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MAVERICK
Venerdì 10:18 – Otto ore prima dell’urlo
L’ultima cosa che mi ero aspettato quella settimana era trovarmi nel Montana. Visto che il progetto a Hunter Valley non stava andando liscio – ovvero era ridicolmente fuori budget e indietro rispetto alla tabella di marcia – avevo chiesto al mio assistente di riprogrammarmi gli appuntamenti per potermi trovare lì. La mia idea era stata di convertire la proprietà di un ranch del posto in una locanda di lusso. Spostare lo sviluppo della nostra catena aziendale di hotel da grosse mega-proprietà come quelle sulla Strip di Las Vegas, sulla Fifth Avenue di New York o il Belgravia a Londra, a destinazioni esclusive con solamente una manciata di ospiti. Quelle nuove aggiunte offrivano servizi ottimali e insolite escursioni personalizzate.
La prima nelle isole San Juan nello stato di Washington aveva una lista di attesa dopo essere stata aperta solamente per tre mesi. L’ultima a Banff aveva aperto il mese scorso. Il progetto lì ad Hunter Valley era il terzo e, per quanto l’avessi tenuto attentamente sott’occhio, dubitavo che sarebbe stato pronto per l’apertura della stagione sciistica. Non con la lunga lista di problemi.
Non avrebbe funzionato, così. Ne avevo avuto abbastanza di scuse e sforamenti di budget da parte del responsabile del progetto. Non andava bene a me e nemmeno al consiglio di amministrazione che mi aveva sostenuto.
Avevo preso un volo fino a lì per riportare il lavoro in carreggiata e capire che diavolo stesse succedendo.
Per quanto ci fosse il cognome della mia famiglia sulla fiancata del quartier generale dell’azienda a Denver, c’erano la mia pelle e la mia reputazione personale in ballo. Ero l’amministratore delegato ed era la mia azienda – e di mio fratello Silas. Non mi piaceva fallire e non avevo intenzione di cominciare adesso.
Il jet era atterrato un’ora prima e la mia prima tappa in città era stata per un caffè. Avevo guidato lungo la tranquilla Main Street, trovato Bocconcini Succulenti, che era un gran bel nome per una caffetteria, e vi avevo parcheggiato davanti. Scrutai le pareti in mattoni a vista, gli alti soffitti di travi all’interno. Tavoli e sedie in stile eclettico erano pieni di clienti ancora più eclettici che variavano da anziani in salopette a due mamme che gestivano dei bambini piccoli con i baffi di cioccolata e dei muffin in briciole tra i pugni chiusi.
L’odore di caffè cominciò a risvegliarmi. Lì non mi trovavo al ventitreesimo piano della James Corp. Quel posto lì, quel negozio che sapeva di caffeina e zucchero, era il motivo per cui avevo scelto quella vallata per il resort. Era come prendersi una pausa dal mondo reale senza alcuna grossa catena di negozi o ristoranti. Si trovava vicino ai parchi nazionali della regione, ma lontano dalle strade più battute per avere troppi turisti. C’era un impianto sciistico arroccato tra le montagne ai margini della città, il che significava che quella vallata offriva sia attività estive che invernali. Avevo sciato lì un paio di volte e sapevo da quelle occasioni che quella città sarebbe stata sulla lista per una delle mie locande alla moda.
Quella cittadina era tranquilla. Pittoresca. Alla mano.
Anche amichevole, a giudicare dal grosso sorriso e dal benvenuto della barista. «Ma ciao! Cosa posso prepararti?»
«Un caffè, amaro. Da portare via.» Lanciai un’occhiata alla vetrina della pasticceria. «Sono rotoli alla cannella fatti in casa, quelli?»
Lei sorrise. «Ma certo.»
Mi brontolò lo stomaco. «Uno di quelli.»
«Ottima scelta. Te lo scaldo? Sarà più buono.»
«Perché no? Grazie.»
Mi appoggiai al bancone mentre lei cominciava a preparare il mio ordine, controllando le email sul mio cellulare.
«No, c’è qualcosa che non va con quei calcoli. Quali sono lunghezza e larghezza dello spazio?»
Quella voce morbida mi fece lanciare un’occhiata alle mie spalle. C’era una donna al telefono, con dei fogli infilati sottobraccio. Aveva degli occhiali sul naso, i capelli scuri raccolti in una coda un po’ scomposta.
La barista mi porse la mia tazza da asporto ed io le diedi delle banconote mentre lei diceva, «Ti avviso quando è pronto il rotolo alla cannella.»
«Ottantasette per ventinove virgola cinque,» disse la donna alle mie spalle. «Giusto.»
