Capitolo iiIl re del Siam
La dolce Parvati, la sposa del dio Sivah, così venerato dagl’indiani, trovandosi un giorno nel bagno, si divertiva a raccogliere le bianche pellicole che si staccavano dal suo grazioso corpo.
Le preziose particelle di quell’essere divino vennero modellate dalle sue dita, come l’argilla dalle mani di uno scultore. Tosto delle forme umane cominciarono a delinearsi, ed una statuetta di bimbo uscì dalla vasca di diaspro, entro cui la bellissima dea si bagnava.
La dea - narra sempre la leggenda indiana - le soffiò allora nella bocca, un vagito s’udì: era un essere umano che apriva gli occhi alla luce.
Era trascorso quasi un anno, quando il terribile Sivah, tornando dalla guerra contro i giganti maligni che volevano bruciare il mondo, con sua sorpresa e collera, trovò nel palazzo reale un nuovo rampollo di cui non s’aspettava l’esistenza. Colto da un tremendo accesso di furore, trasse la scimitarra tinta mille volte nel sangue dei nemici e tagliò netto il collo a quel fanciullo.
La dolce Parvati raccontò allora con quale innocente artificio aveva animato quella statua, di cui aveva ad un tempo fornito la materia prima e la manifattura, e siccome vi sono dei casi in cui gli stessi dèi accettano volentieri le ipotesi più favorevoli, Sivah non sollevò alcun dubbio sull’innocenza della diletta sposa.
«Sono stato un po’ vivace,» le disse. «Ho l’abitudine di agire troppo precipitosamente in tutte le cose mie, ma conosco un mezzo per riparare al mal fatto».
Appena pronunciate quelle parole, con un colpo della sua formidabile scimitarra fece saltare la testa del suo elefante da guerra e la posò sulle spalle del bimbo decapitato.
Grazie a quel miracolo di chirurgia, solo possibile ad un dio, il maestoso Ganesha, la cui testa d’elefante si dondola sul suo corpo d’uomo, fu annoverato fra gli dei dell’India.
Protetto da una tale divinità, l’elefante non doveva mancare di essere considerato come un animale superiore allo stesso uomo, sia per la sua mole, sia per la sua straordinaria intelligenza, sia per la sua forza prodigiosa.
Dovevano i popoli confinanti o quasi confinanti coll’India rimanere insensibili ad un tale avvenimento? Assolutamente no, e l’elefante fu senz’altro accettato dai Birmani prima e dai Siamesi poi, come una divinità protettrice di quegli stati.
Fecero però delle eccezioni. Possedendo quei paesi fortunati degli elefanti bianchi, quantunque rarissimi, invece di innalzare agli onori gli elefanti più o meno grigi, diedero la preferenza a quelli…. ammalati!…. Ormai è noto che i famosi elefanti bianchi non sono altro che degli albini, anzi peggio che peggio, dei…. lebbrosi, sfuggiti dai loro stessi compagni come appestati! Ma la scelta degli elefanti bianchi o quasi bianchi o macchiati di bianco come oggetti di ammirazione e di venerazione aveva un’origine religiosa.
Sia i Birmani che i Siamesi sono tutti adoratori di Budda, dio che i primi venerano sotto il nome di Gautama ed i secondi sotto quello di Sommona Kodom.
Ora le antiche leggende narrano che questo Sommona era nato dio per sua propria virtù, che, perfettamente istruito in tutte le scienze, era penetrato fino dal primo istante della sua nascita nei segreti più reconditi della natura, e che la sua divinità si era manifestata con una lunga serie di prodigi e di miracoli stupefacenti.
Un giorno il dio, essendosi seduto all’ombra d’una pianta chiamata tampo, salì in cielo su un trono sfolgorante d’oro e di pietre preziose, e si dice che gli spiriti celesti, abbagliati da tanto splendore, abbandonarono il loro divino soggiorno e gli si prostrarono dinanzi per adorarlo.
Tanta gloria avrebbe eccitato la gelosia e il furore del fratello Thevetat, che doveva essere una specie di Caino; quell’invidioso, sostenuto da un potente partito, cospirò contro il dio, fondando un nuovo culto che fu abbracciato dai re e dai principi.
Il mondo si divise allora in due grandi fazioni, l’una delle quali seguiva Sommona Kodom come modello di virtù, e l’altra lo scellerato Thevetat che colle sue massime ree istigava gli uomini al vizio.
Arse la guerra, ed il malvagio fu precipitato, al pari di Satana, in un abisso fiammeggiante.
