Chapter 6

2071 Words
RIEPILOGO DEI FATTI(Continuazione) Coprii l’ultimo tratto di viaggio nella fredda fine di dicembre, in una giornata di gelo quanto mai tagliente, e chi doveva capitare a farmi da guida se non Patey Macmorland, il fratello di Tam? Un ragazzino di dieci anni, capelli come stoppa, gambe nude, ma linguacciuto come non ne ho mai conosciuti altri, aveva preso presto il vizio del fratello. Anch’io, poi, ero di età non troppo matura, l’orgoglio non aveva ancora dominato la curiosità; e veramente, in quella mattinata fredda, chiunque si sarebbe lasciato prendere nel sentirsi raccontare tanti vecchi pasticci locali, nel vedersi indicare strada facendo tanti posti dove erano successi casi strani. Mi furono snocciolate storie di Claverhouse (1) quando si attraversarono gli acquitrini e storie del diavolo quando si superò la cresta. Arrivando nei pressi dell’abbazia, venni a sapere un po’ dei monaci di un tempo e molto di più dei contrabbandieri, che ne usano i ruderi come deposito e per questo motivo sbarcano a un tiro di cannone da Durrisdeer; e lungo tutta la strada i Duries furono in prima linea, come bersaglio della diffamazione. La mia mente, dunque, rimase molto mal disposta contro la famiglia al cui servizio stavo per entrare, così che fui quasi sorpreso quando vidi Durrisdeer, annidato in una conca amena sotto Abbey Hill. Il palazzo mi parve costruito con tutte le finezze dello stile francese, o forse con influenze italiane (non m’intendo d’architettura), e il terreno intorno mi sembrò abbellito dei più vaghi giardini, prati, boschetti e viali che io avessi mai visto. Il denaro profuso improduttivamente in quelle delizie sarebbe bastato a rimettere su la famiglia; e invece per la sola manutenzione non bastava tutta una rendita. Mr. Henry venne alla porta personalmente ad accogliermi: era un giovane gentiluomo alto e bruno (tutti i Duries hanno i capelli neri), dal volto comune e poco allegro, molto robusto come corporatura e un po’ meno come salute. Mi diede la mano affabilmente e mi incoraggiò con parole schiette e gentili. Quindi, senza neppure lasciarmi togliere gli stivaloni, mi portò in sala, per presentarmi subito a mylord. Era ancora giorno; e la prima cosa che osservai fu una losanga di vetro trasparente, proprio nel mezzo dello stemma della vetrata a colori. Ricordo che questo mi sembrò una stonatura in una stanza tanto bella, con i suoi ritratti di famiglia, con la sua volta a crociera e con il suo camino scolpito, in un angolo del quale il mio vecchio lord sedeva leggendo Tito Livio. Somigliava a Mr. Henry, con la stessa fisionomia comune, ma più arguta e piacevole, ed era cento volte più attraente nel conversare. Egli, me ne ricordo ancora, ebbe molte domande da farmi riguardo all’università di Edimburgo, dove mi ero appena laureato, e riguardo ai vari professori, delle cui persone e delle cui capacità sembrava benissimo informato; sicché, discorrendo di cose che conoscevo, imparai subito a parlare liberamente nella mia nuova casa. Nel bel mezzo della conversazione, entrò nella stanza la moglie di Mr. Henry; era in stato di avanzata gravidanza, poiché aspettava la signorina Katharine fra sei settimane, e perciò, a prima vista, la sua bellezza non mi sembrò un gran che; inoltre, lei mi trattò con maggiore degnazione che non gli altri, ragion per cui, tutto sommato, la collocai al terzo posto nella mia stima. Non ci volle molto perché tutte le storie di Patey Macmorland mi sembrassero menzognere, ed io diventassi, come poi sono rimasto sempre, devoto servitore della famiglia di Durrisdeer. Mr. Henry ebbe la maggior parte del mio affetto. Lavoravo sotto di lui; ed egli (pur così gentile durante le ore di riposo) nell’ufficio di amministrazione mi si mostrava oltremodo severo, sovraccaricandomi di lavoro e sorvegliandomi assiduamente. Ma un bel giorno, alzando gli occhi dalle sue scartoffie con una specie di timidezza mi fece: – Signor Mackellar, credo di dovervi dire che svolgete benissimo il vostro compito. – Questa fu la prima parola di lode che ebbi da lui, e da quel giorno la sua diffidenza riguardo al modo in cui adempivo ai miei compiti si sciolse; ben presto fui «signor Mackellar» qui, e «signor Mackellar» lì, per tutta la famiglia; e, durante