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Secondo China, Nikandr Vassilkov era un esemplare unico. L’aveva studiato più a lungo di quanto sarebbe stato consigliabile – o prudente – ed era arrivata alla conclusione che fosse “l’opzione deluxe” della Casa delle Morti Improvvise.
Tra la ventina di persone che lavoravano per Red, Nikandr era quello che si prendeva regolarmente i lavori più difficili – e più pagati. China aveva anche l’impressione che a volte si scegliesse i lavori, cosa che nessuno degli altri poteva fare.
Quindi, rifletteva, Nikandr avrebbe potuto rifiutare l’incarico, se avesse voluto.
Mentre si allontanava da Londra alla stessa velocità dell’Eurostar su cui era, China cercava di analizzare ogni dettaglio del killer che aveva alle costole. Alla ricerca del dettaglio che l’avrebbe potuta salvare.
L’aveva notato per la prima volta alla Casa delle Morti Improvvise dopo quasi un anno che lavorava per Red. Se eri un assassino ed eri in Inghilterra la tua scelta era tra lavorare per Red o lavorare nell’aldilà.
In ogni caso, l’aveva visto apparire nel club di Pall Mall una sera di gennaio di tre anni prima, con la neve che cadeva fuori dalle finestre e l’aria deprimente dell’inizio dell’anno. Anche tra i suoi simili Nikandr Vassilkov non si faceva notare. China era quasi sicura di essere stata l’unica a far caso a lui. Non era vero, ma in quel momento non poteva saperlo.
In quel momento aveva solo visto un uomo che entrava nella sala comune, le scarpe ancora cosparse di gocce di neve sciolta. China era capace di prendere le misure di chiunque in un istante, ma con lui le era riuscito difficile. Doveva essere circa un metro e ottantacinque, anche se sembrava più basso. Da spalla a spalla poteva misurare un po’ più di settanta centimetri, ma forse erano meno.
Era snello, ma non si muoveva in modo particolarmente elegante. Non si faceva notare per niente. I capelli erano castano scuro, con un taglio da uomo che non ti restava impresso nella mente per più di mezzo secondo. Il viso era del tipo che scivolava via dal ricordo, se non ci facevi grande attenzione.
Quella prima sera China non ci aveva fatto grande attenzione, così avrebbe solo saputo dire che l’uomo che aveva visto era bianco, coi capelli scuri, senza tratti peculiari.
Lui aveva attraversato la sala comune con passo né troppo rilassato né troppo energico e, senza che nessuno ci facesse caso, si era infilato nella saletta privata di Red.
China avrebbe voluto passare immediatamente a esaminare il loro terzo incontro, quello che poteva darle più dati, ma si costrinse a ripensare alla seconda volta in cui l’aveva incontrato.
Sempre alla Casa delle Morti Improvvise, sempre d’inverno. Red era occupato con Harry Ribbs, un killer che preferiva l’arma bianca perché era miope, e Nikandr, appena arrivato, non aveva nemmeno provato a farsi annunciare.
Si era seduto al bancone del bar accanto a China e, mentre aspettava che Red si liberasse, aveva ordinato una birra.
Lei si era voltata e gli aveva offerto un sorriso sospettoso. Sospettoso e, visto che era uno dei suoi sorrisi, conturbante. China poteva dire per esperienza che nessun maschio sulla faccia della terra poteva rimanere insensibile all’onda di sensualità che emanava naturalmente, omosessuali compresi, anche se in loro il turbamento era di solito di brevissima durata.
La normale reazione di tutti gli altri era la comparsa di un sorriso che poteva variare dall’idiota, al cupido, al predatorio; di un minimo, ma percettibile, raddrizzamento della colonna vertebrale e di uno scintillio di interesse negli occhi. Inoltre era come se in loro si accendesse un interruttore, un interruttore che li faceva passare da uno stato di riposo a un’immediata disponibilità all’amplesso. Il picco ormonale si avvertiva a qualche metro di distanza. Non di rado si verificavano vere e proprie erezioni.
