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Nel vortice

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Blurb

Quando una sua vecchia amica trascina Amanda Keel al concerto londinese dei Serial Vortex Amanda la segue senza entusiasmo. Il gruppo sembra uno dei soliti gruppi rock: cinque ragazzi texani, bellissimi (a parte il batterista) e pieni di sé. Quando la sua amica si intrufola nel backstage e riesce a farsi notare dal chitarrista, Amanda resta in corridoio a farle da palo. Ed è in quel corridoio che conosce Dorian Gray, il cantante del gruppo, la sua malinconia e la sua ironia. Amanda e la sua amica seguiranno i Vortex sul tour bus che li sta portando a Newcastle in due giorni di puro rock. Sembra che tutto finisca lì: Dorian torna negli States, destinato a diventare una rockstar, e Amanda continua la sua vita, ma... ormai è caduta nel vortice, anche se non ne è consapevole.

-

«Posso baciarti?» chiese, di punto in bianco.

Mi misi a ridere. «Da dov’è che vieni, tu?».

Lui sbuffò. «Abilene, Texas. Dalle mie parti lo chiediamo, prima di farlo».

Subito dopo, però, dimostrò che stava mentendo. Si sporse verso di me, sopra alle nostre mani intrecciate e mi trovai le sue labbra sulla bocca. Labbra morbide e un po’ secche. Un’ombra di barba sul mento, pungente.

Ora, forse l’ho già detto, ma era bello da far schifo. Era gentile e tranquillo e in fondo l’idea di farci un giro non mi dispiaceva in modo particolare. Risposi al suo bacio, rendendolo un po’ più profondo. Gli appoggiai una mano sul fianco, sotto alle lenzuola, e ci ritrovammo l’uno contro l’altra.

Continuammo a limonare per un pezzo, in quella cuccetta, sul tour bus, limitandoci a stare appiccicati e a sfiorarci al di sopra delle rispettive t-shirt.

«Quindi alla fine è vera, quella cosa delle groupie» sorrisi, in un momento di pausa.

Lui mi baciò di nuovo. «Come groupie non sei un granché. Non sapevi nemmeno chi fossimo, prima di stasera».

«Hai capito» dissi.

La sua mano, sul mio fianco, iniziò a tirarmi lentamente su la maglietta.

«Volendo, sì. Più che altro il nostro campione è Dave, ma non dirò di essermi sempre tirato indietro».

Ero eccitata, ma non ero completamente sveglia, se capite quello che intendo. Era un po’ come un sogno molto realistico, anche se sapevo che non stavo sognando. Forse era solo così naturale che non sembrava per niente strano essere lì, sopra quel tizio che conoscevo a stento, e sapere benissimo che stavo per farci del sesso.

