollo e guardava attraverso il vetro con aria esausta. L’occhio mancante era quello sinistro ed era coperto da una benda azzurro stinto, legata dietro alla testa con un grosso nodo.
Se non fosse stato per i capelli lunghi Jean avrebbe pensato che era un soldato israeliano in congedo, reduce da una brutta avventura. Ma i capelli scuri gli arrivavano quasi alle spalle, e la fascia che gli copriva l’occhio sembrava una contromisura provvisoria che era diventata definitiva, forse per indifferenza, forse per pigrizia.
«O forse per fretta» mormorò l’uomo.
Jean, che lo stava già guardando da diversi minuti fingendo di osservare le nuvole, aggrottò le sopracciglia. «Scusi?».
L’uomo sembrò risvegliarsi. Si voltò verso di lei con espressione incerta e disse, con voce debole: «Ho parlato ad alta voce?».
«Sì» rispose Jean, rassicurata. Sorrise. «Non ci crederà mai. Stavo pensando… uh, qualcosa, e la sua frase sembrava completare perfettamente il mio pensiero». Non sarebbe stato educato scendere nei dettagli.
L’uomo la guardò in silenzio per qualche secondo, forse chiedendosi se lo stesse prendendo in giro. Il suo unico occhio era di un blu molto scuro, cerchiato dalle occhiaie e arrossato. Il mento mostrava una barba di qualche giorno. Jean stimò che poteva avere una quarantina d’anni, e che negli ultimi tempi non se l’era passata tanto bene.
«Che strano» disse, l’uomo, alla fine. Anche se parlava in inglese aveva un accento straniero, molto leggero e impossibile da individuare. La sua voce era stranamente fiacca, malgrado questo Jean si sorprese di trovarla quasi minacciosa.
In ogni caso la conversazione sembrava terminata.
Prima che potesse dire altro l’uomo le aveva rivolto uno scarno sorriso ed era tornato a voltarsi verso l’oblò.
Anche Jean tornò alla sua occupazione precedente, ovvero l’osservazione dello strano passeggero.
Innanzitutto la forma del naso poteva richiamare un’ascendenza semita, anche se non era certo. Piuttosto aquilino, aveva le narici leggermente rialzate, ed era molto sottile. Il suo accento, tuttavia, non era quello duro degli ebrei, né quello più fesso dei palestinesi. La sua carnagione, inoltre, non sembrava del tipo mediorientale.
Era quasi raggomitolato in un maglione a coste larghe, di lana blu, e apparteneva sicuramente al tipo d’uomo fibroso che ha svolto del lavoro fisico.
Non sembrava che negli ultimi giorni se la fosse passata molto bene, riflettè Jean, dispiaciuta, e gli angoli esterni delle sue sopracciglia si piegarono all’ingiù.
«Me la caverò» disse lo strano passeggero, e Jean vide passare sul suo volto stanco, riflesso nel vetro, un veloce sorrisetto, prima che si voltasse verso di lei.
In quanto a lei, era a bocca aperta, con un’espressione da vera idiota.
«Non le ho letto nel pensiero» disse l’uomo. «È solo che ho visto il suo riflesso nel vetro. E poi... la pietà altrui si percepisce sempre, non trova?».
Adesso Jean non sapeva cosa dire.
«Ho passato alcuni momenti… non belli» aggiunse lui, mantenendo il medesimo tono calmo e basso, «ma ora me la caverò».
Lei annuì. «Ne sono sicura» si affrettò a dire. «Mi scusi se le sono sembrata un’impicciona». Ridacchiò. «Ma, sa, lei non se ne doveva accorgere!».
Invece di ridere con lei l’uomo si limitò a guardarla in silenzio per qualche istante. Era snervante, ma Jean trovava anche la cosa interessante. Alla fine lui le tese una mano.
«Gilles».
«Jean» disse, Jean, e strinse la sua mano. La pelle era secca, esattamente come immaginava, ma, al contrario di quanto immaginava, non era callosa. Sempre più strano.
«E lei, invece, che cosa fa nella vita?» le chiese Gilles.