Nikandr non fece eccezione, ma si riprese rimarchevolmente in fretta. In tutto la sua reazione da cane in calore, come la chiamava China, durò meno di tre secondi.
In quei tre secondi China si rese conto di alcune cose. Primo: ogni singola fibra del corpo dell’altro era oliata e pronta a colpire. Secondo: il suo viso non era affatto insignificante. Era affilato, forse un po’ duro, ma decisamente gradevole. Terzo: i suoi occhi, per quanto fossero incassati, erano indiscutibilmente grigio ghiaccio. Quarto e ultimo: i suoi denti erano piuttosto bianchi e piuttosto dritti, ma non riallineati da un apparecchio o sbiancati da un dentista.
Meno di tre secondi.
Dopo di che Nikandr si riprese alla grande, il suo sorriso da predatore svanì, sostituito da una sua versione blanda e scialba, gli occhi tornarono a essere di colore chiaro imprecisato, i lineamenti niente-di-speciale, il corpo magro ma non particolarmente aggraziato o scattante.
Allungò una mano nel modo in cui avrebbe potuto farlo un rappresentante di commercio non particolarmente bravo e disse, con voce del tutto anonima: «Ciao. Io sono Nikandr».
«China» aveva risposto China.
Lui aveva sorriso in modo vagamente paternalistico, da vero perdente, e aveva commentato: «Sei nata da quelle parti o è un nome di battaglia?».
Lei l’aveva guardato fisso, increspando appena le labbra. Di solito l’interlocutore iniziava a sudare, a questo punto.
Anche Nikandr iniziò a sudare, ma con mezzo secondo di ritardo. Si toccò nervosamente la cravatta e ridacchiò come uno scemo. Era dannatamente credibile e China ne apprezzò ogni sfumatura.
«Cazzo se sei bravo» commentò, con la sua particolarissima voce roca.
L’altro sembrò prima confuso, poi scioccamente orgoglioso. «Non capisco» disse, dando a intendere che invece capiva. Patetico. E geniale.
Lui aveva bevuto un sorso di birra, fingendo di non sapere bene che cosa dire, China aveva scosso le spalle e succhiato dalla cannuccia un po’ del suo mohito. Aveva deciso in quel momento di informarsi sul suo conto.
Nei mesi successivi aveva raccolto impressioni quando era stato possibile.
Anche gli altri “soci” avevano notato Nikandr, ma non per gli stessi motivi per cui l’aveva notato China. Avevano notato che prendeva sempre i lavori migliori e che, pur con quell’aria da niente-di-speciale, era sempre tornato a incassare. Non socializzava un granché con gli altri – che già non erano di loro persone molto socievoli – ma non era un orso misantropo. No, solo non sembrava aver niente di interessante da dire.
Alla fine di quell’anno China aveva avuto l’occasione di lavorare con lui. Red le aveva chiesto espressamente di affiancarlo in un incarico, perché Nikandr aveva bisogno di una moglie (finta) e di una partner (vera). Aveva chiesto Espelth, una bionda con i denti da criceto esperta di esplosivi e tecniche di commando, ma lei aveva accettato un lavoro il giorno prima.
Red aveva prenotato loro una stanza privata al club per il pomeriggio.
China si era presentata con una gonna al ginocchio color topo, scarpe con il mezzo tacco marroni, camicetta con stampe floreali sul beige e un cardigan marrone non nuovo ma non infeltrito. I capelli neri erano legati in una coda bassa e il viso era truccato in modo che le labbra fossero di un marrone troppo scuro e l’ombretto rendesse i suoi occhi più piccoli e più tondi.
Nikandr era seduto in una poltroncina, con una caviglia appoggiata sul ginocchio opposto, in un completo niente-di-speciale blu e con davanti una tazza di tè.
«Ciao, China» le aveva detto, rivolgendole un sorriso amichevole. Apparentemente aveva lasciato perdere la faccenda di essere un insignificante sfigato. Sembrava tranquillo e padrone di sé.
«Ciao, Nikandr. Pensi che potrei averne un po’ anch’io? C’è un freddo fottuto fuori».
