2.

3648 Words
2. Tre settimane più tardi L’ufficio dell’agente di ms. Yates, Miranda McKay, era fatto di legno, vetro e superfici cromate, in uno stile moderno, ma non algido. Ad aumentare la sensazione di lusso c’era la location, nei pressi dello Strand, e il livello dell’immobile. Ryan fu lasciato in sala d’aspetto solo per qualche secondo, ma quel breve periodo gli bastò a farsi un’idea del posto in cui era. E a prendere nota di dove fossero l’uscita d’emergenza, gli estintori e il pannello della corrente. Era un riflesso condizionato. Fu Pemberton ad andargli incontro. Come Ryan si aspettava, era un uomo bianco sulla quarantina, con addosso un completo in giacca senza infamia e senza lode. Ryan non aveva ritenuto necessario un abbigliamento formale, quindi portava dei jeans, un bomber di pelle e scarpe da ginnastica. La gamba gli dava ancora qualche piccolo fastidio, ma nulla che si notasse a prima vista. «Grazie per essere venuto, Ryan. Mi raccomando, quando esci ricordati di passare dal bancone all’ingresso per il contrassegno del parcheggio sotterraneo». Era un curioso benvenuto, ma Ryan si limitò a rispondere “okay” e a seguirlo in quella che sembrava una sala riunioni. A capotavola era seduta una donna magra sulla cinquantina, capelli riccioli e biondi, twin set nero. Doveva essere l’agente. Poi un tizio stempiato, in completo, senza dubbio un altro poliziotto. Una ragazza cicciottella con un pullover rosa, sulla trentina, e un’altra alta e magra, sulla trentina anche lei. Tra le due, a Ryan la più adatta per fare stand-up sembrava fosse la prima, ma fu la seconda a guardarlo con espressione valutativa, senza muoversi dalla sua posizione, appoggiata a un basso schedario di legno. Ryan valutò di rimando. Ms. Yates aveva lunghi capelli scuri, lungo anche il viso, larghe le labbra, lungo il maglione grigio di lana a coste, lunghissime le gambe, inguainate in semplici leggins di cotone nero, anfibi a mezzo polpaccio. Gli anfibi, non poté fare a meno di notare Ryan, erano eccedenze militari di una decina d’anni prima e su di lei facevano sesso. Anche se un po’ tutto avrebbe fatto sesso, su quella lì. Non era vestita per colpire, al contrario, ma colpiva lo stesso. La cosa più inquietante era che somigliava a suo padre, il generale, e Ryan non l’avrebbe mai definito un bell’uomo. E forse neanche la figlia era bella, strettamente parlando, ma a lui faceva scattare qualcosa. Quell’insolita reazione da cane in calore gli fece aggrottare la fronte. Normalmente gli istinti di Ryan erano piuttosto sopiti. Il sesso gli piaceva come a tutti, ma si era scelto un lavoro in cui quasi non c’erano donne e la cosa non gli pesava in modo particolare. Non era uno di quelli che a ogni licenza doveva segnare a tutti i costi, non era sempre in caccia e di certo non si voltava a guardare il culo delle donne per la strada. Quel picco ormonale, quindi, lo lasciò perplesso. Non lo diede a vedere, è chiaro. Abbozzò un sorriso e disse solo: «Salve». L’agente, Miranda McKay, rispecchiò il suo sorriso in modo meccanico. «Buongiorno. Credo che non ci siano altri partecipanti. Lei sarebbe...» «È Ryan» spiegò Pemberton. «Coordina il team della sicurezza». L’uso del nome proprio non era causale e non serviva a dare un senso di familiarità alla riunione. A Pemberton Ryan non aveva dato il suo cognome, né quello degli altri membri della pattuglia. Pemberton non ne aveva bisogno e i membri del Reggimento non fornivano volentieri dettagli personali. Passare per il tizio della security gli stava benissimo. Miranda McKay sembrò un po’ confusa, ma Ms. Yates emise una risatina silenziosa e un po’ beffarda. «Questa dev’essere un’idea di papà». «In che senso...» fece l’agente. «Nel