Capitolo iLa morte del S’hen-mheng
Un rombo metallico, che si ripercosse lungamente, con una vibrazione argentina, nell’ampia sala sorretta da venti colonne di legno dipinte a vivaci colori e cogli zoccoli coperti da lamine d’oro, fece bruscamente sussultare Lakon-tay.
L’invidiato ministro, preposto alla sorveglianza dei S’hen-mheng, i sacri elefanti bianchi del re, dinanzi a cui piccoli e grandi s’inchinavano, udendo quel colpo di gong sentì un fremito corrergli per tutto il corpo, mentre la sua fronte leggermente abbronzata si imperlava di grosse stille di sudore.
Con una mossa lenta, si alzò dal largo cuscino di seta azzurra a frange e ricami d’oro che gli serviva da sedile, mormorando con voce semispenta:
«M’annuncerà questo colpo la vita o la morte? La maledizione eterna di Sommona Kodom o la felicità? L’odio del re e del popolo, o nuovi onori e nuove grandezze? Oh mia Len-Pra, mia povera figlia!»
A quel nome, un’angoscia inesprimibile alterò il viso del ministro.
«O mia Len-Pra,» ripeté con voce tremante.
Poi con una mossa risoluta, che denotava l’uomo audace, fece alcuni passi innanzi, dirigendosi verso una porta di legno di tek, adorna di dorature, e dicendo a se stesso con voce energica:
«Lakon-tay non deve aver paura e saprà sfidare il castigo, pur sapendosi vittima dell’odio feroce d’un nemico sconosciuto».
Posò la destra sulla maniglia d’argento e aperse la porta, scostando le ricche cortine di seta gialla a grandi fiori azzurri che pendevano lungo gli stipiti.
Un uomo entrò, curvandosi fino al suolo con profondo rispetto.
Era un giovane di venticinque anni, dal portamento ardito e non cascante e molle come quello dei veri Siamesi, col naso affilato, gli zigomi sporgenti, gli occhi neri e lampeggianti, le labbra sanguigne ed i denti nerissimi pel continuo uso del betel.
Dal costume che indossava, una lunga camicia di seta bianca, con maniche larghissime come quelle dei Cinesi, si riconosceva in lui un magateli, ossia un paggio di corte.
«Che cosa vuoi, Feng?» chiese il ministro, con voce tremante. «Mi porti la speranza o la morte?»
«Disgrazia, mio signore,» gemette il paggio, tornando a curvarsi fino a terra. «Anche l’ultimo S’hen-mheng muore».
Lakon-tay fece un gesto disperato e si coperse la faccia con ambo le mani.
«Sommona Kodom mi ha maledetto!» esclamò.
Stette alcuni istanti immobile, ritto in mezzo all’ampia sala dorata, scintillante agli ultimi raggi di sole penetranti fra i vetri variopinti delle vaste finestre dentellate, poi si scosse dicendo con voce quasi calma:
«Parla».
«Il S’hen-mheng ha rifiutato il suo cibo ordinario, perfino le canne da zucchero ed i pasticcini di riso preparati dalle principesse reali e di cui era sempre stato ghiottissimo, poi con un colpo di proboscide ha ucciso il capo dei guardiani».
«Ed ora?» chiese Lakon-tay, con un sordo gemito.
«Si è coricato sulle ginocchia e soffia come se avesse del fuoco in corpo».
«E i suoi occhi?»
«Sono smorti e piangono».
«È stato avvertito il re?»
«Nessuno osa».
«Quei vili hanno paura!»
«Dicono che spetta a voi, che siete il ministro dei S’hen-mheng».
«E quello che dovrà pagare per tutti,» disse Lakon-tay con voce cupa, facendo un gesto di minaccia.
Prese ruvidamente il paggio per un braccio, andò a chiudere la porta, poi lo trasse verso l’opposta estremità della sala, chiedendogli a bruciapelo:
«Credi tu naturale la morte di sette elefanti bianchi nello spazio d’un solo mese?»
«Perché mi fai questa domanda, mio signore?» chiese il paggio guardandolo con stupore.
«Rispondi!» gridò il ministro, torcendogli il braccio.
«Mio signore, chi avrebbe osato alzare la mano su quei sacri animali, che racchiudono nel loro corpo l’anima di Sommona Kodom, il dio venerato da tutti i sudditi e dal re?»
«Chi?…. Chi?…. Qualcuno che ha giurato la mia perdita,» disse il ministro con voce furente. «Qualcuno che non teme la vendetta del nostro dio, pur di raggiungere il suo scopo. Tu che hai sempre dormito nel palazzo degli elefanti bianchi, hai mai notato alcunché di straordinario?»
«Mai, signore, te lo giuro».
«Nessuno si è avvicinato a loro durante la notte?»
«Non mi parve».
«Hai sempre assaggiato i cibi che si davano ai S’hen-mheng?»
«Sempre».
«Eppure qualcuno deve averli uccisi».