Lui aveva versato un po’ di tè nella tazza vuota che era sul vassoio, mentre China si sedeva su un’altra poltroncina. Lui l’aveva guardata in silenzio per qualche secondo, poi aveva sospirato.
«Immagino che bisognerà farti andar bene» aveva commentato. «Non potresti mettere delle calze un po’ più spesse?».
China aveva guardato in basso. Giusto: calze velate marroni da venti denari. Avrebbero dovuto essere almeno da trenta.
«Altro?» aveva chiesto, prima di alzare il telefono per ordinarle a uno dei “fattorini”.
Lui si era sporto leggermente in avanti. «Lenti a contatto castane?» aveva suggerito.
«Color nocciola è meglio, se ho capito che cosa intendi» aveva replicato lei.
Lui si era stretto nelle spalle. «Immagino che saprai meglio di me come non far notare i tuoi occhi».
China aveva sollevato la cornetta e aveva ordinato i due accessori richiesti.
Si era rilassata sulla poltrona, accavallando distrattamente le gambe. Aveva seguito lo sguardo di lui che le percorreva le cosce con occhio critico. «Non siamo ancora sul campo. Rilassati» aveva detto, prendendo un altro sorso di tè. «Al momento giusto sarò sciatta proprio come mi vuoi tu». Gli aveva fatto l’occhiolino. «O quasi».
Lui aveva scosso le spalle. «Okay» aveva annuito. Poi le aveva spiegato in ogni dettaglio che cosa dovevano fare.
Calze e lenti erano arrivate e China le aveva indossate entrambe, poi i coniugi Forrest erano partiti per Northfolk.
L’albergo in cui alloggiavano era a quattro stelle, ma la stagione era bassa, quindi anche due esponenti della classe media come loro potevano permetterselo. Avevano parcheggiato la macchina familiare di lui nel garage ed erano saliti nella loro stanza.
Avevano cenato nel ristorante parlando del più e del meno: i bambini che sicuramente stavano facendo impazzire i nonni, la consegna che il socio di lui doveva fare lunedì, piani per il giorno seguente…
Quella notte Nikandr aveva fatto il suo lavoro in una stanza mentre China faceva il suo in quella accanto. Nessun allarme era partito dal sistema di sorveglianza sincronizzato.
Erano tornati nella loro stanza, si erano cambiati ed erano andati a letto. La mattina dopo se ne erano andati prima che i cadaveri venissero scoperti. Nessuno avrebbe potuto ricordarsi di loro con esattezza, tanto erano stati insignificanti.
Durante la notte China aveva scoperto con stupore che non era l’unica a dormire con una cuffia in testa per non perdere capelli.
Quando, il giorno dopo, si erano lasciati, era stata l’ultima volta in cui China aveva visto Nikandr. Finora.
Adesso, mentre il treno correva sotto alla Manica, China era convinta che lui fosse lì con lei da qualche parte o, nell’eventualità migliore, una sola lunghezza dietro di lei.
Poteva sentirne il fiato sul collo.
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Lei sedeva nella seconda carrozza. Indossava jeans scuri, un maglione e un cappotto corto stretto in vita. Gli occhi blu e i capelli neri erano stati sostituiti da un caschetto castano che sembrava vero e da lenti a contatto di un azzurro più slavato.
Non sembrava incinta. Nikandr supponeva che fosse ancora troppo presto perché si vedesse.
Gli sembrava ancora impossibile che lei potesse essersi invaghita di un “cliente” al punto tale da farsi mettere incinta e da mollare il lavoro. Qualcuno aveva ucciso lui e ora lui avrebbe eliminato la seconda parte del problema.
Sapendo che lei sapeva chi aveva alle calcagna Nikandr aveva abbandonato la sua abituale tattica dell’invisibilità. Seduto nella terza carrozza dell’Eurostar diretto in Francia, era truccato in modo tale da assomigliare a un tunisino francese di buona famiglia. Carnagione scura, occhi scuri, capelli crespi e corti, dolcevita bianco e giacca verde spigata. Aveva già raccolto alcuni sguardi di interessamento, il che significava che il suo smalto non era andato perso in anni di dissimulazione.