senso che, a occhio, il nostro Ryan è un SAS e può ucciderti con un dito solo. Dato quanto sei stata petulante oggi, quasi ci spero». Ryan si spostò un po’ più in là, fingendo che non stessero parlando di lui. «Oh» fece Miranda McKay. «A dire il vero non sembra...» «Non lo sembrano. Guarda come si è spostato. Tra tre minuti non ti ricorderai più che è lì, tra dieci avrà assunto il colore della tappezzeria, tra venti chiuderai la porta dell’ufficio con lui dentro, sicura che alla riunione fossimo solo in cinque». Pemberton diede un leggero colpo di tosse. «Stavamo per iniziare a parlare dell’organizzazione generale». Miranda McKay gli rivolse uno sguardo irritato. «A dire il vero, l’unica cosa che mi interessa sapere è come pensate di proteggere la mia cliente. E in che modo impatterà sulla tournée». «Non avrà nessun particolare impatto» tentò di rassicurarla Pemberton. «Naturalmente ci muoveremo in modo coordinato e sconsigliamo di deviare dal programma concordato, ma a parte questo...» «Mi scusi. Forse non mi sono spiegata. In che modo pensate di evitare che durante uno spettacolo qualcuno cerchi di ucciderla?» «Dio, come sei melodrammatica» borbottò Yates. «Be’, sei stata tu a dire che siamo in allerta rossa o come cacchio si dice e che qualcuno potrebbe provare ad ammazzarti. Ora vorrei solo sapere come— «Ovviamente faranno dei controlli all’ingresso. Non hai letto il memo?» «Ecco, vorrei sapere in che senso faranno dei controlli all’ingresso. Faranno passare la gente dentro un metal detector o— «C’è scritto che gli spettatori verranno controllati all’ingresso, che cosa ti importa di— «E se l’arma del delitto fosse già all’interno del locale? Perquisiranno anche tutto lo staff o— «Hanno controllato tutti i dipendenti, nel memo c’era scritto anche quello». «E se qualcuno fosse sfuggito ai controlli?» «In quel caso suppongo che mi accopperanno. Non dispiacerti troppo: pensa ai titoli il giorno dopo». Mentre le due continuavano a battibeccare, Pemberton lanciò a Ryan uno sguardo impotente, quasi implorante. Ryan sospirò. «Se qualcuno prova a ucciderla, lo fermiamo prima che ci riesca» disse. La sua voce, bassa e calma, ebbe l’effetto di far voltare di scatto l’agente. «Perfetto!» replicò, con una risatina sarcastica. «E sarebbe troppo chiedere come?» «Sparandogli prima che spari lui». Ci fu un attimo di silenzio agghiacciato e Ryan aggiunse, con la massima compunzione: «Sempre che sia indispensabile». «Certo, non vogliamo che accusino l’antiterrorismo di brutalità» concordò Yates. Lo stava sfottendo, ma Ryan non se la prese. Per cominciare, era abituato a non rispondere alle provocazioni. E poi quella tizia lo attizzava, quindi poteva provocarlo finché voleva. Si limitò a inarcare le sopracciglia e ad annuire una volta, come a dire “proprio così, brava”. «E, tanto per saperlo, quanti SAS è riuscito a farmi assegnare mio padre?» Negare di far parte dello Special Air Service non aveva molto senso, quindi Ryan si limitò a mostrarle quattro dita. Lei gli rivolse un sorriso dispettoso. «E gli altri tre sono in questa stanza?» «Dietro di lei, ms. Yates». Ms. Yates si voltò davvero, poi si mise a ridere. «Bene, bene. E comunque ci stavamo dando tutti del tu anche prima che arrivassi. Ora lasciamo proseguire Craig». «Sul serio mi ero quasi dimenticata che ci fosse» commentò Miranda a fine riunione. L’ultima partecipante, Mary della squadra di sorveglianza, era appena uscita e Miranda si era spostata verso l’armadietto degli alcolici in un angolo. «Mary?» rispose Darcy, fingendo di non sapere a chi si riferisse la sua agente. «Il supersoldato. Anche se, appunto, non sembra un supersoldato. Nei film gli SWAT sono sempre alti, grossi, muscolosi, un