CONTIENE SCENE ESPLICITE - CONSIGLIATO A UN PUBBLICO ADULTO

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1.
1. Conoscevo Sasha da un mucchio di tempo e anche se sapevo che quasi sempre portava guai non riuscivo mai a resisterle. Era il classico tipo per cui è normale incasinare le situazioni più semplici, mentre quelle complicate, con lei accanto, tendevano a diventare incubi. Nonostate questo... era mia amica, no? Dopo le superiori non ci eravamo più viste molto. Eravamo entrambe cresciute a Lambeth, io a West Dulwich, lei a West Norwood, ma a un certo punto le nostre strade si erano divise. Sasha era andata a lavorare come cameriera in un ristorante giamaicano, io all’università. Con questo non pensate che Sasha fosse scema. Non lo era per niente. Mentre io ancora cercavo di strappare alla London University una laurea in storia del teatro, lei si consociava a altre tre amiche e apriva un fast-food tutto suo. Si era sposata con un idiota di nome Jamaar, dal quale fortunatamente aveva divorziato tre anni dopo. Nel frattempo io avevo iniziato un’allegra relazione distruttiva con uno dei miei professori, un episodio sul quale non amo soffermarmi. Ne ero uscita con il cuore a pezzi e con una certa diffidenza nei confronti del genere maschile – specie se già sposato. Comunque, il tempo era passato e io avevo iniziato a lavorare come critica teatrale... e alla fine ero anche riuscita a viverci. Ogni tanto io e Sasha ci sentivamo e più raramente uscivamo a fare shopping o per andare da qualche parte, ma non eravamo più legate come un tempo, l’ho già detto. Quando mi chiamò per implorarmi di andare con lei al concerto dei Serial Vortex non ci vedevamo da qualche mese. «Ti prego, devi venire con me» mi disse, in tono lamentoso. «Ho io i biglietti. Ti passo a prendere alle nove?». Ora, io non sapevo nemmeno chi fossero i Serial Vortex. Glielo dissi, anche perché non mi fidavo molto dei suoi gusti in fatto di musica. «Ti piaceranno un casino. Fanno rock un po’ pesante, ma anche divertente. Vedrai. Alle nove sono da te!». Dato che aveva deciso lei, sospirai e andai a cercare questi cavolo di Serial Vortex su internet. Era un gruppo rock indipendente, con un suo seguito, ma non stra-famoso. Io e il rock non siamo esattamente compatibili, ma pensai che avrei potuto sopportare un concerto, posto che nessuno si prendesse a bottigliate durante lo show. Mi infilai un paio di jeans skinny neri, delle scarpe di tela nere e una maglietta di un festival teatrale verde e rossa. Mi legai i capelli in una coda e lasciai perdere il trucco, dato che probabilmente avrei sudato. Quando Sasha mi passò a prendere iniziai a pentirmi. Lei sembrava pronta per una sfilata. La sua pelle ambrata era luminosa, i suoi capelli formavano un casco di riccioli perfettamente circolare e aveva addosso... be’, uno straccetto dorato di dimensioni imbarazzanti. «Tesoro, almeno ce l’hai una bomboletta di Mace?» le chiesi, un po’ shoccata. Sasha rise. «Mi sono messa da combattimento, lo so. Ma ho un pass per il backstage e... come dire... voglio portarmi a letto Dorian Gray». Inarcai le sopracciglia. «Quello del ritratto?» chiesi, un po’ stupidamente. «Il cantante! Anche se in realtà sono tutti bellissimi, a parte il batterista, quindi sono flessibile». Sospirai, ma non dissi niente. Chi ero io per infrangere le sue illusioni? Probabilmente, una volta nel backstage avrebbe rimediato un autografo e le avrebbero permesso di scattarsi un selfie con la band. Io non ne sapevo niente di quelle cose, ma ero piuttosto sicura che gli anni ’70 fossero finiti da un pezzo e che nei backstage non succedesse niente di molto eccitante. Una volta arrivate nel locale in cui si sarebbe svolto il concerto scoprii che la maggior parte degli spettatori avevano un look più simile al mio che a quello di Sasha. Ossia, per lo più la gente era... ehm... vestita. In compenso il mini-abito della mia amica ci fece superare velocissimamente la coda d’ingresso e nell’arco di dieci minuti Sasha aveva in mano tre distinti drink, ognuno offerto da un diverso ammiratore. Vagamente indispettita, mi