Molto bene.
Arrivati in Francia l’avrebbe seguita giù dal treno e l’avrebbe uccisa alla prima occasione.
Quasi gli dispiaceva, ma non era da lui rinunciare a un contratto così riccamente retribuito. Per di più era anche un segno della stima che Red aveva per lui.
Fuori dal finestrino la galleria era illuminata a intervalli regolari. Nikandr si chiese silenziosamente e per l’ennesima volta come lei avesse potuto farsi fregare in questo modo.
Ricordava perfettamente la prima volta in cui l’aveva vista, al club di Pall Mall.
Era seduta da qualche parte e Nikandr aveva pensato che non fosse la donna più bella che aveva mai visto, ma sicuramente la più sensuale. Anche nei jeans troppo larghi e nel maglione a collo alto, non facevi nessuna fatica a immaginarla nuda e pronta ad accoglierti. Si era chiesto oziosamente se fosse nata così o se ci avesse lavorato duramente. Probabilmente era una dote naturale. Probabilmente era molto utile e molto disutile al tempo stesso, nel loro lavoro.
L’aveva vista un’altra volta, e lei l’aveva notato, questa volta. Aveva percepito chiaramente il suo sguardo che lo seguiva.
Poi, la volta seguente, lei aveva visto facilmente attraverso alle sue dissimulazioni. Aveva capito con esattezza quali fossero i suoi talenti e a Nikandr non era piaciuto. Per un istante si era sentito nudo. E, ovviamente, scoperto e impotente.
Quando avevano lavorato insieme si era reso conto che anche lei era una brava professionista. Non brava come lui, certo, ma decisamente sopra la media.
Avrebbe preferito non averla come partner. Non che avesse paura di fare qualche stupidaggine dormendo nel suo stesso letto, ma aveva avuto paura di essere troppo concentrato a non fare stupidaggini per concentrarsi al cento per cento sul lavoro.
Non c’erano stati problemi. Lei aveva “spento” quel qualcosa che ti faceva desiderare di scopartela fino alla fine dei tuoi giorni, diventando una semplice bella donna mascherata da donna scialba. Nel momento stesso in cui erano saliti in macchina per dirigersi a Northfolk, lei era diventata la triste e noiosa moglie di un triste e noioso tizio qualunque.
Non riusciva a capire che cosa fosse successo dopo.
Era una professionista, di questo era certo.
Quale crepa si era aperta in lei per farsi mettere incinta da un obbiettivo? Qual’era stato il problema?
Da un lato avrebbe voluto saperlo per motivi squisitamente pratici: conosci le debolezze del tuo obbiettivo per ucciderlo più facilmente.
Dall’altro un pensiero irrazionale si era aperto un varco nella sua mente analitica: chi era lui, che cos’era, per aver fregato una donna come quella? Come accidenti si faceva?
Sfortunatamente non l’avrebbe mai saputo. Lui era morto, era stato ucciso da un altro “socio” della Casa delle Morti Improvvise.
Nikandr si chiese distrattamente se il suo collega avesse avuto la curiosità di sapere qualcosa di più sul suo conto. Probabilmente no.
Un peccato.
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A Parigi China era scesa dal treno con calma. Voleva vedere se Nikandr le era dietro o se per caso era stata abbastanza fortunata da avere qualche ora di vantaggio.
Ma lui c’era.
L’aveva visto nel riflesso di un vetro. Non si stava nascondendo, non era travestito.
Indossava un dolcevita bianco e una giacca verde spigata. I suoi capelli avevano qualcosa di strano, probabilmente erano umidi, e la sua carnagione era troppo scura. Come se avesse abbandonato un travestimento in tutta fretta. Curioso.
China adesso era un giovane ragazzo biondo. Camminava come un giovane ragazzo e teneva le mani in tasca perché non si notasse la forma troppo femminile del suo corpo.