concentrato di testosterone e mascolinità tossica – e non lo intendo necessariamente come un insulto. Ma questo non lo è». Darcy prese il bicchiere che le porgeva Miranda. «Nah, i SAS sono l’articolo autentico. Si vede che non hai frequentato ragazzi in divisa durante l’adolescenza». Bevve un sorso ed emise un sospiro soddisfatto. Miranda aveva sempre whisky di prima scelta. Scozzese e invecchiato. «Bada, non mi aspettavo che mio padre se ne restasse in disparte, è più forte di lui. Ma non pensavo che avrebbe fatto muovere un’intera pattuglia del famoso 22° Reggimento SAS». Miranda bevve a sua volta e la invitò a proseguire con un gesto della mano. «Anche perché, per quel che ne so, di quei ragazzi in giro non ce ne sono molti. I “veri” SAS – ossia non riservisti e non appartenenti alle forze territoriali – sono poco più di cinquecento». «Mi piace quando sfoggi il lessico familiare. Dovresti usarlo di più nei tuoi spettacoli». Darcy scosse la testa. «Mio padre si incazzerebbe e basta. Non ha il minimo senso dell’umorismo». «Questo qua però lo ha» rispose lei, con un vago cenno in direzione della porta. «E sai che non amo i militari, per usare un eufemismo, ma mi ha colpita in senso positivo. Non corrisponde allo stereotipo. Non si è messo in mostra, non ha fatto l’alfa. Se tu non l’avessi tanato al volo, non avrei nemmeno fatto caso a lui». Darcy bevve ancora. Ne aveva bisogno. Per quanto si fosse dimostrata sicura e padrona di sé, l’idea che il giorno seguente sarebbe iniziata la tournée la terrorizzava... e per tutti i motivi sbagliati. I muscoli del suo collo sembravano fatti di cemento. «Be’, non farti ingannare. Sono drogati di adrenalina pieni di testosterone. Ma sono anche addestrati allo stremo, quindi non traspare. Solo per entrare nel Reggimento devono passare una selezione lunga sei mesi, in cui li spediscono nella giungla senza viveri, li torturano e li fanno correre per chilometri con quintali di attrezzatura in spalla. La selezione è così dura che sono sempre sotto organico. Dicono che meno del 10% dei candidati riesca a superare i famosi sei mesi di ordalia». «Appunto. Questo qua non è nemmeno tanto grosso». «“Questo qua” è il nome in codice che hai deciso di dargli?» «Non voglio diventarci così amica da chiamarlo sul serio Ryan. Al di là del fatto che potrebbe essere mio figlio... se a diciott’anni mia madre non mi avesse regalato una bella confezione di pillole anticoncezionali». «Siano sempre lodate». «Già. Insomma, non voglio ripetermi, ma non ha l’aspetto di un action hero». Darcy svuotò il bicchiere e se lo rabboccò da sola. «Te l’ho detto, di solito non lo sembrano. Più rarefatta è l’élite, meno si fanno notare. È gente che deve sgusciare in giro non vista». Quando suo padre era a Hereford, al quartier generale SAS, lei era all’università e i rapporti con lui non erano particolarmente buoni. Inoltre aveva già capito da un pezzo che frequentare ragazzi delle forze armate era un gran pacco. Ciò nonostante, le erano toccati un certo numero di contatti occasionali, abbastanza da capire che i SAS di solito erano gli uomini meno sexy del mondo. L’addestramento e le missioni al limite dell’umano toglievano loro qualcosa. Difficile definire che cosa, ma per Darcy era sempre stato piuttosto chiaro. Non ti facevano scattare l’interruttore. Erano come superfici sterili: controllati, levigati, con un baricentro emotivo tra il basso e l’inesistente. Il che non significava che a un certo punto non potessero perdere la testa, o non potessero commettere atrocità durante le missioni, o non potessero essere dei fanatici. Avere il potere di uccidere senza conseguenze non faceva bene al cervello umano, bastava guardare suo padre. Ma anche