Basso di statura, aveva la pancia a pallone sormontata da un viso rubicondo tra le fedine brizzolate.
Sua moglie, alta, robusta, risoluta, forte di voce e rapida nel decidere, rappresentava l'ordine e la contabilità della ditta, che animava con la sua allegra attività.
Accanto ad essi, più dignitoso, perché appartenente ad una casta superiore, stava il signor Carré-Lamadon, persona ragguardevole, ben collocato nei cotoni, proprietario di tre filande, ufficiale della Legion d'Onore e membro del Consiglio generale. Finché era durato l'Impero, era stato a capo dell'opposizione benevola, soltanto per farsi pagar più cara la sua adesione alla causa che egli - per usare la sua espressione - combatteva ad armi cortesi. La signora Carré-Lamadon, assai più giovane di lui, era la consolazione degli ufficiali di buona famiglia mandati di guarnigione a Rouen. Stava di fronte al marito, molto vezzosa, molto carina, raggomitolata nella pelliccia, e guardava con occhio afflitto l'interno desolato della diligenza.
I suoi vicini, il conte e la contessa Hubert de Bréville, portavano uno dei nomi più antichi e più nobili di Normandia. Il conte, vecchio gentiluomo di grande stile, cercava di accentuare con palesi accorgimenti la sua naturale somiglianza con il re Enrico IV il quale, secondo una gloriosa leggenda di famiglia, avrebbe ingravidato una signora di Bréville per cui il marito di quest'ultima fu fatto conte e governatore di una provincia.
Collega di Carré-Lamadon al Consiglio generale, il conte Hubert rappresentava nel dipartimento il partito orleanista. La storia del suo matrimonio con la figlia d'un piccolo armatore di Nantes era sempre rimasta misteriosa. Ma siccome la contessa aveva gran tono, sapeva ricevere meglio di chiunque, - si diceva pure che fosse stata benvoluta da un figlio di Luigi Filippo - era ricercata dalla nobiltà e il suo salotto era il primo della regione, l'unico dove fosse sopravvissuta l'antica cortesia e dove fosse difficile entrare.
Si dice che il patrimonio dei Bréville, tutto in beni immobili, fruttasse cinquecentomila lire di rendita.
Queste sei persone, che occupavano il fondo della carrozza, rappresentavano la parte della società fornita di rendite, serena e forte, la gente onesta provvista di Religione e di Principii.
Per una strana combinazione tutte le donne stavano sullo stesso sedile; le altre vicine della contessa erano due suore che sgranavano lunghi rosari biascicando paternostri e avemarie. La prima era vecchia, e aveva il viso butterato dal vaiolo, come se le avessero sparato una scarica di mitraglia a bruciapelo. L'altra, dall'aria molto patita, aveva una testina graziosa e malaticcia su un petto da tisica consumata dalla fede divorante che crea i martiri e gli esaltati.
Di fronte alle due suore, un uomo e una donna attiravano tutti gli sguardi.
L'uomo, assai noto, era Cornudet il democratico, il terrore delle persone perbene. Da vent'anni egli inzuppava il suo barbone fulvo nella birra di tutti i caffè democratici. S'era mangiato, insieme ai fratelli e agli amici, un bel gruzzolo, ereditato dal padre pasticciere, e aspettava con impazienza la venuta della repubblica per ottenere finalmente il posto che s'era meritato con tante bevute rivoluzionarie.
Il quattro di settembre, forse in seguito a uno scherzo, credette d'essere stato nominato prefetto, ma quando tentò d'insediarsi, gli uscieri, rimasti arbitri della situazione, si rifiutarono di riconoscerlo, costringendolo ad andarsene. Buon compagnone, d'altronde, inoffensivo e servizievole, s'era incaricato, con ardore senza pari, d'organizzare la difesa. Aveva fatto scavare delle buche, nelle pianure, aveva fatto abbattere i giovani alberi delle foreste vicine, aveva seminato trappole su tutte le strade, e all'avvicinarsi del nemico, soddisfatto dei suoi preparativi, aveva ripiegato in fretta verso la città. Pensava, ora, di essere più utile a Le Havre, dove sarebbero state necessarie nuove fortificazioni.
La donna, una di quelle che vengon chiamate allegre, era rinomata per la sua floridezza, che le aveva procurato il soprannome di Pallina. Piccina, tutta tonda, grassa grassa, con le dita rigonfie strozzate alle falangi, simili a rosari di salsicciotti, aveva la pelle lustra e tesa, un enorme seno che le gonfiava il vestito: pure, era appetitosa e desiderata, tanto piacevole a vedersi era la sua freschezza. Il suo viso era una mela rossa, un bocciolo di peonia vicino a schiudersi; vi si aprivano, in alto, due magnifici occhi neri ombreggiati da lunghe e folte ciglia, e sotto una bella bocca piccola, umida, da baci, guarnita di dentini lucenti e microscopici.
Ella aveva inoltre - si diceva - moltissime inestimabili qualità.