«E chi?» chiese il paggio. «Tu non hai nemici, sei amato da tutti per la tua generosità e la tua onestà. Chi potrebbe desiderare la perdita del più valoroso generale del Siam, vincitore dei Birmani, dei Cambogiani e degli Stienghi?»
«Che ne so io?» disse il ministro. «Oggi forse lo ignoro, ma può darsi che un giorno, se sarò ancora vivo, riesca a scoprirlo. Vivo!…. La morte dell’ultimo S’hen-mheng segnerà anche la mia e fors’anche quella di Len-Pra».
«Di tua figlia!» esclamò il paggio con orrore.
In quel momento si fece udire un lontano barrito, che si ripercosse perfino dentro la sala.
«Sono barriti d’agonizzante,» disse Lakon-tay piegando la fronte. «Sommona Kodom lo chiama a sé».
Si diresse verso la porta, che aperse impetuosamente. Uno scalone superbo, coperto di tappeti meravigliosi, con balaustrate di legno di sandalo, conduceva nei giardini reali, in mezzo ai quali s’alzava il padiglione destinato ai S’hen-mheng.
Il ministro, che camminava velocemente, percorse parecchi viali fiancheggiati da banani colossali che spandevano un’ombra deliziosa, senza badare se la sua ricca camicia di seta cinese si lacerava contro le spine degli arbusti, e giunse in un vasto cortile, dove s’alzava un palazzo costruito tutto in legno, sormontato da una infinità di campanili dai tetti arcuati ed irti di punte dorate.
Una viva agitazione regnava nei dintorni del palazzo.
Numerosi talapoini, ossia sacerdoti e monaci buddisti, coi volti rasati, la testa e le ciglia pure rasate, i piedi nudi e il corpo infagottato in tre pezze di stoffa di cotone giallo, il colore reale, si aggiravano presso le numerose ed ampie porte, discutendo a bassa voce.
Più lontano, degli oya e degli oc-pra, ossia dei nobili, riconoscibili per le loro scatole d’oro contenenti la loro provvista di betel e pel cerchio d’oro che ornava i loro berretti conici; dei kang-may, ossia dei consiglieri reali; dei mandarini che avevano i fianchi cinti fino alle ginocchia di larghe fasce di seta, orlate di ricami d’oro e d’argento, chiacchieravano sommessamente, mostrando tutti dei visi scuri e preoccupati.
Vedendo comparire il ministro, tutti cessarono di parlare e i loro sguardi inquieti si fissarono su di lui, come per chiedergli se avesse finalmente potuto trovare un rimedio così potente da trattenere ancora nel corpo dell’ultimo S’hen-mheng l’anima di Sommona Kodom, che pareva ormai decisa a tornare nel nirupan, il paradiso o luogo di riposo eterno dei Siamesi.
Lakon-tay, tutto assorto nei suoi pensieri e nelle sue angosce, pareva non essersi nemmeno accorto della presenza di tutti quei grandi dignitari, accorsi ad assistere all’agonia del sacro elefante bianco. Egli non ascoltava d’altronde altro che i rauchi barriti del S’hen-mheng, che gli annunciavano una imminente catastrofe.
Passò in mezzo ai talapoini e ai paggi della corte del Signor elefante bianco, senza rispondere ai loro profondi inchini, ed entrò nel palazzo.
In un angolo d’una sala immensa, che aveva le pareti di marmo bianco e la volta sostenuta da parecchie file di colonne pure di marmo con incrostazioni d’oro, sopra un folto tappeto di Persia scintillante d’argento, stava sdraiato il S’hen-mheng.
Era un colossale elefante, alto quasi quattro metri, con zanne lunghissime, la pelle quasi biancastra, chiazzata di macchie grigie, e assai più rugosa di quella degli altri pachidermi, anzi quasi squamosa.
Era adorno come nei giorni solenni dei ricevimenti, giacché quei fortunati animali hanno i loro giorni di visita come i re e le principesse. Ricchissimi anelli d’oro massiccio, con rubini e smeraldi di valore inestimabile, gli ornavano le lunghissime zanne; fra i due occhi aveva la mezzaluna pure d’oro massiccio con diamanti e perle, sostenente nove cerchi d’oro destinati ad allontanare i malefici; agli orecchi, degli enormi pendenti sfolgoranti di pietre preziose, e sul dorso una magnifica gualdrappa di seta, intessuta con oro e tempestata di zaffiri, di rubini, di smeraldi e di diamanti.
Accanto aveva il driving-hook, l’uncino di cui si serviva il suo mahut, ossia conduttore favorito, per guidarlo, un capolavoro di ricchezza e di buon gusto, con cesellature meravigliose, il manico di cristallo di rocca e la punta d’oro ornata di pietre di gran valore.
Con tutte quelle ricchezze che portava indosso e che sarebbero state più che sufficienti a rendere felice ed orgoglioso il più esigente monarca dell’Indocina, il S’hen-mheng non sembrava affatto contento. Doveva essere ben ammalato il Signor elefante bianco, per non apprezzare più quelle ricchezze!….
E lo era davvero ammalato, quel colossale pachiderma.