Jean aveva detestato per molti anni quella domanda, ma ormai sapeva cosa rispondere senza più imbarazzarsi. «La perdigiorno» disse, quindi, con uno dei suoi sorrisetti vaghi.
Di solito la gente rideva, o almeno sorrideva. L’uomo, invece, inclinò la testa da un lato, serio, e Jean si rese conto che le ricordava un grosso uccello tipo aquila o falco, con la buffa, perplessa serietà dei rapaci e con lo stesso sottofondo minaccioso.
«Una sopravvissuta, in un certo senso» commentò lui, alla fine. «Era… oh, era molto tempo che non incontravo più una perdigiorno». Un lieve sorriso, quasi nostalgico. «Un tempo erano molto più comuni».
«In effetti sono quasi un caso unico. Voglio dire… se escludiamo i miliardari».
«Anche loro hanno sempre bisogno di una scusa per andarsene a zonzo. Un viaggio d’affari, una vacanza… lei non è in vacanza, vero?».
Jean sorrise. «Oh, no».
«Davvero» mormorò lui, e poi rimase in silenzio, guardandola con il suo unico occhio blu da falco. Non era uno sguardo insistente, tutt’altro, ma Jean si sentì ugualmente a disagio.
Per colmare il silenzio, rivelò: «Pensavo di andare a Istambul».
«Fugge dal Natale cristiano?» fu la strana risposta. Gilles scosse la testa. «Che sciocca usanza. Eppure Roma è sempre bella, anche a Natale».
«Non le piace il Natale?» chiese Jean, che invece, ora che ci pensava, l’adorava.
Gilles si mordicchiò pensosamente il labbro inferiore, un gesto che Jean trovò piuttosto sensuale, e aggrottò appena le sopracciglia. «Non mi piace la folla» corresse.
Poi il suo sguardo si spostò dal suo viso a qualcosa dietro di lei. Anche Jean si voltò. Uno dei due bambini stava osservando con grande interesse il suo compagno di volo.
Si guardarono per un po’, poi il bambino fece una domanda in italiano. Suo fratello gli diede una gomitata di rimprovero.
Sulla faccia di Gilles passò un veloce guizzo di divertimento, mentre rispondeva qualcosa, a sua volta in italiano. Il bambino rise.
Jean guardò l’uno e l’altro, senza decidersi a chiedere la traduzione.
«Voleva sapere se sono un pirata» riferì Gilles, serio, con la voce fiacca che assomigliava a un sussurro carezzevole. Di nuovo Jean lo trovò piuttosto sexy. «Gli ho risposto che si sbagliava, perché sono Babbo Natale. Ma di non dirlo in giro, per favore».
Jean ridacchiò scioccamente ma, sperava, educatamente.
«E così quando parte per Istambul?» cambiò argomento lui, con un lieve sorrisetto, «Jean la perdigiorno?».
Lei si lasciò sprofondare nella poltroncina.
«Tra…» una veloce occhiata all’orologio «…qualche ora».
L’uomo annuì in silenzio e scivolò anche lui nuovamente nella sua posizione iniziale. «Santa Sofia è ancora bellissima, con la neve» mormorò, distratto.
+++
A Fiumicino lo vide passare a qualche metro. Lei stava fissando un monitor con sguardo sconfortato, e chissà perché aveva distolto lo sguardo, posandolo, così, su di lui.
Sembrava che non avesse bagaglio e, ora che lo vedeva in piedi, doveva essere sul metro e ottanta, forse qualche centimetro in meno, snello e fibroso come aveva immaginato.
Era tornata a fissare il ritardo che si trasformava in cancellazione, le sue tre valigie ammonticchiate attorno.
Fuori dalle grande vetrate nevicava forsennatamente.
«Quando il tempo è così non si può sapere quando smetterà» disse una voce calma, alle sue spalle. Naturalmente era il suo compagno di volo, sarebbe stato impossibile non riconoscere il suo strano timbro.
«Se vuoi puoi fermarti da me, questa notte: ho un appartamento in città».