Sapeva che lui si stava guardando attorno. Forse l’aveva già individuata.
Scivolò fluidamente da un lato, per mettersi fuori dal raggio della sua pistola. Salì su un treno fermo e scassinò la porta dal lato opposto, in modo da scendere sui binari. Poi scivolò sotto al treno successivo.
Mentre era lì, immobile, si chiese se avrebbe potuto semplicemente restare rintanata per un po’, prima di imbarcarsi su un altro treno.
Sembrava un’idea rischiosa.
In realtà avrebbe avuto bisogno di qualcosa di più di quello.
Avrebbe avuto bisogno, come minimo, di una controfigura.
Non poteva averla e non poteva procurarsela.
Poteva solo uscire da sotto quel vagone e sperare di farcela. Aveva un 50% di possibilità. Lui poteva essere sul lato che avrebbe scelto per uscire, oppure poteva essere sull’altro lato.
Cinquanta percento.
Era inutile starci a pensare.
China decise di uscire di nuovo sul lato del binario.
Lui era seduto tranquillamente sul gradino più basso della porta del vagone che lei stessa aveva scassinato all’andata. Aveva una pistola in mano, ma non gliela puntava contro.
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China rimase accucciata dov’era, guardandolo.
Era spaventata, Nikandr lo poteva percepire chiaramente. Sembrava un giovanotto biondo, ma non era accucciata come un giovanotto biondo.
«Per la cronaca, sono le caviglie ad averti tradita» disse.
Lei si mise incongruentemente una mano davanti alla pancia.
«Non si vede per niente» le disse, allora, lui.
«Se guardi con attenzione si vede» replicò lei, con voce tesa.
«Sì, dalla faccia. È una calibro .45» aggiunse. Quello che voleva dire era che della sua faccia incinta non sarebbe rimasto molto.
Lei chiuse gli occhi per qualche istante, come a farsi coraggio, poi si alzò lentamente in piedi.
«Spara prima a lui» disse.
Nikandr rimase spiazzato per un istante, poi capì che cosa intendeva.
Non era così che lavorava. Un solo colpo alla testa, e questo era quanto.
Ma, forse… forse avrebbe potuto accontentarla. Un favore tra colleghi. Non gli costava niente, la pistola era silenziata. Non era sicuro che avesse un senso, dal punto di vista medico. Il feto sarebbe morto comunque, insieme a lei.
Spostò la pistola di una frazione di grado, sul suo addome. Non gli costava niente.
Poi lei cambiò colore e si piegò, appoggiando una mano al vagone dietro di lei.
Nikandr stava per sparare, due volte, alla pancia e alla testa. Poi decise di sparare due volte alla testa, visto che lei tentava di ingannarlo con quella mossa ridicola.
Poi decise di non sparare affatto, ma fece un paio di passi verso di lei, sorreggendola.
Non stava fingendo. In quanto a lui… non sapeva quello che stava facendo.
«Una fitta» spiegò lei. Aveva il viso contratto dal dolore e non sembrava più un giovanotto, neanche un po’.
Guardò verso il basso. I pantaloni chiari del giovanotto erano macchiati di sangue. China singhiozzava per il dolore.
«Oh, merda» disse Nikandr.
Lei si aggrappò al suo braccio. Si stava accasciando sui binari, il sangue era sempre più copioso.
Nikandr mise via la pistola, la sollevò e tornò velocemente verso la porta del vagone fermo che lei aveva scassinato cercando di fuggire.
Che cosa stava facendo?
In ogni caso non lo stava facendo bene. A bordo non c’era nessuno. Un semplice caso, non era così che si lavorava.
Aprì con un piede la porta basculante di un corridoio.
Nessuno.
Nikandr fece una smorfia. Grande professionista, che si affida al caso e alla fortuna.
La stese sul linoleum sporco di uno scompartimento da sei. Spostò una lattina vuota di coca cola.
Lei aveva le gambe piegate, il sangue le macchiava la parte superiore dei pantaloni, le colava fino alle caviglie. Gemeva e aveva la fronte imperlata di sudore.