escludendo le aberrazioni, di norma i SAS non erano sexy. Era quasi buffo, perché da una élite di soldati ti saresti aspettata di più. Oh, c’era pieno di ragazze che volevano donare la propria v****a a uno qualsiasi del 22° Reggimento, ma quando riuscivano a farlo spesso restavano deluse. Anche se bisognava ammettere che “questo qua”, come lo definiva Miranda, secondo Darcy sexy lo era. Il suo essere sexy non aveva nulla a che vedere con l’aspetto, anche se sull’aspetto non c’erano obiezioni. Ryan era 100% SAS: sul metro e ottanta, fisico fibroso che senza dubbio da nudo si sarebbe rivelato impeccabile, capello corto e castano, zigomo duro e occhio ceruleo da cecchino. Ma non era sexy per quello. Era sexy perché, al contrario di ogni altro suo collega che Darcy avesse mai visto, le faceva scattare l’interruttore. L’interruttore nella pancia che decide “sì” o “no”, che dà il via libera agli ormoni e ti fa bagnare quando serve. Quell’interruttore lì. Ryan glielo faceva scattare, non c’erano dubbi. Per fortuna Darcy non era più così ingenua da farsi influenzare da uno stupido interruttore. La prima serata si sarebbe tenuta in un piccolo teatro specializzato in stand-up, monologhi e altre forme di intrattenimento a basso costo. O così aveva spiegato Miranda McKay, quando quella mattina li aveva accompagnati per la ricognizione. Ryan, a dire il vero, non aveva capito perché l’agente della loro protetta dovesse accompagnarli. Vedendo che indossava degli occhiali affumicati e che non sembrava felice di essere lì, Ryan le aveva assicurato che comunque la sua presenza non era indispensabile, quindi in futuro poteva evitare di andare con loro. «Oh, grazie». Ryan le rivolse un sorriso mite. «Intendo solo dire che per farci aprire il teatro basta Craig o un altro membro dell’antiterrorismo. Immagino che lei la mattina di solito sia al lavoro». «Anche questo è lavoro». Ryan non si lasciò irritare. «Le assicuro che averla qua ci fa piacere». D’altronde, se McKay voleva fare del lavoro inutile, chi era lui per impedirglielo? Anche se supponeva che fosse più che altro lì per ficcanasare. «Mike e Harry, voi occupatevi del backstage, i camerini e le sale macchine. O come si chiamano. Io e George pensiamo alla sala e al foyer». «Cercate delle bombe?» chiese McKay, mettendosi alle loro costole. Ryan emise una risatina tranquillizzante. «Non ci sono bombe, ha già controllato l’SO15». «Che cosa cercate, quindi?» «Prendiamo nota di tutti i posti dove potrebbero venire nascoste delle armi durante la serata. I punti ciechi delle videocamere, l’accessibilità delle vie d’uscita, le vie d’entrata, un po’ tutto». «E se ci fosse uno con un giubbotto esplosivo?» «Lo individuerebbero all’ingresso». «Ma se riuscisse ad arrivare fin dentro la sala, no? In qualche modo». Ryan le lanciò una lunga occhiata seria e paziente. «Sarò sincero, Miranda. Non credo che quel tizio entrerà nel teatro. Credo che sia più probabile che si muova dopo lo spettacolo. E perché un attentatore suicida attraversi la porta, prelevi il giubbotto da un nascondiglio e si faccia saltare in aria dovrebbero esserci delle falle nella sicurezza così enormi che nemmeno a un rave illegale. Ma anche in questo caso inconcepibile, quella è gente che prima di farsi esplodere grida il takbīr. Mentre lui grida, noi gli spariamo». McKay aprì la bocca come se volesse obbiettare ancora, ma il suo sguardo calmo sembrò inibirla. Ryan continuò: «Ovviamente, potrebbe saltare in aria lo stesso. Ci sono diversi tipi di interruttore. In quel caso moriamo tutti». McKay deglutì. «Ah». Lui le rivolse un sorriso rassicurante e le diede una pacca sulla spalla. «Non abbiamo motivo di ritenere che l’individuo in questione abbia