chiesi perché cavolo mi avesse voluto portare a tutti i costi, dato che era evidente che si sarebbe fatta un sacco di amici. Non fraintendetemi: non sono una bigotta. Non lo sono per niente. Solo che non trovavo così eccitante l’idea di andare a letto con un musicista semi-famoso mai conosciuto prima. In realtà, se anche fosse stato famoso-famoso non credo che sarebbe cambiato molto. Cioè: perché? Forse il suo status di cantante lo rendeva automaticamente un dio del sesso superdotato? Mah. Non dissi niente di tutto questo a Sasha e la seguii anche docilmente fin quasi sotto al palco. E mi presi pure le occhiatacce di tutti quelli che Sasha aveva preso a gomitate per arrivare lì, è ovvio. Il gruppo spalla rischiò di farmi mollare tutto e tornare a casa. E l’avrei anche fatto, se non fossi stata in macchina con Sasha. Dato che ero con lei, però, e che non avevo nessuna voglia di pagarmi il taxi fino a Camden, resistetti stoicamente a mezz’ora di grida gutturali. In fondo, non mi avrebbero uccisa. Nemmeno il resto del pubblico sembrò apprezzare molto l’esibizione degli urlatori e questo mi rassicurò leggermente. Se ai fan dei Vortex non erano piaciuti era probabile che i Vortex stessi facessero musica parecchio diversa. A quel punto avrei voluto aver ascoltato almeno un loro brano su YouTube, tanto per sapere di che morte dovevo morire. Quando finalmente il gruppo spalla sgomberò il palco tra la folla ci fu un movimento tellurico o quasi. Tutti iniziarono a spingere in avanti, e io e Sasha ci trovammo davvero vicinissime al proscenio, per quanto spiaccicate tra due muri di carne. Le luci si spensero e venne accesa una macchina del fumo – o qualunque fosse il termine moderno per quella roba. Forse dovrei dire che le mie esperienze con il rock si fermavano agli anni ’80. I miei erano dei cultori di un certo tipo di musica e io, come tutte le adolescenti, mi ero fatta un punto d’onore di odiare tutto quello che piaceva a loro. Quindi, mentre mamma e papà mi tormentavano con i loro gruppi New Wave, io mi dedicavo tranquillamente alla musica classica. Mentre loro cercavano di farmi appassionare agli ultimi rigurgiti del punk, io ascoltavo arie d’opera. Con la maturità avevo rivalutato alcune di quelle cose, ma sapete come sono le rivalutazioni a posteriori: intellettuali, mai davvero sentite. Il palco restò buio per cinque minuti abbondanti, poi partì un assolo di chitarra elettrica e il pubblico iniziò a urlare e a ondeggiare. Si accese un faretto bianco e brillante, mentre i Serial Vortex facevano il loro ingresso. Su una cosa Sasha aveva perfettamente ragione: erano tutti bellissimi tranne il batterista. Da dove ero ne avevo una visione ravvicinata, quindi non c’era da sbagliarsi. Proprio sopra di me c’era un tizio alto, biondo, con un viso dall’ossatura magnifica, che suonando muoveva il bacino languidamente, tutto concentrato ma anche molto sexy. Era lui il chitarrista dell’assolo. Dietro a una consolle-tastiera c’era un altro esemplare notevolissimo della specie maschile. Più grosso del chitarrista, indossava una canottiera nera che sembrava fatta apposta per mettere in risalto i suoi addominali e le sue braccia muscolose. Il cantante era più sul versante angelo oscuro, se capite quello che intendo. Capelli scuri e arruffati, viso pallido e tagliente, fisico snello e fibroso. Anche lui aveva una chitarra, ma doveva essere il secondo chitarrista, visto che non la suonava molto spesso. Il bassista era il tipo del college-boy. Capelli corti e castani, occhi grandi e chiari... decisamente piacevole anche lui. Tutta quella bellezza, lo confesso, mi innervosì un po’. È vero, c’era pur sempre il batterista a riequilibrare le cose, ma uno contro quattro non sembrava corretto. Il batterista, poverino, che era un ragazzo normale con il mento un po’ sfuggente, al confronto degli altri membri del gruppo sembrava brutto. Era del tutto normale, mentre gli altri quattro mi sembrarono subito dei pavoni intenti a fare la ruota. Stavo pensando più o meno questo quando il cantante iniziò a cantare. Aveva una voce bella e roca, espressiva senza essere