Appena la riconobbero, indignati bisbiglii corsero tra le donne oneste, e le parole “prostituta”, e “vergogna pubblica” furono pronunciate così forte ch'ella alzò il capo, e fece scorrere sui vicini uno sguardo così ardito e provocante che subito si fece un gran silenzio, e tutti abbassarono gli occhi, eccettuato Loiseau, il quale la guardava eccitato.
Ma poco dopo le tre signore ripresero la conversazione, divenute d'improvviso amiche, anzi quasi intime, a causa della ragazza. Esse, così pareva loro, dovevano riunire in fascio le loro dignità di spose, di contro a quella svergognata mercenaria; poiché l'amore legale tratta sempre con arroganza il suo libero confratello.
Anche i tre uomini, ravvicinati, alla vista di Cornudet, da un istinto di conservatori, parlavano di soldi, affettando un'aria sdegnosa verso i poveri. Il conte Hubert enumerava i danni che aveva patito per colpa dei prussiani, il bestiame rubato, i raccolti perduti, con la disinvoltura del gran signore dieci volte milionario che dopo un anno avrebbe dimenticato tutte quelle rovine. Carré-Lamadon, assai colpito nella sua industria di cotoni, s'era preoccupato di mandare seicentomila franchi in Inghilterra, un'inezia che teneva in serbo per ogni evenienza. Loiseau, dal canto suo, aveva brigato per vendere all'Intendenza francese tutto il vino comune che gli era restato nelle cantine, dimodoché lo Stato gli era debitore di una grossissima somma che egli sperava di riscuotere a Le Havre.
Tutti e tre si lanciavano occhiate rapide e amichevoli. Per quanto fossero di diversa condizione si sentivano affratellati dal denaro, la grande massoneria di coloro che possiedono, di coloro che fanno tintinnare l'oro infilandosi la mano in tasca.
La diligenza andava così piano che alle dieci del mattino aveva percorso una quindicina di chilometri. Gli uomini scesero tre volte per fare a piedi le salite. Cominciò a trapelare l'inquietudine, perché s'era previsto di mangiare a Tôtes, e ormai c'erano poche speranze d'arrivarci prima di notte. Mentre tutti guardavano sulla strada, se spuntasse una osteria, la diligenza s'incagliò in un mucchio di neve e ci vollero due ore per liberarla.
L'appetito cresceva annebbiando i cervelli; e non si vedeva nessuna trattoria, nessuna bottega di vini, poiché la venuta dei prussiani e il passaggio delle fameliche truppe francesi avevano scoraggiato qualunque industria.
Gli uomini andarono alla ricerca di rifornimenti nei casolari lungo la strada, ma non trovarono neanche un po' di pane, poiché i contadini sospettosi nascondevano tutto per paura dei soldati, i quali non avendo nulla da mangiare prendevano per forza quel che trovavano.
Verso l'una del pomeriggio Loiseau dichiarò di sentirsi una gran buca nello stomaco. Ma tutti, da parecchio tempo, erano nelle sue stesse condizioni; e il violento bisogno di mangiare, sempre crescente, aveva ucciso la conversazione.
Ogni tanto qualcuno sbadigliava, imitato quasi subito da un altro; a sua volta, ciascuno secondo il carattere, l'educazione, la posizione sociale, apriva rumorosamente o con modestia la bocca, tappando in fretta con la mano il buco spalancato dal quale usciva vapore.
Pallina s'era chinata parecchie volte, come a cercare qualcosa sotto le gonne. Rimaneva un momento esitante, guardava i suoi vicini, poi si rialzava con calma. I visi dei viaggiatori erano pallidi e contratti. Loiseau dichiarò che avrebbe pagato mille franchi per un prosciuttino. Sua moglie abbozzò un gesto di protesta; poi si calmò. Sentir parlare di soldi sciupati la faceva sempre soffrire, e non riusciva neanche a capire come si potesse scherzare su quell'argomento. «Il fatto è che non mi sento bene,» disse il conte; «chissà perché non ho pensato a portar qualcosa da mangiare.» Ognuno rivolgeva a se stesso lo stesso rimprovero.
Cornudet aveva una fiaschetta piena di rum: l'offrì in giro ma gli altri rifiutarono con freddezza, tranne Loiseau che ne accettò una goccia e restituendo la fiaschetta ringraziò dicendo: «Fa sempre bene, riscalda, e inganna l'appetito.» L'alcool lo mise di buonumore, e propose di fare come nel piccolo naviglio della canzone: di mangiare cioè il più grasso dei viaggiatori. L'indiretta allusione a Pallina urtò le persone perbene. Nessuno rispose: il solo Cornudet sorrise. Le due suore avevano smesso di biascicare avemarie, e con le mani nascoste nelle grandi maniche stavano immobili, con gli occhi ostinatamente abbassati, senza dubbio offrendo al Cielo, che gliele mandava, le loro sofferenze.