dell’esplosivo. Non è roba che si trova a ogni angolo e per fabbricarla servono competenze. Nemmeno assemblare un giubbotto suicida è semplice. È più probabile che abbia un coltello o, al massimo, una pistola e che non sappia usare bene nessuno dei due». «Mmh, okay» sospirò l’agente, e si decise a lasciargli proseguire la ricognizione senza più interromperlo. Suo padre chiamò Darcy la mattina dell’inizio della tournée, mentre lei cercava di comprimere in un unico trolley tutto quello che le sarebbe servito nei giorni seguenti. Col generale non si sentivano spesso, ma Darcy non si stupì della telefonata. «Ciao, papà». Lui andò dritto al punto. Non credeva nei convenevoli e in tutte le altre forme di interazione sociale volte a rendere distese le conversazioni. «Comincia oggi, eh?» «Già. Ho ricevuto il tuo regalo». «In che senso?» E il generale non era stupido, quindi se faceva finta di non capire, semplicemente, non voleva ammettere di essere stato lui a far muovere una pattuglia SAS per proteggerla. «I SAS non sono un tuo regalo?» decise di graziarlo lei. Anche perché in quel momento non aveva l’energia per discutere. «Dei SAS fanno parte dell’operazione?» chiese suo padre senza ammettere nulla. «Mh-mh. Quattro operativi, per quel che ne so. Per ora ne ho visto solo uno». «Sono altamente preparati, sai. Il fiore all’occhiello delle forze speciali». Darcy trattenne un sospiro. «Ho presente, grazie». «Dal tuo... insomma, dalle tue battute hai tolto ogni riferimento all’ISIS, spero». «Sissignore». «Non so come ti sia venuto in mente». Avevano già avuto quella conversazione tre volte, ogni volta Darcy aveva risposto nelle stesso modo. «Non lo so proprio neanch’io». «Bene. Come si dice in questi casi... in culo alla balena». Darcy scosse la testa. «Speriamo che non scoreggi». Suo padre riattaccò e Darcy riprese a fare i bagagli. Era terrorizzata e non perché quella tournée avrebbe potuto costituire un punto di svolta per la sua carriera. Aveva paura che qualcuno provasse di nuovo a ucciderla. La prima volta... non aveva idea di come avesse fatto a mantenere il sangue freddo. Spingere via l’aggressore, correre verso la propria macchina. Salire a bordo e sgommare via. I poliziotti, dopo, le avevano fatto i complimenti. Certo, era stata ferita. Il coltello di quel tizio le aveva fatto un taglio su un fianco, passando attraverso il cappotto. Ma era viva, sana e salva. In teoria avrebbe dovuto uscire da quell’esperienza rafforzata, non impaurita. Invece lo era. Molto impaurita. Preoccupata che la prossima volta non sarebbe andata così bene. Si sentiva minacciata e non era una bella sensazione. Era pentita di aver fatto quelle battute sull’ISIS. Quali battute, tra l’altro? Fruste battute sulla suocera barbuta, offensive per la loro banalità. A suo padre aveva sempre risposto di averle inserite senza pensare, ma solo perché non voleva sentire il suo predicozzo. In realtà le aveva inserite pensando “perché no?”. Pensando: “quegli stronzi non possono impedirmi di prenderli almeno in giro”. Era stata una cazzata ed era per questo che non voleva sentire il predicozzo di suo padre. Perché il generale le avrebbe detto che era stupido provocare il nemico, a meno che non si volesse ottenere una precisa reazione. Le avrebbe detto che il modo migliore di combattere era mantenere il silenzio e colpire. Avrebbe avuto ragione, Darcy lo sapeva, e ora si pentiva di aver punzecchiato quella gente. Solo che ormai era troppo tardi. Ryan entrò nel SUV e si mise al volante. Mike salì accanto a lui e regolò lo specchietto dal suo lato. Erano le quattro e mezza del pomeriggio, il traffico a quell’orario era senza dubbio furioso e il cielo conservava ancora qualche traccia di luce. «Qua