gran parte del mio servizio a Durrisdeer, trattai tutti gli affari, quando e come credetti meglio, senza che mi si contestasse un solo quattrino. D’altronde, cominciai a provare affetto per Mr. Henry anche nel periodo in cui questi mi stava alle calcagna; ed a questo fui mosso in parte da compassione, tanto l’infelicità di lui era evidente. Nel bel mezzo dei nostri conti, egli si perdeva in profonde meditazioni, restando con lo sguardo fisso sulla pagina, o fuori della finestra. Allora l’aspetto della sua faccia e i sospiri che gli sfuggivano dal petto suscitavano in me un intimo sentimento di curiosità e di commiserazione. Un giorno, mi ricordo, ci eravamo attardati nell’ufficio per non so che faccenda. Quella stanza era in cima alla casa, e vi si scorgeva la baia con un piccolo promontorio boscoso e una lunga spiaggia; di lassù, proprio di fronte all’occidente, dove il sole stava calando nel mare, vedemmo i contrabbandieri percorrere il lido con gran forza di uomini e di cavalli. Mr. Henry si era incantato a guardare il tramonto così fissamente, da stupirmi che non ne fosse abbacinato. Di colpo si accigliò; poi si passò una mano sulla fronte e si rivolse a me con un sorriso. – Voi non immaginate quello che pensavo, – disse. – Pensavo che sarei più felice se potessi rischiare la vita, scorrazzando con quella gente senza legge. Gli risposi che mi ero accorto della sua tristezza; e che è comune fantasia invidiare gli altri e credere di poter prosperare con il cambiare stato; essendo fresco di studi, citai in proposito Orazio. – Già, è vero, – disse lui. – E con questo possiamo tornare ai nostri conti. Non passò molto tempo che cominciai a capire le cause del suo abbattimento. D’altra parte, anche un cieco si sarebbe accorto che c’era un’ombra in quella casa, l’ombra del signore di Ballantrae. Morto o vivo che fosse (e allora lo credevano morto) quell’uomo era il rivale di suo fratello: il suo rivale in paese, dove nessuno aveva una buona parola per Mr. Henry, e tutti rimpiangevano e lodavano Sir James; e il suo rivale in famiglia, non solo rispetto a suo padre e a sua moglie, ma rispetto ai servi stessi. Questi si erano divisi in due fazioni con a capo due vecchi camerieri. John Paul, un uomo basso, calvo, solenne e panciuto, molto religioso e (tutto sommato) un servo abbastanza fedele, capeggiava il partito di Sir James. Nessuno osava quello che osava John. Prendeva gusto a mancare pubblicamente di rispetto a Mr. Henry, spesso con raffronti sprezzanti. Mylord e la signora lo riprendevano, si sa, ma non così risolutamente come avrebbero dovuto; e bastava che lui facesse il viso lungo e cominciasse a piagnucolare per Sir James, «il suo ragazzino», come era solito chiamarlo, perché tutto gli fosse perdonato. Quanto a Henry, lasciava passare queste cose in silenzio, con un viso triste, a volte, e a volte rabbuiato. Non si poteva competere con il morto: lo sapeva; e a censurare un vecchio servo per un eccesso di devozione, lui non ci sarebbe riuscito davvero. Non aveva lingua per questo. Alla testa del partito opposto stava Macconochie, un vecchio furfante maldicente, bestemmiatore, chiacchierone e ubriacone, e mi è spesso sembrato un aspetto bizzarro dell’umana natura il fatto che ognuno dei due domestici si ergesse a campione di colui che rappresentava il suo opposto, giungendo così a dipingere a fosche tinte i propri difetti e a deprezzare i propri meriti riscontrandoli in un padrone. Macconochie, fiutate ben presto le mie segrete simpatie, mi ammise nella sua confidenza, parlando per ore contro Sir James, anche a costo di farmi trascurare le mie faccende. – Tutti rincitrulliti questi paesani, che siano maledetti! – esclamava. – Il signore di Ballantrae!... Il diavolo si porti chi lo chiama così! Mr. Henry dovrebbe essere l’erede adesso! Non erano mica tanto entusiasti del signore di Ballantrae, quando lo avevano tra i piedi, ve lo garantisco io. Che sia maledetto! Non gli ho mai sentito dire una parola con garbo, né io, né nessuno, ma insolenze e sarcasmi e maledizioni, oh, quelle sì! Che possa bruciare nell’inferno! Nessuno sa a che punto arrivava la sua perfidia: lui un gentiluomo? Avete mai sentito parlare, voi, signor Mackellar, di Wully White, il tessitore? No? Ebbene, Wully