Finalmente, alle tre, mentre la diligenza stava in mezzo a una interminabile pianura, senza nemmeno un villaggio in vista, Pallina si chinò con vivacità, e tirò fuori di sotto al sedile un largo paniere coperto da un tovagliolo bianco.
Ne trasse dapprima un piattino, una delicata tazza d'argento, poi una zuppiera dov'erano due interi polli in gelatina, già tagliati; si vedevano ancora nel paniere tante altre buone cose incartate: sformati, frutta, dolci, tutte le provviste per un viaggio di tre giorni, in modo da non dover mai ricorrere alla cucina degli alberghi. I colli di quattro bottiglie sbucavano tra gli involti. La ragazza prese un quarto di pollo e cominciò delicatamente a mangiarlo, con uno di quei panini che in Normandia vengono chiamati “Reggenza”.
Tutti gli sguardi erano su di lei. Poi l'odore si diffuse, fece dilatare le narici, fece venire l'acquolina in bocca, provocò una dolorosa contrazione all'attaccatura delle mascelle. Il disprezzo delle signore per la ragazza divenne feroce, quasi voglia d'ammazzarla o di scaraventarla fuori della diligenza, lei, la sua tazza, il suo paniere e tutto quel che c'era dentro.
Loiseau divorava con gli occhi la zuppiera del pollo. Disse: «La signora è stata più prudente di noi... C'è della gente che pensa sempre a tutto.» Ella alzò la testa verso di lui: «Ne volete, signore? È brutto star digiuni dalla mattina.» Egli si levo il cappello: «Non dico di no, non ne posso più. Bisogna adattarsi, vero, signora?» E guardandosi intorno aggiunse: «In momenti simili è bello trovar qualcuno che vi fa un piacere.» Per non sporcarsi i calzoni, spiegò un giornale che aveva con sé, infilò la punta di un coltellino che portava sempre in tasca su una coscia lustra di gelatina, e cominciò a mangiare, masticando con un piacere così visibile che si sentì nella vettura un gran sospiro d'angoscia.
Allora Pallina, con voce umile e dolce, propose alle due suore di condividere la sua colazione. Esse accettarono immediatamente, e senza alzar gli occhi cominciarono a mangiare sveltissime, dopo aver farfugliato un ringraziamento. Neanche Cornudet rifiutò l'offerta della sua vicina, e, insieme alle suore spiegando dei giornali sulle ginocchia, venne formata una specie di tavola.
Le bocche s'aprivano e si chiudevano senza sosta, trangugiavano, masticavano, inghiottivano ferocemente. Loiseau, nel suo angolo, lavorava sodo e a bassa voce esortava sua moglie a far come lui. Costei tenne duro per un po', ma una più forte strizzata delle viscere la fece cedere. Allora suo marito, con una frase tornita, chiese alla loro “deliziosa compagna” se gli permetteva di darne un pezzetto alla signora Loiseau. Ella rispose: «Ma certo, signore,» con un grazioso sorriso, e porse la zuppiera.
Ci fu un po' d'imbarazzo quando fu stappata la prima bottiglia di bordò, perché c'era una tazza sola. I viaggiatori se la passarono dopo averla ripulita. Il solo Cornudet, senza dubbio per galanteria, posò le labbra sul punto ove era rimasta l'umida traccia delle labbra della sua vicina.
Allora, circondati da persone che mangiavano, soffocati dall'odore dei cibi, il conte e la contessa di Bréville e i Carré-Lamadon soffrirono l'odioso supplizio che ha preso il nome da Tantalo. D'improvviso la giovane moglie dell'industriale emise un sospiro che fece voltar tutte le teste: era bianca come la neve lì fuori; chiuse gli occhi, la fronte le ricadde: era svenuta. Suo marito, fuori di sé, implorò aiuto. Avevano perso tutti la testa, allorché la suora più anziana, reggendo il capo della donna indisposta, le insinuò tra le labbra la tazza di Pallina facendole ingoiare qualche goccia di vino. La bella signora si riscosse, aprì gli occhi, sorrise e dichiarò con voce supplichevole che ora si sentiva benissimo. Ma perché il fatto non si ripetesse, la suora la costrinse a bere un intero bicchiere di bordò, dicendo: «È la fame, e nient'altro.»
Allora Pallina, arrossendo, balbettò guardando i quattro viaggiatori rimasti a stomaco vuoto: «Dio mio, se i signori e le signore volessero gradire...» Tacque, temendo di offenderli e che le rispondessero in modo oltraggioso. Loiseau disse: «Perbacco, ma in casi come questi siamo tutti fratelli, e bisogna aiutarci. Suvvia, signore, senza complimenti, accettate, che diamine! Non siamo neanche sicuri di poter trovare un posto dove passar la notte. Di questo passo non arriveremo a Tôtes prima di domani a mezzogiorno.» Gli altri esitavano ancora: nessuno aveva il coraggio di prendersi la responsabilità di un “sì”.