Victor Two. Stiamo partendo» comunicò Mike nel microfono della cuffia. Dovette ricevere il roger da Harry, nella macchina con Yates e la sua agente, perché gli rivolse un cenno affermativo. Ryan si immise sulla carreggiata e vide nello specchietto che Victor One lo seguiva. Victor One era il nome in codice della macchina con Yates a bordo, appunto. Alla guida c’era George, Harry era seduto accanto a lui. Ancora dietro, a una cinquantina di metri e diversi veicoli di distanza, c’era il furgone, all’apparenza dell’assistenza stradale, che ospitava il centro mobile della squadra di sorveglianza. All’interno c’erano monitor con le riprese delle videocamere del furgone, una per ogni lato, e con una vista satellitare della zona, oltre a Pemberton e al controllo delle comunicazioni. Sulla strada attorno a loro, altri due agenti di sorveglianza tenevano d’occhio la situazione a bordo di due scooter, vestiti da rider delle consegne a domicilio. In realtà non avevano nessun motivo di credere che qualcuno li stesse seguendo adesso. Come Ryan aveva spiegato a McKay quella mattina, era molto più probabile che l’attentatore aspettasse Yates all’uscita dello spettacolo. Ma la prudenza non era mai troppa. «Pensi che quella donna ci resterà incollata addosso per tutta l’operazione?» fece Mike. Con quella barba sembrava un hipster, cosa che, in accoppiata con il suo accento scozzese, non smetteva mai di divertire Ryan. «L’agente? Nah, vedrai che tra un po’ le passa. Sai come sono fatte le sinistroidi del suo stampo». «Vuoi farmi dire qualcosa di politicamente scorretto? Perché ti avverto che sto per farlo» sogghignò Mike. «Ma no. Dico solo, se fosse per loro, noi non esisteremmo neppure, e credono che abbracciare forte i terroristi sistemerebbe tutto, ma quando si trovano faccia a faccia con uno dei cattivi soldati fascisti e violenti diventano curiose e non riesci più a scollartele di dosso». «Se avesse una decina d’anni in meno...» «Non intendo in quel senso» sbuffò Ryan. «Seh, avevo capito». Mentre parlavano, continuavano a controllare i veicoli attorno a loro per essere sicuri di non essere seguiti, ma fino a quel momento era tutto tranquillo. «E la comica? Sei l’unico ad averla incontrata, finora». «No, a lei non interessiamo. Di soldati deve averne conosciuti fin troppi. Ti ho detto che ha capito subito chi ero e chi ci aveva chiamati. Ma sembra tranquilla e gestibile. Anche se fa finta di niente, ho l’impressione che sia spaventata a morte». Per qualche secondo, Mike sembrò immerso in profonde riflessioni. Era solo una posa, perché in realtà i suoi occhi continuavano a spostarsi sui veicoli che avevano attorno. «Comunque è figa» disse, alla fine. «Già, è figa» ammise Ryan. «Tu hai visto qualcuno dei suoi spettacoli? Fa ridere? Ho visto che è stata ospite a uno show su Comedy Central». «No». Mike sogghignò. «D’altronde è una donna. Le donne non fanno ridere. Vedrai che farà un monologo femminista contro i maschi e il patriarcato». «Volevo dire che non l’ho vista. Ma anch’io mi aspetto qualcosa del genere» sogghignò Ryan. «Potrei passarci sopra senza problemi». «Se te la desse». «Se a fine operazione me la desse» specificò lui. Se c’era una cosa che non si faceva in missione, era scopare. «Ma la vedo grigia. Non sembra una grande fan delle divise. Inoltre, riflettendo...» Mike ridacchiò. «Vedo che ci hai pensato bene». «Mi è un po’ partito l’ormone, lo ammetto. Ma pensaci, se ha una suocera avrà pure un marito, no?» «Finora l’hai visto?» «No». «Magari non c’è». Ryan annuì, tutto serio. «Oppure l’ha ucciso la suocera».
Free reading for new users
Scan code to download app
Facebookexpand_more
  • author-avatar
    Writer
  • chap_listContents
  • likeADD