Infilai il resto che mi venne dato in una vecchia teiera che faceva da barattolo per le mance, presi il mio caffè e mi avviai verso il distributore di tovaglioli dove si trovavano il latte e lo zucchero. Se il rotolo alla cannella fosse stato appiccicoso e ricoperto di glassa come lo era sembrato nella vetrina, me ne sarebbero serviti un bel po’.
«Sono… duemila cinquecento sessantasei metri quadri e mezzo di superficie,» proseguì la donna.
Aspetta, si era fatta quel calcolo a mente? Lanciai un’occhiata per vedere se stesse leggendo qualcosa da quei fogli. No. Ce li aveva ancora infilati sottobraccio.
Lei si morse un labbro, palesemente in riflessione. Per quanto il suo sguardo fosse fisso sulla lista di bevande sulla lavagna appesa alla parete di mattoni dietro il bancone, non la stava vedendo. «Il rapporto non dice duemila ottocento e qualcosa?»
Cominciai ad ascoltare più attentamente la sua parte della conversazione. Afferrai un bastoncino per tenermi impegnato mescolando il mio caffè, sebbene mi piacesse senza zucchero, e non dare a vedere che stessi origliando. Non avevo idea di cosa stesse parlando, ma era affascinante. Qualunque fosse l’operazione, non stava usando una calcolatrice né quella sul suo cellulare.
«Ehi, Bridge. Il solito?» chiese la barista.
Bridge. Che nome strano.
Lei – Bridge – si scostò il cellulare dalla testa mentre rispondeva. «Si. Grazie, Eve.»
Bridge si spostò ad un tavolino alto sotto la grossa vetrina che dava sulla strada e posò i fogli con un sospiro. «Quello è uno dei problemi,» proseguì con chiunque avesse in linea. «I calcoli sono decisamente sballati. Sono fuori di più di duecento metri quadri. Sì, ne sono sicura.»
Sollevò la testa verso il soffitto in stagno e, per quanto io potessi vedere solamente la sua schiena, seppi che probabilmente stava roteando gli occhi. Dovetti sorridere. «Sì, capisco che tu debba controllare i miei calcoli. Tira fuori la calcolatrice e vedrai. Io aspetto.»
E mentre lo faceva, si guardò attorno nella caffetteria e il suo sguardo finì su di me. Spalancò la bocca e sgranò gli occhi. Ero abituato a quella reazione. Ero un tipo grosso. Da quelle parti, tutto ciò che mi mancava era una camicia di flanella e un’ascia per essere considerato un tagliaboschi.
Allungai una mano verso un tovagliolo e lo tirai via dal dispenser.
Ciò che non avevo notato la prima volta che i suoi occhi avevano incrociato i miei era che fossero verdi. Come smeraldi, orlati da ciglia scure e solamente ingranditi dagli occhiali. Lei se li spinse sul naso ed io trovai quell’azione stranamente allettante, proprio come la matita infilata dietro il suo orecchio. Era un affaruccio minuto, forse un paio di centimetri più di un metro e cinquanta. Una semplice nocciolina in confronto a me.
E giovane. Una ventina d’anni, immaginavo, il che praticamente equivaleva ad una bimba in fasce visto che io mi avvicinavo ai quaranta. Cazzo, mi sentivo vecchio. Forse era al college e lavorava a qualche progetto di gruppo.
Merda. Stavo mettendo gli occhi su una studentessa universitaria?
A differenza della maggior parte delle donne cui ero abituato che indossavano abiti o completi perfettamente su misura in azienda, o pantaloni da yoga ancora più attillati e magliette succinte ovunque, quella piccoletta aveva dei jeans abbondanti e una semplice maglia a maniche lunghe.
Non c’era una sola parte di lei che avesse attirato il mio sguardo. Inizialmente.
Adesso, però, ad una seconda e terza occhiata, tutto di lei era intrigante. Valeva un altro sguardo, che mi concessi. Quei jeans non riuscivano a nascondere i suoi fianchi rotondi o il culo perfetto e, per quanto la sua maglia fosse semplice, il rigonfiamento dei suoi seni sodi bastava a farmi venire bisogno di asciugarmi la bava col tovagliolo che tenevo in mano.
Quando lei si rese conto di starmi fissando – sebbene io la stessi fissando a mia volta – arrossì e distolse lo sguardo, spostandolo sul pavimento in legno consunto e sui suoi piedi infilati in un paio di stivali da lavoro.