Narrano ancora le antiche leggende Siamesi e birmane che il dio, per perfezionare meglio la sua anima, passò nel corso di cinquecento anni per i corpi di vani animali, fra cui quello d’un elefante bianco.
Era dunque naturale che quei popoli venerassero un simile animale e supponessero che nel suo corpo rivivesse l’anima del dio.
Ecco spiegato il motivo per cui Siamesi e Birmani hanno, anche oggidì, tanta venerazione per quei rari animali, che per i primi rappresentano Sommona Kodom, e per gli altri Gautama ossia Budda.
Perciò la morte dell’ultimo S’hen-mheng non doveva mancare di produrre una disastrosa impressione non solo sull’animo del re, bensì dell’intera popolazione; ed era il settimo che spirava nello spazio di poche settimane!….
Quali catastrofi, quali tremendi disastri si preparavano per quel regno, privo della protezione del suo dio?
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Lakon-tay uscì dal palazzo dei S’hen-mheng colla morte nel cuore, pallido, disfatto, per recarsi dal re a dargli il terribile annuncio. Non era uomo che avesse paura della morte il ministro degli elefanti bianchi, oh no!
Prima di essere innalzato a quella carica, da tutti i grandi della corte ardentemente agognata, Lakon-tay era stato uno dei più famosi generali del regno, ed aveva combattuto valorosamente contro i Cambogiani, gli Stienghi e i Birmani che avevano violato le frontiere.
Quello che tormentava il suo animo era la triste sorte che forse era serbata alla dolce Len-Pra, la sua unica figlia che egli adorava pazzamente e che certo doveva venire travolta nella disgrazia che colpiva il padre.
Era certo che il re non avrebbe mancato di accusarlo della misteriosa morte dei sette S’hen-mheng e che si sarebbe mostrato implacabile contro di lui, quantunque egli avesse speso puntualmente, fino all’ultimo tical, le rendite della provincia di Ubon destinate al mantenimento di quei sacri pachidermi, e nulla avesse dimenticato per soddisfare il loro insaziabile appetito.
Uscì solo, senza guardare in viso nessuno, come un delinquente ormai condannato, cupo e affranto, a testa bassa, le unghie conficcate nel petto, e cominciò a percorrere, camminando quasi a zig-zag, i viali che conducevano ai palazzi reali, le cui cupole scintillavano agli ultimi raggi del sole morente, sullo sfondo di un cielo fiammeggiante.
Nessuno aveva osato seguirlo, nemmeno il mahut favorito dal povero S’hen-mheng, perché tutti temevano d’essere coinvolti nella disgrazia che aveva colpito il ministro.
Dopo aver percorso parecchi viali che costeggiavano dei graziosi laghetti, dove si cullavano dolcemente eleganti barchette ricche di dorature e coi cuscini di seta, e dove si bagnavano in gran numero le gru coronate dalle lunghe gambe e bande di aironi, Lakon-tay, sempre assorto nei suoi tetri pensieri, si trovò, quasi senza saperlo, dinanzi al palazzo abitato dal re.
Nel 1865 - epoca in cui comincia questa storia - il palazzo reale di Bangkok era ancora annoverato fra le meraviglie del reame.
Era cinto tutto da muraglie altissime, che si prolungavano per parecchi chilometri, rivestite internamente da lastre di marmo bianco.
Nel centro di quell’immenso recinto sorgeva il mahapregat, ossia la gran sala dove il re usava ricevere gli ambasciatori delle potenze occidentali ed orientali, e dove si conservavano per un anno, racchiuse in un’urna d’oro, le ceneri dei defunti re; sala ricca di dorature meravigliose, eseguite dai più valenti artisti non solo del Siam bensì anche della Cina.
Più oltre si trovava un altro ampio salone, a cui si accedeva per una gradinata di marmo fiancheggiata da gigantesche statue Cinesi, e nel quale si trovava il trono a forma di altare, ricco di pietre preziose e coperto da un baldacchino diviso in sette scompartimenti, sotto cui il re riceveva i grandi della corte.
Lakon-tay si diresse verso quella sala, che era attigua alle stanze reali del monarca e della regina.
Era sicuro di trovare il re senza dover troppo attendere.
Salì col cuore trepidante la scala di marmo, appoggiandosi due volte alle enormi statue che gli pareva lo guardassero sogghignando; poi, facendo uno sforzo disperato, varcò la soglia senza rispondere al saluto del soldato di guardia che gli aveva presentato l’archibugio, e forse senza nemmeno vederlo.