Jean esaminò la sua faccia alla ricerca di un ammiccamento o di un sorriso interessato, ma non ne trovò. Gilles sembrava assolutamente serio, gentile e quasi indifferente.
Non sapeva che cosa dire. Non sembrava quel genere di proposta, e tuttavia…
«È quel genere di proposta, Jean» spiegò Gilles, quasi sottovoce, avvicinando impercettibilmente la testa alla sua. Un lieve scrollare di spalle. «Ma io non sono quel genere di persona, se è questo che ti stai chiedendo. È solo una proposta: non è mia abitudine… insistere».
Jean si sentì scorrere lungo la schiena un lungo brivido di lussuria. Chi voleva prendere in giro? L’aveva trovato interessante al primo sguardo.
Gilles sorrise appena, raccolse due delle sue vecchie valigie, le sollevò senza sforzo e chiese, morbido: «Andiamo?».
Jean, confusa, prese l’ultima valigia e lo seguì tra i passeggeri in attesa, verso l’uscita dell’aeroporto.
«Come diavolo fai?» chiocciò, raggiungendolo.
Lui non si voltò nemmeno.
Forse non era una buona idea, pensò lei. Forse avrebbe dovuto girare sui tacchi e fermarsi in aeroporto. A giudicare dal suo aspetto lui probabilmente stava in una topaia in un obbrobrio ad alveare in qualche periferia degradata. Un posto che l’avrebbe fatta sentire triste e sola.
E poi che cosa ne sapeva di lui? Il solo fatto che le avesse fatto capire tra le righe di non essere un maniaco o peggio non significava che fosse vero.
«Se in una di queste valigie hai un cappotto è meglio che te lo metta. Nevica forte: sarà freddissimo».
Jean lo guardò un attimo. Si era fermato a una decina di metri dalle porte scorrevoli delle uscite, le due valigie in mano e l’aria impossibilmente neutra.
«In quella» rispose lei, indicandola.
Lui appoggiò il suo bagaglio nel punto del pavimento meno bagnato che trovò e lei tirò fuori il suo cappotto di montone. «Avrai freddo» gli disse, osservando il suo maglione e i pantaloni di cotone spesso.
«Probabile» le sorrise lui. Poi sollevò di nuovo le valigie e riprese il suo cammino verso l’uscita.
Appena fuori, il vento, soffiando sotto al portico, li colpì con una raffica di neve. I taxi si allineavano nella melma metà sciolta e metà ghiacciata che c’era a terra, con le catene alle ruote. I viaggiatori in arrivo li prendevano d’assalto stringendosi nei cappotti e cercando di coprirsi con gli ombrelli.
«Hai una carta di credito?» le chiese Gilles.
«Sì, certo» rispose lei, rassegnandosi a pagare la corsa.
«Grazie» disse lui, sorridendole senza alcun imbarazzo e sollevando mano e valigia verso un taxi in fondo alla fila. Il taxi, ovviamente, non si mosse di un millimetro, dovendo aspettare il suo turno.
«Ecco, ora, dovresti tirare fuori la carta di credito… e farla vedere a quel signore là, vedi?».
«Merda, ci spellerà vivi» si lamentò Jean, intuendo dove voleva andare a parare il suo stranissimo accompagnatore.
«Credo proprio di sì» replicò lui, pacifico.
Jean sospirò e tirò fuori la carta. La sventolò e il taxi in fondo alla fila scattò verso di loro sorpassando tutti gli altri.
Il conducente era un uomo basso e magro che sistemò in fretta le valigie di Jean nel bagagliaio e partì in silenzio dopo aver scambiato poche parole in italiano con Gilles.
Jean salì a bordo e lasciò che il silenzio ovattato dell’abitacolo tagliasse fuori il frastuono del marciapiede.
Gilles si raggomitolò in un angolo e si mise a guardare fuori dal finestrino.
Il cielo nero era interrotto dalla neve che vorticava nei coni di luce dei lampioni.
