01| Odiol'arte e l'arte odia me.

1658 Words
Spalanco la porta di legno che porta alla cucina, prendo una delle sedie poste intorno al tavolo e la giro per sedermici sopra a cavalcioni. Alzo lo sguardo per incontrare quello dei miei genitori che era già puntato su di me. «Ho bisogno di soldi» esordisco. Mio padre alza un sopracciglio. «Quanto?» Lo guardo. Questa è la volta buona che mi ammazza. «Pochi soldi...» Prendo un po' di tempo mentre lui mi guarda in attesa di una risposta. «Qualcosa come cento o duecen-» Mio padre mi interrompe subito con un: «Sono povero.» Torna a leggere il giornale che aveva precedentemente lasciato sul tavolo durante il mio ingresso in cucina. Mia madre non ha ancora proferito parola. Mi fissa ancora un po', e devo ammettere che la cosa sta diventando inquietante. «Per caso sei finita nei guai con qualche spacciatore e gli devi dei soldi?» chiede. Alzo gli occhi al cielo. «No, ma -» Non mi lascia finire che mi interrompe. «Sei nei guai in generale?» «No m-» Mi interrompe nuovamente. «Rischi la vita se noi non ti diamo questi soldi?» continua. Oddio, questa conversazione non avrà fine. «No, non rischio la mia-» e anche questa volta non mi lascia finire. Gesù, non ce la posso fare. «Allora non ti servono» sentenzia. Torna a cucinare, mentre mio padre se la ride sotto i baffi. «Oh andiamo, mi servono per un tatuaggio» borbotto. Entrambi scoppiano a ridere. Cosa ho detto di così divertente? «Tu vuoi farti un tatuaggio?» mi chiede mia madre in preda alle risate. «Proprio tu, che hai paura degli aghi?» Mio padre si calma leggermente, per poi parlare. «Ti devo ricordare cosa è successo l'ultima volta che ti abbiamo portata a fare un vaccino?» Ouch, questo è un colpo basso. C'è la remota possibilità, ma proprio minima, che io abbia, accidentalmente, tirato un pugno all'uomo che doveva farmi il vaccino, rompendogli il naso. In mia discolpa posso dire di avere un gancio destro talmente fantastico che l'altro dottore presente nella stanza mi aveva pure fatto i complimenti. Gemo, sconfortata. «Oh andiamo! È successo due anni fa! Ora sono una persona matura» dico, ormai esasperata. Mia madre alza un sopracciglio. «Il fatto che tu abbia compiuto i diciotto anni quasi un mese fa non ti rende una persona matura.» Poi esce dalla stanza per andare non so dove. Mi giro verso mio padre e lo fisso. Mi viene un'idea. «Papà!» lo richiamo. «La mamma lo sa che lo scorso weekend, quando dovevi portarla a fare shopping, tu non eri davvero in ospedale perché un tuo amico si era fatto male, ma eri a casa sua a vedere la partita di baseball?» Lui trasalisce. «Potrei mantenere il silenzio in cambio di quei soldi...» Ghigno. Avrò quel tatuaggio. Mi guarda minaccioso. «Tu,» mi punta un dito contro, «piccola nana malefica, non oseresti mica...», poi smette di parlare e fa finta di asciugarsi una lacrima. «No, oseresti eccome. Ti ho cresciuta proprio bene» mi dice, orgoglioso di sé stesso. Controlliamo entrambi che la mamma non stia tornando. Si gira verso di me. «Tieni, e se c'è il resto, riportamelo. E per sicurezza portami anche lo scontrino.» Apre il portafogli e mi mette sulla mano delle banconote. Se lo rimette in tasca e continua a parlare. «Tua madre non dovrà mai sapere niente. Né della partita di baseball né dei soldi che ti ho dato.» Mi guarda un'ultima volta. «E voglio il resto.» «Contaci» dico, mentre agito la mano in aria come per scacciare un insetto. Metto i soldi in tasca e prendo le chiavi di casa. «È un piacere fare affari con te» gli dico. Lui mormora un «ma non mi dire» e poi mi sorride. Sorrido anch'io, lo saluto e poi esco definitivamente da casa. Cammino tranquillamente sulla strada asfaltata. I raggi del sole mi riscaldano la pelle e il leggero venticello che c'è permette alla gente di non sudare come se non ci fosse un domani. Solitamente in estate non esco spesso di pomeriggio, soprattutto quando fa molto caldo perché mi brucerei in fretta, ma oggi si sta bene e dovevo andarmene dalla cucina prima che arrivasse mia madre. Anche se ho preso la via più lunga per arrivare dal tatuatore, sono arrivata troppo presto per i miei gusti. Inizio a fare avanti e indietro per tutta la via. Forse i miei genitori avevano ragione. L'idea di un ago sulla mia pelle non mi entusiasma più di tanto. Dopo aver percorso la stessa strada per quasi venti minuti mi decido a fermarmi davanti al negozio di tatuaggi. Almeno il vecchietto seduto sulla panchina smette di fissarmi come se fossi scappata da un manicomio. Apro la porta del negozio ed entro. Dentro ci sono solo un uomo che controlla dei fogli, un ragazzo che disinfetta il lettino dove si fanno i tatuaggi e una ragazza dietro la cassa. Chiudo la porta, e devo aver usato troppa forza, nonostante i miei muscoli siano più deboli della voglia degli