2 PALLINA
Per giorni e giorni i resti dell'esercito in rotta attraversarono la città. Non erano soldati, ma orde sbandate. Gli uomini, con la barba lunga e sporca, le uniformi a brandelli, camminavano con passo stanco, senza bandiera, senza capi. Parevano tutti depressi, sfiancati, incapaci di pensare o di decidere, andavano avanti solo per abitudine, e appena si fermavano cadevano giù dalla fatica. Erano per lo più richiamati, gente pacifica, tranquilli possidenti, curvi sotto il peso del fucile; giovanissime reclute, vivaci, facili a spaventarsi come a entusiasmarsi, pronte all'attacco come alla fuga; in mezzo ad essi, alcuni pantaloni rossi, resti d'una divisione maciullata in una grande battaglia; scuri artiglieri in fila con fanti di diverse armi; e, ogni tanto, l'elmo lucido d'un dragone dal passo pesante che seguiva faticosamente la marcia più spedita dei fanti. Passavano anche legioni di franchi tiratori dai nomi eroici: “i Vendicatori della Disfatta; i Cittadini della Tomba; i Votati alla Morte”, e dall'aspetto di banditi.
I loro capi, ex commercianti di tessuti o di granaglie, ex venditori di sego o di sapone, guerrieri d'occasione, coperti d'armi e di gradi, imbottiti di maglie, che erano stati nominati ufficiali per i loro soldi o per la lunghezza dei loro baffi, parlavano con voce stentorea, discutevano piani di battaglia, e pretendevano di sostenere da soli, sulle loro spalle di fanfaroni, la Francia agonizzante: ma avevano anche paura dei loro soldati, gente da forca, spesso coraggiosi all'estremo, predoni e viziosi.
I prussiani - si diceva - stavano per entrare a Rouen.
La Guardia Nazionale, che da due mesi faceva prudentissime ricognizioni nei boschi vicini, sparando talvolta alle proprie sentinelle, e preparandosi al combattimento quando sentiva un coniglietto muoversi tra le frasche, era rientrata alla base; le armi, le divise, tutto l'apparato bellico con cui spaventava i paracarri delle strade nazionali nel giro di una diecina di chilometri, erano improvvisamente scomparsi.
Gli ultimi soldati francesi erano finalmente riusciti ad attraversare la Senna, per raggiungere Pont-Audemer attraverso Saint-Sever e Bourg-Achard; e in coda a tutti, il generale, disperato, impedito di tentare alcunché con quell'accozzaglia di straccioni, egli stesso sperduto nella grande sconfitta d'un popolo abituato a vincere e battuto disastrosamente nonostante il suo leggendario coraggio, veniva a piedi, camminando fra due ufficiali d'ordinanza.
Poi una profonda calma, un'attesa sgomenta e silenziosa erano discese sulla città. Parecchi borghesi panciuti, evirati dal commercio, attendevano ansiosamente i vincitori, tremando al pensiero che venissero considerati come armi gli spiedi del girarrosto o i coltellacci delle cucine.
Pareva che la vita si fosse fermata: le botteghe erano chiuse, le strade silenziose. Ogni tanto un abitante, intimorito dal silenzio, sgattaiolava rapido lungo i muri.
L'angoscia dell'attesa faceva desiderare l'arrivo del nemico.
Nel pomeriggio del giorno che seguì la partenza delle truppe francesi, alcuni ulani, usciti non si sa di dove, attraversarono rapidamente la città. Un po' più tardi una massa nera discese la costa di Santa Caterina, mentre altre due ondate d'invasori comparivano dalle strade di Darnetal e di Boisguillaume. Le avanguardie dei tre corpi d'armata si congiunsero proprio nello stesso momento in piazza del Municipio; e da tutte le strade vicine arrivava l'esercito tedesco, snodando i suoi battaglioni, che facevano risuonare il selciato con il loro passo duro e cadenzato.
Lungo le case che parevano morte e deserte salivano gli ordini gridati da una voce straniera e gutturale, mentre dietro gli scuri socchiusi, gli occhi degli abitanti spiavano i vincitori, padroni della città, dei beni e delle vite per “diritto di guerra”.
Nelle stanze in penombra gli abitanti erano in preda allo sgomento che provocano i cataclismi, i grandi e micidiali sconvolgimenti della terra, contro i quali forza e saggezza sono inutili. Poiché, ogni volta che l'ordine delle cose è rovesciato, quando non c'è più sicurezza, quando tutto ciò ch'era protetto dalle leggi degli uomini o della natura si trova alla mercè d'una feroce ed incosciente brutalità, allora quelle stesse sensazioni ricompaiono. Il terremoto che schiaccia sotto le case in rovina un intero popolo; il fiume che straripando trascina assieme contadini annegati, carogne di bovi e travi strappate dai tetti; oppure l'esercito glorioso che massacra chi cerca di difendersi e imprigiona gli altri, che saccheggia in nome della Spada e ringrazia Iddio col rombo del cannone: sono altrettanti flagelli spaventosi che scuotono qualunque fede nell'eterna giustizia qualunque fiducia ci sia stata insegnata nella protezione del Cielo e nella ragione dell'uomo.