+++
Jean conosceva il posto per averlo visitato qualche anno prima. I Fori Imperiali erano quasi invisibili nella tempesta e il tassista sembrava particolarmente di fretta. Jean saldò senza fiatare il conto di centotrenta euro, riflettendo sul fatto che le sarebbe costato di meno dormire in albergo. A quanto pareva Gilles si era preso la libertà di offrire al guidatore una mancia di cento euro.
E non era nemmeno rimasto per guardare.
Non appena il taxi si era fermato era andato a prendere le valigie e, lasciandone come prima una a lei, si era avviato lungo il marciapiede innevato, sotto alla tempesta.
Jean l’aveva seguito arrancando fino ad un grande portone di rovere. Era consapevole del fatto che quelli erano i palazzi più patrizi di Roma e si chiedeva che cosa avesse in mente Gilles.
Lui suonò ad un citofono e attese.
Dopo quasi un minuto – era ormai notte fonda – una voce seccata rispose.
Lui rispose qualcosa di cui Jean capì solo “Gilles Leroy”. Il portone si aprì e lui la precedette in un vasto atrio di marmo, illuminato fiocamente da varie lampade a muro di vetro di murano e con delle verdeggianti piante in vaso.
Un ometto in pigiama e giaccone avanzava verso di loro emettendo un incessante mormorio in italiano. Sembrava sgomento per le condizioni di Gilles, ma l’altro tagliò palesemente corto e si limitò a prendere il mazzo di chiavi che l’ometto gli porgeva e a rispondergli con poche parole pacate.
Sottraendosi educatamente al tentativo di quello che evidentemente era il portiere dello stabile di portare le valigie, precedette Jean in un lussuoso ascensore e fin davanti a un’elegante porta di rovere. L’aprì e lo sentì disattivare l’allarme, subito dietro alla porta, al buio.
Poi accese la luce e le fece strada.
Jean rimase come paralizzata all’ingresso, mentre Gilles le richiudeva la porta alle spalle.
«Senti…» mormorò, con voce sottile.
«Vieni, mettiamo le tue valigie da qualche parte».
Jean fece vagare lo sguardo, smarrita, tra la faccia di lui e lo sfarzoso vestibolo con il pavimento di marmo colorato, i costosi dipinti alle pareti e – cosa più preoccupante – il lungo salone che si vedeva al di là.
«Vieni» la chiamò di nuovo Gilles, gentilmente.
Jean si decise a seguirlo.
+++
Si era fatta una doccia veloce. Il bagno che le aveva mostrato era lussuoso quanto il resto della casa, perfettamente pulito e lustro, anche se dovette tirare fuori gli asciugamani, morbidissimi e dotati di iniziali, da dei sacchetti sottovuoto e usare il suo shampoo e il suo bagnoschiuma.
Si era avvolta i capelli in un asciugamano e aveva indossato un paio di morbidi pantaloni kaki e una camicetta di raso color panna sopra a un paio di sandali di cuoio marocchino. Come predetto dal suo ospite la casa si era riscaldata velocemente e ora i fiocchi di neve che vorticavano all’esterno sembravano solo un suggestivo fondale da guardare attraverso gli spessi vetri delle finestre.
Visto che di Gilles non c’era ancora traccia Jean pensò che non ci sarebbe stato niente di male se avesse dato un’occhiata alla casa.
Sorrise pensando che aveva avuto paura che lui volesse rapinarla. In realtà sembrava molto fiducioso, per aver portato lì una sconosciuta.
I pavimenti erano tutti di marmi colorati. Formavano figure stilizzate di foglie e ricami, rosso, verde, giallo e bianco, coperti da spessi tappeti persiani, perfettamente puliti.
I mobili che non erano coperti dai teli bianchi riflettevano lo stesso nitore. Erano oggetti moderni, solidi, di legno massiccio finemente lavorato, forse costruiti su misura. Jean aveva visto alcune case di persone ricche, ma quella non assomigliava a nessuna. Non c’erano mobili di antiquariato né gingilli ultramoderni dappertutto.
Gli unici pezzi antichi che si vedevano in giro erano veramente antichi, e veramente pregiati.