Un ciambellano di corte, che indossava un magnifico vestito di seta rossa a fiori gialli, e aveva ai polsi numerosi braccialetti d’oro e ai piedi babbucce a punta rialzata con perle e ricami d’argento, vedendo entrare Lakon-tay si affrettò a muovergli incontro, accompagnato da due paggi pure sfarzosamente vestiti.
«Il re?» gli chiese brevemente il ministro degli elefanti bianchi, facendo uno sforzo supremo.
«È appena tornato nelle sue stanze, mio signore,» rispose il ciambellano. «Ha finito or ora il ricevimento della missione francese e credo che non abbia avuto nemmeno il tempo di spogliarsi».
«Va’ a dirgli che mi urge vederlo».
«Lakon-tay è sempre gradito a Sua Maestà…. Ma che cosa hai, mio signore? Tu tremi e sei trasfigurato».
«Disgrazia, disgrazia,» gemette il generale.
«Il S’hen-mheng?…».
«Morto…».
Il ciambellano fece rapidamente alcuni passi indietro, come se temesse al pari degli altri di venir coinvolto nella disgrazia che stava per piombare sul povero ministro.
Fece un inchino meno profondo del solito e scomparve per una delle porte laterali che metteva negli appartamenti riservati al re.
«Tutti mi abbandonano e mi sfuggono come un lebbroso,» mormorò Lakon-tay. «Ieri erano vili servi, ora che sto per perdere la mia carica e forse la vita, sono tanti principi».
S’appoggiò a una delle colonne, fissando le lastre di marmo bianco che coprivano il pavimento della vasta sala.
Lo strepito d’una porta che s’apriva lo trasse bruscamente dai suoi tristi pensieri. Alzò gli occhi e trasalì.
Ritto sul primo gradino che conduceva alla piattaforma del trono e ancora vestito del grande costume di gala, stava ritto il re, collo sguardo cupo e la fronte aggrottata.
Phra-Bard-Somdh-Pra-Phara-Mendr-Maha-Monghut, re del Siam, era ancora un bell’uomo, quantunque di età già matura, dalla pelle un po’ abbronzata e dal portamento dignitoso, come si addiceva ad un monarca potente, anzi il più potente di tutti gli stati dell’Indocina.
Indossava ancora, come abbiamo detto, l’abito di gran gala, avendo appena terminato allora di ricevere un’ambasciata straordinaria inviatagli dal governo francese.
Sandet-Pra-Paramindr-Maha, suo figlio, che gli successe sul trono nel 1868, adottò, anche nei grandi ricevimenti, il costume dei generali inglesi; ma i suoi avi ci tenevano invece a fare pompa dell’abito regale siamese, il quale, se non era troppo comodo, faceva colpo sugli stranieri per la sua straordinaria ricchezza e per la sua strana forma.
Phra-Bard aveva dunque sul capo la famosa corona reale, una specie di piramide d’oro massiccio, alta più d’un piede, ornata all’intorno di diamanti e di rubini, che doveva ben pesargli sul cranio; indossava una giubba di tessuto pesante, a lamine d’oro, che s’incrociava sotto la cintura, tutta adorna di perle e di pietre preziose di valore inestimabile; calzoni larghi, pure cosparsi di lamine e di pietre; e ai piedi aveva delle babbucce…. che avrebbero potuto far felice una sultana, tanto erano ricche di rubini e di smeraldi.
Il re doveva già essere stato informato dal ciambellano della morte dell’ultimo dei sette S’hen-mheng, poiché la sua faccia tradiva una profonda preoccupazione, e i suoi occhi erano animati da una fiamma sinistra.
Lakon-tay, facendo uno sforzo supremo, attraversò rapidamente la sala e si lasciò cadere in ginocchio dinanzi al re, dicendogli:
«Se mi credi colpevole, o mio re, uccidimi: sei nel tuo diritto».
Phra-Bard rimase silenzioso, dardeggiando però sul disgraziato ministro uno sguardo che non prometteva nulla di buono.
Ad un tratto la collera, a malapena frenata, scoppiò con violenza inaudita.
«Sei un miserabile!» gridò il re. «Io avevo affidato a te i miei elefanti bianchi, perché ti credevo l’uomo più atto a coprire quella carica, e tu me li hai fatti morire tutti. Tu hai nel tuo vile corpo la maledizione di Sommona Kodom!»