Oltre a tutto il resto, era timida. Decisamente non stava cercando di attirare la mia attenzione. Il mio sorriso crebbe di fronte alla sua… naturalità. Era anche solo una parola, cazzo? Non ne avevo idea, ma era quello che aveva quella donna.
Era giovane. Bella.
Fantastico. Era proprio ciò che era piaciuto a mio padre e ciò mi fece sentire uno schifo anche solo per averla guardata. L’ultima cosa che volevo fare era assomigliare a lui in alcun modo.
«Sì, sono ancora qui. Sì.» Tornò a girarsi verso il tavolo, la sua coda che le frustava il collo, chiaramente agitata. Sapevo di essere ragionevolmente di bell’aspetto e in forma, ma la mia stazza metteva in soggezione.
All’età di trentasette anni, ero ancora decisamente single. Dopo tutti quegli anni, ciò significava che non ero poi così un buon partito per chiunque non fosse una stronza arraffasoldi. Da quelle mi tenevo bene alla larga.
Chi era quella donna e perché mi incuriosiva? Perché ero improvvisamente interessato a scoprire di più sul suo conto?
Tirai fuori un altro tovagliolo.
«Era anche quello che ho calcolato io,» proseguì lei. «Sì. Mi fa piacere che abbiamo trovato la discrepanza.»
La barista sollevò un bicchiere di caffè freddo per attirare la sua attenzione, poi a me rivolse il rotolo alla cannella appiccicoso e grosso abbastanza da riempire il piattino su cui era posato.
«Senti, devo andare,» disse lei. «La riunione è questo pomeriggio. Sì, preparerò tutti i dati.»
Terminò la chiamata, posò il cellulare sul tavolo accanto ai suoi documenti e andò al bancone.
«Problemi?» le chiese la barista, Eve.
Bridge fece spallucce mentre io mi avvicinavo alle sue spalle per prendere il mio rotolo alla cannella. «Nulla più del solito. Ho solo una grossa riunione più tardi e dei problemi da risolvere.»
«Sono fortunati ad avere te e quel tuo gran cervellino,» disse Eve con dolcezza. Era chiaro che si conoscessero. Avevano anche più o meno la stessa età. Probabilmente erano cresciute assieme.
Bridge sorrise e pagò la propria bevanda. «Sei più dolce dei tuoi pasticcini per averlo detto. E questo cervello non mi ha causato altro che guai.»
Si picchiettò la tempia mentre parlava e girò i tacchi per finire dritta contro di me. Il suo bicchiere di caffè freddo mi colpì il petto e mi si rovesciò tutto addosso.
Io feci d’istinto un passo indietro. Lei sussultò.
«Merda, mi dispiace così tanto!» disse, posando il bicchiere ormai vuoto sul bancone, per poi strapparmi i tovaglioli di mano.
Cominciò a picchiettarmi la camicia per assorbire il caffè gelido. Io indossavo dei jeans e una camicia elegante, le maniche arrotolate perché, pur nel Montana, era una calda giornata estiva. Adesso il cotone bianco aveva una grossa striscia marrone che mi gocciolava sul ventre. Era fredda contro la mia pelle, ma io la sentivo a malapena perché Bridge aveva una delle sue piccole mani che continuava a premermi sugli addominali. Sinistra, destra, poi si spostò più in basso.
E più in basso.
«Non riesco a credere di averlo fatto.» Non sollevò lo sguardo sul mio mentre cercava di rimediare a quel disastro. «Le pagherò la tintoria e-»
Io le afferrai il polso mentre lei si spostava a sud verso il bottone dei miei jeans. un paio di centimetri più in basso e mi avrebbe tamponato il cazzo. Per quanto fossi più che favorevole a presentarglielo, non volevo che succedesse lì.
Sembrava che avessi bisogno di più che di un bagno di caffè ghiacciato per raffreddarmi dopo il tocco di quella donna perché mi stava venendo duro.
Mantenni la presa delicata, ma dovevo assicurarmi che non scendesse più in basso. Era già abbastanza agitata. Forse volevo conoscerla meglio, ma mi piaceva che una donna che mi toccasse il cazzo – o me lo cavalcasse – sapesse almeno come mi chiamassi.
«Shh, va tutto bene,» mormorai.
Tutto ciò che vidi fu la cima della sua testa mentre lei la scuoteva. I suoi capelli non erano solamente castani, ma avevano un accenno di rosso e ramato. Mi chiesi quanto sarebbero stati soffici come la seta, come le sarebbero scesi sulle spalle se le avessi tirato via l’elastico.
«Non è vero. La sua camicia è rovinata,» praticamente gemette.
«Piccola, guardami.»