Sopra a una deliziosa cassapanca di cedro c’era una statuetta di rame molto ossidata che era chiaramente greca e chiaramente del periodo ellenico. Su una mensola faceva mostra di sé un’altra statuetta, questa di terracotta, che a Jean ricordava nella forma l’area mediorientale, senza che riuscisse a definire meglio la sensazione.
«Assiria» disse la voce fiacca del suo ospite. «Ha un po’ più di duemila anni».
Gilles stava attraversando mollemente la stanza, andando verso di lei. Indossava solo una vestaglia di seta nera, ben chiusa in vita, e aveva sostituito la benda stinta con un foulard di seta ugualmente nero legato dietro alla testa con un grosso nodo complicato. Si era sbarbato e i suoi capelli mossi erano asciutti e lucenti.
«Allora mi tratterrò dal toccarla» sorrise Jean.
«Ma no, ma no» rispose lui, prendendole delicatamente la mano e facendogliela appoggiare sulla statuetta. «Se ha resistito a duemila e trecento anni di calamità, potrà ben resistere al tocco gentile di una perdigiorno americana…».
Jean sussultò due volte. La prima al tocco della mano di lui, la seconda quando sentì sotto le dita la consistenza terrosa della statuetta.
«Si sente così tanto che sono americana?» chiese. Aveva lasciato ricadere la mano lungo il fianco e Gilles continuava a circondarle morbidamente il polso con le dita.
Il viso di lui fu attraversato da un veloce sorriso. Lavato e sbarbato sembrava aver perso un po’ della stanchezza che dimostrava all’inizio, ma sotto al suo occhio destro c’erano ancora delle profonde occhiaie e la palpebra era arrossata.
«Non così tanto. E poi non è l’accento che conta».
Le sciolse l’asciugamano dalla testa e le spostò i capelli umidi dietro alle orecchie. «Mi piacciono i pragmatici abitanti del ventunesimo secolo… i nuovi padroni del mondo».
«Un bell’affare».
Lui sorrise ancora, autenticamente divertito. «Sì. Un bell’affare». Il suo occhio blu non l’aveva abbandonata un istante. Jean ricambiò lo sguardo. «Andiamo?» chiese, con espressione maliziosa.
Questa volta Gilles rise.
«E dove vorresti andare?» mormorò, iniziando a slacciarle la camicia con gesti distaccati e precisi. «Temi che un vecchio re assiro ti guardi con occhi concupiscenti – lo farebbe se non fosse solo un pezzo di coccio – o che il guerriero spartano scagli il suo giavellotto contro la tua nudità?». Le sfilò la camicia e la lasciò cadere per terra. Si accosciò per slacciarle i sandali.
«No, se posso scegliere, questa stanza è buona quanto un’altra» mormorò, sbottonandole i pantaloni e facendoli cadere ai suoi piedi.
Quando fu completamente nuda la condusse fino a un grande divano coperto e lo liberò dal telo con un gesto tranquillo della mano. I cuscini di pelle naturale non erano affatto impolverati.
La fece distendere e si accomodò accanto a lei, seduto comodamente, le gambe accavallate. Seguì con la punta di un indice il profilo di uno dei suoi seni. La accarezzò, la solleticò, prima con distacco e spietata efficienza, poi a piene mani, quasi febbrilmente, ma senza mai permettere di essere toccato.
Le si stese accanto e la fece rivoltare sulla pancia, poi la persuase a assumere altre posizioni, e ogni volta che lei raggiungeva il piacere lui la lasciava riposare un poco, prima di ricominciare in modo ancora più intenso.
All’alba erano ancora sul divano e lui le stava ancora dando piacere. Jean ormai non capiva più niente, come se fosse stata drogata, spossata fisicamente e mentalmente, eppure ancora desiderosa che lui continuasse.
Quando la luce fredda del giorno invase la sala lui si slacciò lentamente la vestaglia e la accolse sopra di sé. Ancora una volta si prese tutto il tempo.
Raggiunse il piacere con un gemito basso e ferino, solo dopo che lei ebbe emesso un lungo verso animalesco e insensato. Giacque al suo fianco in silenzio.