«Giacché tu, o mio re, mi credi colpevole, uccidimi,» ripeté il disgraziato ministro, senza osar alzare gli sguardi verso il monarca. «Però ti giuro che la mia coscienza nulla ha da rimproverarsi; io ho speso regolarmente, fino all’ultimo tical, la rendita della provincia che tu avevi destinato alla corte dei S’hen-mheng, ed ho fatto il possibile perché a loro nulla mancasse.
Che colpa ho io se qualcuno, che non teme la punizione di Sommona Kodom, che sfida la giusta collera del suo re e che si nasconde nelle tenebre, ha osato gettare il maleficio sugli elefanti bianchi?»
«Credi, con questa stolta accusa, di stornare da te la mia collera?» chiese il re.
«Lakon-tay ti ha mostrato, allorché combatteva contro i Cambogiani e contro i Birmani, come non avesse paura della morte. Perché dovrei temerla ora che non sono più giovane?»
Phra-Bard, colpito da quelle parole, si rasserenò leggermente. La fiamma minacciosa che gli brillava poco prima negli occhi si dileguò, e anche le rughe della fronte a poco a poco si spianarono.
«Tu hai un sospetto, generale?» chiese, dopo qualche istante di silenzio.
«La morte dei S’hen-mheng, in così breve tempo, non mi pare naturale, o mio signore,» rispose il ministro.
«E chi avrebbe osato gettare un maleficio sui S’hen-mheng? Dove trovare nel mio regno un uomo che abbia tanto coraggio da sfidare l’ira di Sommona Kodom?»
«E se quell’uomo fosse uno straniero, uno che non credesse al nostro dio?» disse Lakon-tay, che s’aggrappava a tutto per ritardare la sua perdita.
«Uno straniero!» esclamò Phra-Bard, che per la seconda volta era stato colpito dalle risposte del suo ministro.
«Tu sai, o mio signore, che molti t’invidiano la tua potenza e la protezione che godi da parte di Sommona Kodom».
«E i miei S’hen-mheng,» si lasciò sfuggire, forse involontariamente, il monarca». Il mio vicino, il re di Birmania, che possiede un solo elefante bianco e già molto vecchio, mi aveva proposto, or non è molto, una somma favolosa perché gli cedessi uno dei miei S’hen-mheng».
Ma subito dopo, quasi si fosse pentito di aver pronunciato quelle parole, aggiunse con un cattivo sorriso:
«No, non può essere possibile, il re di Birmania è buddista al pari di noi, e non avrebbe osato sfidare la collera di Sommona Kodom, che protegge pure il suo regno e che il suo popolo adora al pari del mio. Se ciò fosse avvenuto, Sommona ci avrebbe fatto ritrovare altri elefanti bianchi, mentre tutte le spedizioni, da me organizzate con immense spese, sono tornate a mani vuote.
Tu solo sei colpevole di aver causato la morte dei S’hen-mheng per inesperienza o per altre cause che io ancora ignoro; grandi e popolo ti accusano, e domani chiederanno giustizia».
«Allora fammi uccidere,» rispose Lakon-tay. «Un generale che ha sfidato la morte sui campi di battaglia, per la gloria e la grandezza della nazione, non ha paura».
Phra-Bard, in preda ad una viva eccitazione, si mise a passeggiare per l’ampia sala, senza rispondere al ministro. Aveva la fronte tempestosa ed il cupo lampo era tornato a brillare nei suoi occhi, indizi certi d’una collera violentissima.
Ad un tratto si fermò dinanzi a Lakon-tay, che era rimasto sempre in ginocchio sul primo gradino del trono, dicendogli con voce aspra:
«Che cosa accadrà ora del mio regno, privo della protezione degli elefanti bianchi, che racchiudevano l’anima di Sommona Kodom? Quali tremende sventure piomberanno sul Siam? Carestie, epidemie, invasioni di nemici, disastri inenarrabili, inondazioni e terremoti; e forse suonerà l’ultima ora per la mia dinastia.
E tutto ciò lo dovremo a te, miserabile, che non hai saputo curare la salute dei nostri S’hen-mheng ed hai irritato il nostro dio.
Levati dalla mia presenza e torna a casa tua, dove attenderai i miei ordini. Il popolo ed i grandi vorranno giustizia e l’avranno».
«Grazia per Len-Pra,» gemette il disgraziato ministro.
«Tua figlia diverrà schiava, a meno che…».