sdolcinata. Con un distinto accento texano. Ora, non so perché, ma pensavo che i Serial Vortex fossero britannici. A quel punto li osservai meglio e, sì, effettivamente non avevano molto di britannico. Nello stesso tempo non avevano nemmeno il classico piglio statunitense, quindi forse, tutto considerato, avevano sul serio qualcosa di speciale. Mi rendo conto che è un buffo modo per arrivare a un’idea, ma questo fu il ragionamento che seguii, mentre Dorian Gray cantava. Smisi di pensarci poco dopo, iniziando ad ascoltare le parole e la musica. Le ascoltai seriamente, anche se non attentamente. Mi ritrovai e tenere il ritmo con il piede – un’espressione di entusiasmo piuttosto moderata, rispetto a quella di tutto il resto del pubblico. Sul palco volarono dei reggiseni, lo giuro. E un tanga. Il primo chitarrista lo prese al volo e ridacchiò, ma il cantante si limitò a scostare i reggiseni con un piede. Tra una canzone e l’altra ringraziò l’organizzazione, il pubblico e le maestranze, ma in qualche modo mi sembrò che la sua mente fosse altrove e che si stesse esibendo meccanicamente, seguendo un canovaccio dettato dall’abitudine. Forse fu solo un’impressione mia. Il resto degli spettatori sembrava soddisfattissimo. Nel complesso il concerto fu molto meglio di come mi aspettassi – e, be’, okay, me l’aspettavo insopportabile – e un po’ più breve di quanto pensassi. Naturalmente non mi illudevo che la mia serata finisse lì. Infatti, non appena l’ultima nota dell’unico bis concesso fu svanita, Sasha mi prese per un polso e mi portò verso il backstage. +++ Davanti alla porta per i camerini si accalcavano una moltitudine di persone. Era chiaro che chiunque conoscesse quel locale aveva individuato facilmente l’entrata per il backstage. Ancora una volta Sasha spintonò e prese a gomitate chiunque avesse davanti. Io sospirai, la seguii fedelmente e cercai di ignorare le occhiatacce. Una volta arrivata davanti ai tizi della security tirò fuori un invito speciale e quelli la lasciarono entrare. Sasha insistette perché facessero entrare anche me, nonostante io stessi già dicendo che l’avrei aspettata fuori. Fecero entrare anche me. Ora, non so che cosa si aspettasse lei, ma quello che trovammo oltre la porta fu più o meno quello che mi aspettavo io. Una saletta con alcune poltrone mal messe, un corridoio pieno di gente e un sacco di tecnici dall’aria stanca e innervosita. Il batterista “brutto” stava parlando con dei ragazzi che, a giudicare dalle magliette, dovevano far parte del fan club ufficiale dei Serial Vortex. Un tizio in jeans e giacca di pelle chiacchierava con alcune altre persone. Sasha mi lanciò un’occhiata smarrita e io mi strinsi nelle spalle. Ci appoggiammo alla parete del corridoio, aspettando chissà che cosa. Forse che i componenti della band uscissero dai camerini. Per come la vedevo io, poteva essere una lunga attesa, perché probabilmente lo staff tecnico doveva smontare l’attrezzatura che viaggiava con la band. «Quando escono?» continuava a ripetere Sasha, ogni cinque minuti. All’inizio cercai di darle delle risposte realistiche, ma dopo un po’ iniziai a dirle “presto” come se fosse una bambina piccola. E, alla fine, qualcuno uscì davvero. Il chitarrista biondo mise la testa fuori, solo la testa, e si guardò attorno. Aveva un’espressione assonnata e forse un po’ fatta. Sasha schizzò verso di lui, sorridendo e salutando. Con il suo tipico stile, travolse un paio di persone nel farlo. Il chitarrista la guardò dalla testa ai piedi, sorrise in modo un po’ idiota e iniziò a chiacchierare. Così, con solo la testa fuori dalla porta. Non ho idea di che cosa si dissero, ma Sasha dovette essere incisiva, perché dopo pochi minuti lui si fece da parte per farla entrare nel camerino. Sospirai e mi lasciai scivolare lungo il muro, fino a sedermi sul pavimento. Siccome se le cose possono peggiorare lo fanno sempre, dopo poco il tizio in jeans e giacca di pelle venne a dirci che dovevamo sloggiare, perché la band si preparava ad andarsene. Ci furono diverse proteste, alcune piuttosto accalorate, ma alla fine le persone accampate nel