Ad ogni porta bussavano piccoli gruppi di soldati, che poi scomparivano dentro le case. Era l'occupazione dopo l'invasione. Per i vinti cominciava il dovere d'essere cortesi coi vincitori.
Passato un po' di tempo, e scomparsi i primi terrori, s'instaurò una nuova calma. In molte famiglie l'ufficiale prussiano mangiava a tavola con gli altri. Trattandosi talvolta di persona bene educata, costui, per gentilezza, commiserava la Francia e manifestava la ripugnanza di dover prender parte a una simile guerra. Gliene erano riconoscenti; senza contare che un giorno o l'altro potevano aver bisogno della sua protezione. Trattandolo bene si poteva forse ottenere di dover nutrire qualche soldato di meno. E poi, perché mettersi contro uno da cui si dipendeva completamente? Un simile comportamento sarebbe stato più temerario che audace. E la temerità non è più un difetto dei borghesi di Rouen, come lo era stato ai tempi delle eroiche difese che resero illustre la loro città. E per ultimo - motivo essenziale, data l'urbanità francese - dicevano che era permesso esser gentile coi soldati nemici, nell'intimità, purché non gli si dimostrasse familiarità in pubblico. Per strada non ci si conosceva più, ma in casa si chiacchierava volentieri, e ogni sera il tedesco si tratteneva sempre più, a riscaldarsi accanto al focolare.
Anche la città riprendeva a poco a poco il suo aspetto solito. Per il momento i francesi uscivano poco, ma i soldati prussiani pullulavano nelle strade. Del resto gli ufficiali degli ussari blu che con arroganza facevano risuonare sul selciato i loro grandi arnesi di morte, non pareva che avessero per i comuni cittadini un disprezzo maggiore di quello che l'anno prima avevano dimostrato gli ufficiali alpini francesi, sedendo negli stessi caffè.
Tuttavia c'era qualcosa nell'aria, qualcosa di sottile e d'ignoto, una insopportabile atmosfera estranea e una specie di odore diffuso, l'odore dell'invasione. Riempiva le case e i locali pubblici, mutava il gusto dei cibi, dando l'impressione che si fosse in viaggio, lontanissimi, fra tribù barbare e pericolose.
I vincitori volevano denaro, molto denaro. Gli abitanti pagavano sempre; erano ricchi, del resto. Ma più l'opulenza di un negoziante normanno cresce, più egli soffre per ogni sacrificio, per ogni brincello del suo patrimonio che vede passare nelle mani d'un altro.
Intanto, alcuni chilometri più giù della città, seguendo il corso del fiume, verso Croisset, Dieppedalle o Biessart, i barcaioli e i pescatori traevano spesso dal fondo dell'acqua il cadavere d'un tedesco, enfiato nell'uniforme, ucciso a coltellate o a colpi di zoccolo, con la testa schiacciata da una pietra, o spinto in acqua dall'alto di un ponte. La melma del fiume seppelliva queste oscure vendette, selvagge e legittime, eroismi sconosciuti, assalti silenziosi, più pericolosi delle battaglie alla luce del giorno, e senza il frastuono della gloria.
Poiché l'odio contro lo straniero arma sempre la mano degli intrepidi pronti a morire per un'idea.
Infine, siccome gl'invasori - per quanto avessero piegato la città alla loro inflessibile disciplina - non avevano perpetrato nessuno degli orrori che avrebbero dovuto, secondo quanto si diceva, durante la loro marcia trionfale, ci s'imbaldanzì, e il bisogno di trafficare ricominciò ad agitarsi nel cuore dei commercianti del paese. Taluni avevano grossi interessi a Le Havre, che era in mano delle truppe francesi, e vollero tentare di raggiungerne il porto andando via terra a Dieppe, e lì imbarcandosi.
Ricorsero agli ufficiali tedeschi che avevano conosciuto, e ottennero un'autorizzazione a partire dal generale in capo.
Così, avevano prenotato per il viaggio una grande diligenza a quattro cavalli. Dieci persone s'erano messe in nota all'ufficio, e decisero di partire un martedì mattina, prima dell'alba per evitare assembramenti.
Già da tempo il gelo aveva indurito la terra, e il lunedì verso le tre dei nuvoloni neri provenienti dal nord portarono la neve, che cadde ininterrottamente per tutta la sera e per tutta la notte.
I viaggiatori si riunirono alle quattro e mezzo del mattino nel cortile dell'Albergo di Normandia, donde sarebbe partita la diligenza.