«Prosegui, mio signore,» disse Lakon-tay, nei cui sguardi brillò lampo di speranza.
«….a meno che tu non trovi il modo di procurarmi almeno un S’hen-mheng».
«Se colla mia vita potessi trovarlo, non esiterei a sacrificarla, mio signore».
«Tu sei maledetto da Sommona Kodom e la tua vita non vale, oggi, quella del mio ultimo servo. Vattene e attendi a casa tua il mio castigo».
Ciò detto Phra-Bard, che pareva in preda ad una collera furiosa, si diresse verso una delle porte di ebano, incrostate d’avorio e di madreperla, che mettevano negli appartamenti reali, e l’aperse violentemente.
«Oh mio signore, grazia per Len-Pra,» gridò il disgraziato ministro.
Il re richiuse la porta con fracasso, senza degnarsi di volgersi, e scomparve.
Lakon-tay si alzò in piedi, coi lineamenti sconvolti da un intenso dolore.
«Tutto è finito,» disse, «ma i grandi ed il popolo non assisteranno alla mia punizione. Il vecchio generale, vincitore dei Birmani e dei Cambogiani, non ha paura della morte».
Si diresse verso la gradinata che conduceva ai giardini reali, con passo calmo. Non si accorse nemmeno che la sentinella di guardia dinanzi alla porta, che probabilmente non aveva perduto una parola di quel burrascoso colloquio, non gli rese il solito saluto.
Ormai era un uomo caduto in disgrazia, che valeva meno dell’ultimo paggio di corte.
Riattraversò, sempre immerso nei suoi dolorosi pensieri, i giardini, nei cui viali cominciavano già ad addensarsi le prime tenebre, e si diresse verso la palazzina dalla quale era uscito prima di recarsi nella sala dei S’hen-mheng.
Feng, il suo fedele paggio, lo aspettava sulla porta della magnifica sala, presso il gong sospeso sulla soglia. Vedendo comparire il padrone così disfatto, intuì la disgrazia che lo aveva colpito.
«Oh mio povero signore,» esclamò, colle lagrime agli occhi. «Il Signor elefante bianco è morto dunque?»
«Sì,» rispose il generale con voce rauca. «Tutto è finito!»
«E il re?»
Invece di rispondere, Lakon-tay entrò nella sala e con un gesto rabbioso gettò lungi da sé l’alto cappello a punta, di stoffa bianca, adorno d’un largo cerchio dorato con incisioni che rappresentavano dei fiori, insegna della sua carica; poi si strappò di dosso, lacerandola, la veste di seta gialla dalle maniche larghissime e la lunga sciarpa che gli avvolgeva i fianchi, facendo tutto a brandelli.
«Che cosa fai, mio signore?» chiese Feng, spaventato.
«Mi sbarazzo delle insegne del mio grado,» disse Lakon-tay, coi denti stretti. «Io non sono più il ministro della corte dei S’hen-mheng; oggi sono un miserabile senza carica, uno schiavo, forse un condannato ad una morte infame.
Ma Lakon-tay non poserà la testa sotto le larghe zampe dell’elefante carnefice e non darà al suo occulto nemico, né ai grandi, né al popolo, una tale soddisfazione.
Il vecchio generale mostrerà a tutti come sa morire un prode che ha sfidato il fuoco dei nemici del suo re.
Maledette insegne del mio grado…. Che il vento vi disperda.
Feng, dammi un’altra veste, onde nessuno più riconosca in me il ministro della corte dei S’hen-mheng».
«Mio signore…».
«Taci e obbedisci!…».
Feng, che conosceva troppo bene il suo padrone, uscì per tornare poco dopo con una bracciata di pezze di stoffa dette pagne, di varie lunghezze e di varie tinte, che i Siamesi indossano in vari modi incrociandole attorno al corpo, alle gambe e alle braccia; e dei calzoni larghissimi, nonché parecchi cappelli in forma di fungo o di cono o d’imbuto.
Lakon-tay si vestì frettolosamente, si gettò sulle spalle una fascia di seta assai larga che poi avvolse intorno al collo, in modo da coprirsi anche parte del viso, e uscì.
«Mio signore,» gli disse Feng, che si disponeva a seguirlo. «Devo farti preparare il palanchino?»
«No,» rispose seccamente il generale. «Va’ ad attendermi a casa mia e non dire nulla a Len-Pra».
Scese una ricchissima gradinata di marmo, percorse un corridoio e aperse una porticina, slanciandosi nella via.
Era uscito dal palazzo reale.