Colla gigantesca testa appoggiata su una zampa, la proboscide stesa al suolo come gli fosse diventata ormai troppo pesante, gemeva dolorosamente, mentre grosse lagrime gli cadevano dagli occhi.
Il suo immenso corpaccio tremava tutto, il suo respiro era rauco ed affannoso e dalla sua epidermide si staccavano in gran numero delle squame, che i paggi della sua corte ed i mahut s’affrettavano a raccogliere religiosamente ed a collocare in un’urna d’oro.
Di quando in quando, il colosso con uno sforzo sollevava la testa, spazzava il tappeto colla tromba e mandava un lungo barrito, che si ripercuoteva lungamente sotto le volte dell’immensa sala di marmo.
Poi un impeto di furore improvvisamente lo assaliva, e con un violento colpo di proboscide scagliava lontano le canne da zucchero e i dolci pasticcini che le principesse di sangue reale avevano manipolato espressamente per lui.
Lakon-tay si avvicinò al colosso, accompagnato dal mahut favorito, il solo che il Signor elefante bianco ancora rispettasse, poiché tutti gli altri dovevano tenersi lontani se non volevano finire come il capo dei guardiani, che era stato appena allora portato via, il cranio ridotto in una poltiglia di ossa e di carne.
L’elefante, vedendolo, fissò su di lui uno sguardo che non era punto benevolo e alzò minacciosamente la proboscide, come se si preparasse a colpire.
Lakon-tay, vedendo quella mossa, diventò pallidissimo e un doloroso sospiro gli uscì dalle labbra. Gli pareva che il Signor elefante bianco lo accusasse, con quell’atto, della propria morte che ormai pareva imminente.
Il mahut favorito fu pronto a trarre indietro il ministro, temendo giustamente una nuova disgrazia.
«Sta per morire, vero?» chiese Lakon-tay con voce semispenta.
«Non ho più speranze, mio signore,» rispose il mahut.
«Non sono riusciti a indovinare la causa della sua malattia?»
«Nessuno capisce niente, signore. Anche mezz’ora fa è stato visitato da un medico che gode grande fama in tutta la città».
«Che cosa ha detto?»
«Che pel Signor elefante bianco, ormai non vi è più rimedio».
«Beve sempre?»
«E avidamente, come se avesse nel suo sacro corpo un fuoco che gli brucia le viscere».
«Ed è il settimo che muore così,» disse Lakon-tay, facendo un gesto di disperazione. «Quali disastri piomberanno sul nostro paese, quando anche l’ultimo S’hen-mheng sarà spirato? E non se ne trovano più!…».
«Anche gli ultimi cacciatori spediti nei dintorni del lago di Nonhang sono tornati a mani vuote, dichiarando che non ne esiste alcuno in quelle foreste,» disse il mahut.
«Sventura su noi,» balbettò Lakon-tay. «Sommona Kodom ci abbandona, eppure i nostri talapoini hanno innalzato nuove pagode e raddoppiato le offerte. Perché il nostro dio è in collera con noi?»
«Non lo so, signore».
«E se invece che a Sommona Kodom queste disgrazie fossero da attribuire a una mano sacrilega?» chiese ad un tratto il ministro, che pareva fosse perseguitato da un sospetto.
Il mahut lo guardò con terrore, mentre il suo viso diventava improvvisamente smorto e un tremito scuoteva le sue membra.
«Signore, che cosa dite?» chiese con voce alterata.
«Che la morte dei sette S’hen-mheng non mi sembra naturale,» rispose Lakon-tay. «Questo fuoco misterioso che divora le loro viscere può essere stato prodotto da un maleficio».
«Che il re della Birmania, geloso dei nostri S’hen-mheng, li abbia fatti maledire dai suoi talapoini?»
Lakon-tay stava per rispondere, quando un barrito spaventevole, che fece accorrere precipitosamente tutti i sacerdoti, i nobili, i paggi ed i guardiani, fece tremare la sala. Il S’hen-mheng si era rizzato sulle ginocchia, agitando furiosamente la proboscide e le larghe orecchie. I suoi occhi mandavano fiamme e un tremito fortissimo scuoteva l’enorme corpo.
Un grido sfuggì da cento bocche:
«Il S’hen-mheng muore!»
Con uno sforzo disperato l’elefante riuscì ad alzarsi in piedi. Era spaventevole: barriva orribilmente e pareva che fosse lì lì per scagliarsi su tutta quella gente e polverizzarla.
Stette un momento così ritto, colla proboscide tesa, poi rovinò al suolo con fracasso orribile, schiantandosi una zanna e spezzando la gran placca d’oro che gli ornava la fronte.
Dalla proboscide gli uscì un getto di sangue nero.
«Morto!» gridarono i talapoini, i paggi ed i guardiani, cadendo in ginocchio.
Il favorito del S’hen-mheng si avvicinò a Lakon-tay, che pareva pietrificato dal terrore.
«Signore,» gli disse, mentre i suoi occhi si empivano di lagrime.
«Avvertite il re della sventura che è piombata sulla sua casa».