corridoio iniziarono a uscire, lasciandosi dietro un persistente puzzo di sigaretta e diverse lattine vuote. «Devi uscire anche tu» mi disse il tizio. Sospirai. «Lo farei pure, ma la mia amica è chiusa nel camerino con il chiatarrista e ha lei le chiavi della macchina» spiegai, in tono rassegnato. Il tizio mi lanciò una lunga occhiata. La mia espressione scoglionata dovette convincerlo che dicevo la verità. Mi aspettavo che mi dicesse di sgombrare lo stesso, ma lui si limitò a fare un gesto di rassegnazione. «Va be’, siediti nel salottino, allora». Feci come mi diceva. Per fortuna, porto sempre nella borsa qualcosa da leggere. Tirai fuori il tascabile spiegazzato che stavo rileggendo in quel momento e mi preparai a un’altra lunga attesa. Il tempo passò. «Chi sei tu? Che cosa leggi?». Alzai la testa di scatto presa alla sprovvista. A quel punto mi ero più o meno dimenticata dov’ero, ma me lo ricordai all’istante, dato che davanti a me c’era il cosiddetto Dorian Gray. Il quale indossava un maglione grigio, dei jeans neri e si stava sciugando i capelli con un asciugamano verde. «Ehm. Il palo» ammisi. Mi lanciò un’occhiata perplessa. «Cioè? È un termine inglese o...» Sospirai e indicai il corridoio. «La mia amica, Sasha, è chiusa lì dentro con il vostro chitarrista, il tipo biondo. Ha lei le chiavi della macchina. Inoltre, se sento urlare “oh, no, la frusta no” intervengo prontamente e... mh, mi faccio i fatti miei, a questo punto». Il cantante alzò gli occhi al cielo e borbottò: «Gesù, dobbiamo andarcene». Poi, però, tornò ad abbassare lo sguardo verso di me. «Va be’, riproviamoci: chi sei tu, e che cosa leggi?». Mi strinsi nelle spalle. «Sono Amanda Keel e sto leggendo Diario del ladro di Jean Genet». Poi, dato che era lì, impalato davanti a me, ne approfittai per togliermi una curiosità: «Perché Dorian Gray?». Lui sbatté lentamente le palpebre. «Tu non sei una fan» concluse. «Ehm, non proprio. Fino a stasera non sapevo nemmeno che esisteste. Ma il concerto mi è piaciuto» mi affrettai ad aggiungere, più che altro per educazione. Lui sbuffò, ma in modo divertito. «Mi chiamo proprio Dorian Gray, come quello del libro. Chi sarebbe Jean Genet? È un thiller?». Questa volta fui io a sbuffare. «No, è la sua autobiografia. Una specie, perché un sacco di parti sono inventate. Era un drammaturgo... un poeta... e anche uno scrittore, più o meno. Ma è importante specialmente per il teatro». «Inglese?». Scossi la testa. «Mondiale. Ma lui era francese». Dorian Gray, lì, annuì un po’ sbrigativamente, come se avesse perso interesse, e poi si voltò verso la porta del camerino del chitarrista. Ci batté sopra con il pugno un paio di volte. «Ehi, Dave! Dobbiamo andare, datti una mossa!». Tornò a guardarmi, mentre riprendeva ad asciugarsi i capelli. «Jean Genet» ripeté. E poi. «Amanda Keel. Quindi il concerto ti è piaciuto, mh?». «Già» dissi. «Anche se a volte sembrava che fosse un po’ tutta routine, per te». Lui fece una smorfia. «Si vedeva, quindi». «Un po’» ripetei io. Da un camerino uscì il tastierista, che adesso aveva addosso un giubbotto di jeans. «Dave non è ancora pronto, a quel che sento» commentò, senza considerarmi. «È dentro con una» spiegò Dorian. L’altro rise. «Non ci posso credere». «Credici. È dentro con una certa Sasha. David!» gridò, di nuovo. Il tastierista continuò a ridere. «E questa chi è?». «Il palo» spiegò l’altro. «Mi stava dicendo che ho fatto cagare, durante il concerto». «Non ho detto questo!» protestai. «Non hai fatto cagare. Andava bene, considerate le circostanze» replicò il tastierista, sempre senza considerarmi. Da un’altra porta spuntò il batterista “brutto” e, subito dopo, comparve anche il bassista. «Non ditemi che Dave non è ancora pronto». Ovviamente, a quel punto, il tastierista iniziò a spiegargli che Dave era chiuso nel camerino con una tizia. Il bassista non la prese bene come gli altri. Assunse un’espressione profondamente irritata e fece dietro-front, gridando: «Clem! Fatti dare la chiave del camerino di Dave... questa volta lo tiro fuori con la forza». «Clem sarebbe il nostro roadie» mi spiegò Dorian. Sorrisi