Nikandr la costrinse ad abbassare le gambe. Slacciò i pantaloni viscidi di sangue (perché?) facendosi male a una mano con la cerniera metallica e iniziò a strattonarli verso il basso.
Le scarpe, naturalmente, andavano tolte. Almeno una.
Strattonò uno dei mocassini fino a sfilarglielo. Finalmente riuscì ad abbassarle i pantaloni a metà coscia. Il sangue le aveva fatto appiccicare la stoffa alla pelle.
Cercò di toglierle i pantaloni, ma alla fine si accontentò di liberarle una gamba. Lei cercò di mettersi in posizione fetale, le mani di lui scivolarono. Prese le mutande intrise di sangue per la fettuccia laterale, l’unica cosa ancora asciutta. La strappò.
Okay. Così funzionava.
Riuscì ad afferrarla per una coscia e le fece divaricare le gambe.
Il sangue si stava fermando, forse. I riccioli scuri del sesso ne grondavano.
Le appoggiò una mano sopra la pancia.
«Devi spingere, forza» le disse.
Lei lo guardò con gli occhi dilatati. Non capiva. Aveva perso una lente a contatto.
Nikandr scosse la testa.
«Avanti, hai avuto un aborto. Spingi, o lo farò io».
China sembrava paralizzata.
Quello che Nikandr fece nei minuti successivi fu qualcosa che sarebbe rimasto con lui per sempre, se ne rese conto nel momento stesso in cui iniziò a farlo. La sua mente sapeva che non c’erano alternative, ma le sue mani non lo capivano. Le mani di Nikandr erano convinte di star facendo del male a un bambino vivo. Prese un pacchetto di salviette umidificate dalla tasca interna della propria giacca.
«No, che cosa…?» gemette lei.
Lui non le rispose. Non riusciva a trovare le parole per quello che stava facendo. La guardò e cercò di comunicarle con lo sguardo che… che era per il suo bene? (perché?) Che sarebbe andato tutto a posto? (lo sarebbe andato?). Il sangue gli colava lungo il braccio.
Fece quello che doveva.
Fece quello che poteva.
Guardò il lago di sangue e il volto pallido e sudato di lei. Quanto ci voleva a morire di setticemia? Probabilmente non molto.
Forse aveva… finito?
Non poteva portarla all’ospedale. L’avrebbero arrestata all’istante, o quasi.
Si rese conto che iniziava di nuovo a ragionare.
La osservò. Sembrava prossima allo svenimento.
Ovviamente… avrebbe dovuto ucciderla.
Che stupida idea. Ovviamente non l’avrebbe uccisa. Era semplicemente inconcepibile.
Prese un’altra salvietta, l’ultima, e cercò di pulirla.
Era come cercare di prosciugare l’Oceano Atlantico con un secchio bucato.
«Okay…» mormorò. Si alzò e barcollò verso la toilette.
Chiusa.
Sfondò la porta con un calciò.
Prese varie salviette di carta dal dipenser e le bagnò sotto il debole getto dell’acqua. Tornò indietro e cercò di ripulirle le gambe.
Pensò che l’acqua dei treni non era potabile. Cercò di pulirle solo le gambe, senza avvicinarsi alla fonte dell’emorragia.
I... resti erano ancora lì Tornò in bagno, prese altre salviette e li avvolse in quelle. Doveva liberarsene… ma dove?
Tornò in bagno per la terza volta e si lavò con attenzione le mani e le maniche della camicia.
La sua pelle scura non l’avrebbe aiutato. Cercò di lavarsi anche la faccia.
Doveva lasciarla lì?
Comunque doveva riprendere la sua borsa nell’armadietto a tempo.
Doveva prendere dei vestiti per lei.
Doveva trovare un modo per portarla fuori di lì.
E doveva iniziare a pensare che cosa fare dopo.
Nikandr si guardò nello specchio del bagno. Il suo viso di nuovo chiaro gocciolava d’acqua. I suoi occhi erano…
Ma i suoi occhi non avevano importanza.