era un gran bigotto, un tipo noioso, insomma, tutto diverso da me, che non l’ho mai potuto soffrire; ad ogni modo un uomo come si deve, nel suo genere, che se ne andò a rampognare Sua Signoria per certe marachelle. Che prodezza per un signore e impiantare una faida contro un tessitore, vero? E qui Macconochie faceva un riso stridulo, perché proprio non poteva proferire quel nome senza una specie di ringhio d’avversione. – Ma così fece! Era davvero una bella azione, grattare all’uscio di costui, e urlargli «buh! buh!» giù per la cappa del camino, e buttargli polvere da sparo nel fuoco, e fargli scoppiare petardi sul davanzale fino a far credere a quel disgraziato che il diavolo in persona gli stesse alle calcagna. Bene, per farla corta, Wully ci ammattì. Non c’era più verso di tirarlo su dal suo starsene ginocchioni; e continuò a urlare e a pregare, e a piangere, finché non finì di soffrire. Fu un assassinio vero e proprio, lo dissero tutti. Chiedetelo a John Paul, non aveva più il coraggio di mostrare la faccia per la vergogna, lui, un uomo così devoto! Grande prodezza per il signore di Ballantrae! – Gli chiesi che impressione quel caso avesse fatto a Sir James stesso. – E che ne so io? – disse Macconochie. – Non ha aperto bocca! – E il servo riprese a imprecare e a bestemmiare, secondo il suo solito, ringhiando ogni tanto nel naso: – Signore! – Durante una di queste confidenze, mi mostrò la lettera di Carlisle con l’impronta dello zoccolo del cavallo ancora impressa nella carta. Però quella fu la nostra ultima conversazione, perché allora egli si espresse con tanta malignità sul conto della signora, che io lo dovetti riprendere aspramente, e, da allora in poi, badai bene di tenerlo a distanza. Il mio vecchio lord trattava Mr. Henry con uniforme bontà, anzi aveva simpatici gesti di gratitudine, come quello di battergli talvolta una mano sulla spalla dicendo, senza rivolgersi a nessuno in particolare: – Ho un ottimo figlio. E di certo gli portava gratitudine, da uomo giusto e onesto come era. Ma credo che si trattasse di gratitudine pura e semplice, e sono sicuro che Mr. Henry fosse della mia stessa opinione. L’affetto era tutto per il figlio morto. Non che questo venisse fuori spesso nelle parole: con me, una volta sola. Mylord mi aveva chiesto un giorno, come mi trovassi con Mr. Henry, e io gli avevo detto la verità. – Già, – aggiunse lui, guardando in tralice il fuoco che divampava, – Henry è un buon ragazzo, un gran buon ragazzo. – E continuò: – Avete sentito dire, signor Mackellar, che io avevo un altro figlio? Forse non era pieno di virtù come Mr. Henry; ma Dio mio, ora è morto, signor Mackellar; e quando viveva, andavamo tutti tanto orgogliosi di lui, tanto orgogliosi! Se non era, in certo modo, proprio come avrebbe dovuto essere, ebbene, per questo appunto lo amavamo di più! Queste ultime parole le disse guardando pensierosamente il fuoco, ma poi si rivolse a me di nuovo, e aggiunse con molta vivacità: – Ma io mi rallegro tanto che voi andiate così d’accordo con Mr. Henry. Troverete in lui un buon padrone. – E, a questo punto, aprì il suo libro: il che era, da parte sua, il consueto segno di commiato. Ma, di certo, lesse poco e capì meno; il campo di Culloden e Sir James, ecco che cosa gli opprimeva la mente; e la mia era oppressa, nei confronti del morto e per amore di Mr. Henry, da una strana gelosia che già allora aveva cominciato a impadronirsi di me. Dato che non ho ancora parlato della signora, potrà sembrare che io abbia espresso con ingiustificata esagerazione il mio modo di sentire: giudichi il lettore da sé quando avrò finito. Ma devo prima parlare di un’altra cosa, che servì a farmi entrare maggiormente nell’intimità della famiglia. Non erano passati sei mesi dal mio arrivo a Durrisdeer, quando accadde che John Paul si ammalò e dovette rimanere letto: secondo la mia umile opinione, la radice di ogni suo male stava nel bere; ma l’assisterono come un santo tormentato, e lui si comportava proprio come tale, sicché lo stesso ministro della nostra chiesa, che venne a visitarlo, andò via dichiarandosi edificato. La terza mattina della malattia di John Paul, Mr. Henry mi capitò davanti tutto confuso.
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