e scossi la testa. «Ragazzi ingenui». Mi avvicinai anch’io alla porta del camerino. «Sasha? C’è tua madre al telefono... sembra urgente» dissi, a voce alta. Il tastierista mi lanciò un’occhiata ammirata. Esattamente dieci secondi dopo la porta del camerino si aprì e Sasha tirò fuori la testa. «Urgente come?». «Mi dispiace. Era un’imboscata. Pare che siano tutti incazzati con il chitarrista perché devono andare via. E, in realtà, anche a me non dispiacerebbe andarmene». Sasha mi guardò malissimo, ma io ressi il suo sguardo con tutta la tranquillità di questo mondo. «Va be’... arrivo subito» borbottò lei, richiudendo la porta. «Che poi, io vorrei sapere come fa» interloquì il tastierista. «Non c’è nemmeno una brandina, nei camerini. Solo qualche sedia. Non è scomodo?». «Evidentemente no» sospirò il batterista. Si voltò verso di me. «Grazie, comunque. Io sono John». «Amanda» mi presentai. Scoprii che il tasterista si chiamava Robert e il bassista, che stava ancora cercando il road manager, si chiamava John anche lui, ma tutti lo chiamavano Jack. Sasha uscì poco dopo. Non guardò in faccia nessuno dei membri del gruppo, ma mi prese per un braccio e mi portò un po’ più in là. Aveva il trucco praticamente sciolto e il suo mini-abito sembrava slabbrato. «Senti, Amy... io vado sul pullman con Dave. È, tipo... stellare, no?». Sgranai gli occhi. «Vai dove?». «Sul tour bus. Loro stanno andando a Newcastle. Vado con loro, okay?». Mi passai una mano sulla faccia, stanca e anche un po’ scoglionata. Mi sembrava di essere tornata adolescente, con la sola differenza che da adolescenti non avremmo mai potuto allontanarci dalla città così, senza preavviso, seguendo il primo belloccio di passaggio. «E dai, Sasha...» borbottai. «No, guarda, non puoi capire. È la fine del mondo. Vado con loro... domani prendo un treno o qualcosa. Oppure mi faccio anche la tappa di Newcastle, non so». «Non sai» ripetei io. Lei mi rivolse uno dei suoi tipici sorrisi. Un sorriso così spensierato e gioioso che aveva sempre l’effetto di disarmarmi completamente. In fondo... era adulta e vaccinata: che cosa poteva succederle? Perché impedirle di divertirsi? Sorrisi anch’io. «Be’, cerca di non fare scemenze, okay?». «Perché non vieni anche tu?» fece lei, prendendomi una mano. Nel frattempo, dietro alle sue spalle, stava scoppiando una specie di discussione isterica. Accantonai per un attimo l’impulsiva proposta di Sasha e guardai il resto della band che litigava. «Che cosa vuol dire che viene con noi?» stava strillando Jack, il bassista, che era tornato con i rinforzi, anche se troppo tardi. Dave il chitarrista, infatti, a quel punto era uscito dal camerino anche lui, quindi Clem il roadie non serviva più per tirarlo fuori. «Dorme con me... mica ti ruba l’aria» rispose Dave, scrollando le spalle. «Okay, ma se iniziamo a fare salire sul tour bus tutte quelle che...» «E piantala! Domani è l’ultima data! Non è mica colpa mia se hai giurato eterna fedeltà a quella...» «Quella?». «No, dico. Fantastica ragazza, Sienna. Però, insomma...» «Vorrebbero anche chiuderlo, questo posto» li interruppe il road manager. Mi resi conto che il litigio era più che altro tra il chitarrista e il bassista. Gli altri avevano tutti delle espressioni stanche e assonnate. «Senti, non darà fastidio a nessuno... vero, Sasha?» concluse Dave, con un sorriso indisponente. «Certo che no» si affrettò a rispondere lei. «Però viene anche la mia amica». Il bassista ruggì, fece un gesto esasperato, raccolse una borsa da viaggio e piantò tutti in asso, dirigendosi verso la porta dell’uscita posteriore a lunghi passi arrabbiati. «Okay...» sospirò il road manager. «La bambolina colorata dorme con te... e l’altra? Dorme con te anche lei? Nelle cuccette del bus?». «Ehi! Guarda che dire “colorata” è razzismo!» strepitò Sasha. «Giusto» approvò il chitarrista. «Che cazzo, Dave!» sbottò il roadie. Dorian Gray buttò il proprio asciugamano su una poltrona e se ne andò a sua volta. Mentre mi passava vicino mi prese per il polso e mi tirò via. «Dorme con me» sospirò.

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