Non avevo idea da dove mi fosse uscito quel vezzeggiativo, ma mi uscì dalle labbra con la stessa facilità del sorriso che le offrii quando finalmente sollevò lo sguardo, la matita dietro l’orecchio, gli occhiali in bilico sul suo naso e la sua mano che stringeva i fazzoletti bagnati. Dio, era carinissima. Non avevo mai saputo che mi piacessero le ventenni secchione. No, non tutte, solo questa in particolare. All’istante, volli rassicurarla, farle capire che non ci fosse nulla per cui turbarsi.
«È stato un incidente. Sono solamente felice che ti piaccia il caffè freddo.» Le offrii un sorriso così che sapesse che non ero risentito, sfregandole il pollice sul palmo. Non avrei dovuto farlo… era come farsela con una neonata solamente a parlarle, cazzo, ma non potevo farci nulla.
Lei spalancò gli occhi e sbatté le palpebre. Le si diffuse un rossore sulle guance. Io non mi ritrassi. Non potevo.
«Comunque mi dispiace. La sua camicia è rovinata, ne sono certa,» sussurrò lei, distogliendo lo sguardo, ma senza muoversi dal momento che io la tenevo ancora ferma.
«Occhi. Su.»
Lei rispose immediatamente alla mia richiesta e a me piacque. Troppo, cazzo. Mi chiesi come avrebbe reagito una volta che avessi assunto il comando in altri modi.
Oh merda. No. Non era una buona idea.
Cazzo, sì.
«È solo una camicia,» dissi con voce burbera.
Eve fece il giro del bancone e mi porse uno straccio pulito. Io lasciai andare Bridge per prenderlo, ma lei lo strappò di mano alla sua amica prima che potessi afferrarlo. Si mise in ginocchio per ripulire il pavimento. Non era messo poi tanto male visto che era finito tutto addosso a me ed io ero un tipo grosso.
Bridge sollevò lo sguardo su di me dalle sue ginocchia, affondo i denti nel labbro inferiore pieno e la mia mente perversa corse immediatamente a lei di fronte a me a quel modo, ma con me che le ficcavo in bocca il cazzo. Come le sue labbra ci si sarebbero tese attorno. Come avrebbe spalancato gli occhi nel rendersi conto che non sarebbe riuscita a prendermelo tutto.
Ero almeno una ventina di centimetri più alto di lei e pesavo più di cento chili. Grosso. Ero decisamente proporzionato. Merda. Stavo cercando di fare il bravo ragazzo, di fare il gentiluomo, ma lei era in ginocchio, cazzo! Stava decisamente mettendo alla prova il mio autocontrollo e non se ne rendeva nemmeno conto.
Perché era fottutamente ovvio che lei fosse una brava ragazza, cazzo.
Ed io volevo fare cose perversissime con lei. Con quella donna giovanissima. Ora capivo perché a mio padre piacessero giovani.
Trattenni un gemito. Sarei finito all’inferno.
Non mi ero reso conto che Eve se ne fosse andata fino a quando non tornò porgendomi una maglietta. «Offre la casa.»
Il momento venne rovinato ed io presi la maglietta, sollevandola. Sul petto c’era il nome della caffetteria, Bocconcini Succulenti, in un font decorativo con Hunter Valley, Montana sullo sfondo. Ed era di un rosa pallido.
«Potrebbe essere un tantino attillata,» aggiunse, «ma non sono certa di cosa ti starebbe, fustacchione.»
Avevo la mia valigia nell’auto a noleggio. Avrei potuto andare a recuperare una camicia pulita, ma era un gesto gentile e non volevo rifiutare la sua ospitalità. Forse sarei riuscito a strapparle una fornitura di chicchi di caffè per la locanda. Potevo anche trovarmi lì per un breve periodo per rimettere in carreggiata il progetto di costruzione, ma sarei passato spesso da Hunter Valley e volevo conoscerne la comunità.
Forse un membro in particolare. Uno che sembrava avere molto talento per la matematica, arrossire per ogni sciocchezza, essere un tantino bizzarra e non rendersi conto di che aspetto magnifico avesse in ginocchio.
Oltre a tutto questo, avevo la sensazione che prima mi fossi tolto la camicia macchiata, prima Bridge avrebbe smesso di guardarmi come se mi avesse preso a calci il cane. Volevo che mi guardasse con quegli incantevoli occhi in altri modi. Modi che mi facevano sentire un vecchio, cazzo. Ma uno col cazzo duro come una roccia.
Per cui, in piedi nel bel mezzo della caffetteria, mi tolsi la camicia, un bottone alla volta.