studenti di alzarsi troppo presto al mattino, perché un quadro che era appeso alla parete cade a terra. E a guardarlo la cornice sembra d'oro. Mormoro un «oh cazzo, che sfiga!» e poi trovo il coraggio di alzare lo sguardo. L'uomo continua ad alternare lo sguardo da me al quadro e viceversa. La ragazza ha gli occhi sgranati e il ragazzo cerca di non scoppiare a ridere. Noto che l'uomo ha fatto cadere i fogli, che precedentemente teneva in mano, per terra. Il suo sguardo si sofferma su di me, e io deglutisco. «Signorina, potrebbe dirmi il suo nome?» pone gentilmente. Anche se la vena che pulsa sulla sua fronte fa notare che in questo momento vorrebbe essere tutt'altro che gentile. Rido nervosamente. «Mi dispiace, ma io no capile tu lingua.» I due ragazzi scoppiano a ridere e io sposto il mio sguardo su di loro. Il ragazzo ha i capelli scuri leggermente lunghi e castani. È alto e ha un fisico tonico e asciutto. Indossa un paio di jeans e una maglietta a maniche corte, da cui si notano le braccia piene di tatuaggi, e non solo quelle. Niente male. La ragazza è alta più o meno come me, è magra e ha i capelli marroni raccolti in una coda alta. L'uomo si schiarisce la voce, così riporto il suo sguardo su di lui, che ha un sopracciglio alzato. «Oh, ma davvero non capisce la mia lingua? E la sua frase di prima "oh cazzo, che sfiga!" non era nella mia lingua?» chiede con sarcasmo. Mi sorride beffardo, per poi continuare a parlare. «Ha intenzione di dirmi il suo nome? O devo chiamare la polizia?» A quella frase sgrano gli occhi. «La polizia? Per un quadro maledetto che è caduto da solo? Ma davvero?» esclamo incredula. Al suo sguardo divertito e di chi la sa lunga noto l'enorme errore appena commesso. Mi porto la mano destra sulla fronte. Sospiro e impreco contro di me mentalmente. «Il mio nome è Brianna.» «Bene, Brianna, che ne dice di seguirmi dentro al mio ufficio per parlare di quel, come ha detto lei, quadro maledetto?» Ho sempre odiato l'arte, e dopo oggi posso dire che anche l'arte odia me. La prima volta che sono andata ad una mostra ero con i miei genitori, e avevo circa sei anni. Mi ricordo che quando ci eravamo fermati per guardare un quadro di diverse tonalità di blu e azzurro, io ero scoppiata a piangere chiedendo a mia madre perché avessero ucciso un Puffo. Evidentemente avevo già battuto la testa e già avevo dei danni irreparabili al cervello. Invece il secondo tentativo dei miei genitori di farmi apprezzare i quadri è andato addirittura peggio. C'erano anche i miei zii ed eravamo andati con una sola macchina. Alla guida c'era mio zio, e sinceramente parlando sono meglio io che l'ultima volta che ho guidato ho preso un palo e parcheggiato sul marciapiede. Mio zio aveva guidato tanto, troppo, veloce, e quando siamo entrati alla mostra ho vomitato sulle scarpe di uno sconosciuto che, guarda caso, era il pittore a cui era dedicata la mostra. Di male in peggio. Entro dentro dell'ufficio e mi siedo sulla sedia di fronte a lui, e a separarci c'è una scrivania di legno chiaro. Magari con la scrivania non mi strangola. Inizio a parlare prima di lui. «Mi dispiace davvero, signore, ma la sfiga è attratta da me come una falena è attratta dalla luce. Ha presente quando lei cammina, pesta una cicca sull'asfalto, e quando alza il piede la cicca rimane appiccicata sia alla suola della scarpa sia alla strada? E ha presente quando prova a togliere la cicca dalla scarpa, ma questa non si toglie nemmeno con un miracolo?» Gli do del tempo per immaginare la situazione. «Ecco, io sono la persona che pesta la cicca, solo che al posto della cicca io alla mia nascita ho pestato la sfiga, e nonostante tutti i miei tentativi di levarmela dalla suola della scarpa lei è ancora lì. È talmente attaccata a me che ormai pure le nostre mestruazioni sono sincronizzate!» finisco il mio discorso. L'ultima frase potevo risparmiarmela. È un uomo, cosa dovrebbe capire? Lui fa un respiro profondo, chiaramente esasperato. «Senta, non mi interessa della cicca che ha pestato o delle sue mestrua-qualcosa. Quel quadro era il mio preferito e costava anche parecchio, dato che la cornice era in oro. Quindi le offro due opzioni: o mi ripaga subito i danni, oppure inizia a lavorare all'interno del negozio a tempo determinato e ogni mese una parte dello stipendio verrà trattenuta per ripagare il quadro.» Prendo un respiro profondo. «Ha davanti a lei la sua nuova impiegata assolutamente entusiasta di questo lavoro. Anche se tecnicamente non ho fatto cadere io il quadro. Probabilmente era posseduto.» L'uomo sospira e mi conduce fuori dal negozio. Torno a casa, maledicendo la mia sfiga. Beh, oggi ho capito una cosa. Mai andare dal tatuatore se la sfiga ti perseguita. E adesso chi lo spiega ai miei?
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