Erano ancora insonnoliti e sotto i panni tremavano dal freddo. Nell'oscurità si riconoscevano a malapena; e tutti quei corpi imbottiti dai pesanti abiti da inverno, somigliavano a dei preti obesi nelle loro sottane. Due uomini si riconobbero, un terzo li accostò, cominciarono a parlare. «Porto con me mia moglie,» disse uno. «Anch'io.» «E io pure.» Il primo aggiunse: «Non ritorneremo più a Rouen, e se i prussiani s'avvicinano a Le Havre ce ne andremo in Inghilterra.» Avevano gli stessi progetti, perché avevano la stessa mentalità.
Intanto la vettura non veniva ancora attaccata. Un lanternino, tenuto da un garzone di scuderia, usciva ogni tanto da una porta scura e immediatamente spariva in un'altra. Si sentivano dal fondo della stalla le zampe dei cavalli battere il suolo, smorzate dallo strame, e una voce d'uomo che parlava alle bestie e bestemmiava. Un leggero bubbolio di sonagli annunciò ch'era cominciata la bardatura; e il bubbolio divenne presto un fremito chiaro e continuo, ritmato dai movimenti dell'animale, talvolta interrotto, e ripreso poi con una scossa brusca che accompagnava il rumore sordo d'uno zoccolo che batteva sul suolo.
La porta si richiuse all'improvviso. Ogni rumore cessò. I borghesi, gelati, si chetarono rimanendo immobili e irrigiditi.
Una ininterrotta cortina di fiocchi bianchi brillava senza posa scendendo verso terra; annullava le forme, impolverando tutto con una spuma gelata; e nel vasto silenzio della città calma e sepolta sotto l'inverno si sentiva soltanto l'indicibile, vago e fluttuante stropiccio della neve che cadeva, sensazione più che rumore, mischia di leggeri atomi, che parevano riempire lo spazio, coprire il mondo.
L'uomo col lanternino ricomparve, tirando dietro a sé, con una corda, un cavallo triste, che lo seguiva malvolentieri. Lo mise contro il timone, attaccò le tirelle, gli girò intorno parecchio per sistemare i finimenti, poiché dovendo reggere il lume poteva usare una mano sola. Mentre andava a prendere l'altra bestia, vide i viaggiatori immobili, già bianchi di neve, e disse: «Perché non salite in carrozza? Almeno sarete al riparo...»
Proprio non ci avevano pensato, e si precipitarono dentro. I tre uomini fecero sistemare in fondo le loro mogli, poi salirono; le altre forme vaghe e velate occuparono a loro volta i posti rimasti, in silenzio.
Il pavimento della diligenza era coperto di paglia e i piedi vi affondavano. Le donne sedute in fondo accesero gli scaldini di rame a carbone chimico, che avevano portato con sé, e per un po' di tempo, a bassa voce, ne elencarono i vantaggi, ripetendo cose che sapevano tutte da tempo.
Finalmente, appena la diligenza fu attaccata, con sei cavalli al posto di quattro, a causa del tiro più faticoso, una voce dal di fuori chiese: «Son saliti tutti? «Una voce da dentro rispose: «Sì. «La diligenza partì.
Andavano avanti piano piano, di passo. Le ruote affondavano nella neve, tutta l'ossatura gemeva tra sordi scricchiolii: le bestie scivolavano, soffiavano, fumavano; e la gigantesca frusta del cocchiere schioccava incessantemente, volteggiando da ogni lato, e svolgendosi come un sottile serpente, d'improvviso attorcigliandosi sulle groppe piene, che si tendevano in uno sforzo più violento.
A poco a poco la luce aumentava. I leggeri fiocchi, che un viaggiatore - autentico figlio di Rouen - aveva paragonato ad una pioggia di cotone, non cadevano più. Una sporca luce filtrava attraverso i nuvoloni scuri e pesanti che facevano apparire più splendida la bianchezza della campagna dove ogni tanto appariva una fila di grandi alberi coperti di brina, o una capanna incappucciata di neve.
Nella diligenza i passeggeri si guardavano incuriositi al triste chiarore dell'alba.
In fondo, ai posti migliori, sonnecchiavano uno di fronte all'altro i coniugi Loiseau, venditori di vino all'ingrosso in via Grand-Pont.
Già commesso d'un mercante che s'era rovinato con gli affari, Loiseau ne aveva comprato il magazzino, e aveva fatto fortuna. Vendeva a pochissimo prezzo dei vini pessimi ai piccoli minutanti di campagna, ed era considerato, dai conoscenti e dagli amici, un furbo di tre cotte, un vero normanno astuto e gioviale.
La sua fama di mariolo era così salda, che una sera, alla Prefettura, il signor Tournel, rinomato autore di barzellette e di canzoncine, spirito sottile e mordace, una celebrità locale, vedendo le signore un po' insonnolite, aveva proposto di giocare a “Loiseau vole”: la freddura attraversò i salotti del prefetto, arrivò in quelli di città, e fece ridere per un mese tutte le ganasce della provincia.
Loiseau, inoltre, era famoso per i suoi scherzi d'ogni genere, per le sue spiritosaggini buone e cattive; e nessuno parlava di lui senza aggiungere: «Quel Loiseau, non ce n'è un altro come lui.»