II.

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II.Il sorriso scomparve dalle labbra di Dinny nell’udire il brusio che giungeva attraverso la porta chiusa. “Dio mio!”, pensò. “È la festa della zia Em e me n’ero dimenticata!” Qualcuno che suonava il piano si fermò; una corsa, della confusione, uno strusciare di seggiole sul pavimento, due o tre strilli, silenzio e la musica riprese. ‘‘Giocano a chi arriva prima a sedersi”, pensò mentre apriva la porta senza far rumore. Quella che era stata Diana Ferse, sedeva al piano. Lungo una fila di otto sedie, che presentavano alternate una il sedile e una la spalliera, erano in azione un adulto e otto ragazzi, con in capo dei cappelli di carta velina variopinta: sette stavano già alzandosi in piedi e due rimanevano seduti su di un’unica seggiola. Da destra a sinistra Dinny notò: Ronald Ferse; un bambino cinese; la piccola Anne, figlia minore della zia Alison; il minore dello zio Hilary, Tony; Celia e Dingo (figli della sorella sposata di Michael, Celia Moriston); Sheila Ferse e sull’ultima sedia lo zio Adrian e Kit Mont. Sapeva anche che c’erano la zia Em, un po’ affannata, vicina al caminetto, con un gran copricapo di carta purpurea, e Fleur che toglieva una sedia dalla parte di Ronald. «Kit, alzati, eri eliminato». Ma Kit rimase seduto e Adrian si alzò. «Benissimo, adesso te la vedrai con i tuoi pari. Muoviti, presto!» «Via le mani dalle spalliere» strillava Fleur. «Wu Fing, non devi metterti a sedere finché la musica non ha smesso. Dingo, non stare così appiccicato all’ultima sedia». La musica cessò. Corse, spinte, strilli, e la più piccola, la piccola Anne, rimase fuori. «Non fa nulla, tesoro», disse Dinny. «Vieni qui a suonare questo tamburo. Fermati quando si ferma la musica; così va bene. Adesso ricomincia. Sta’ attenta alla zia Di». E ancora e ancora e ancora, finché rimasero nel gioco soltanto Sheila, Dingo e Kit. “Scommetto che vince Kit”, pensò Dinny. Sheila è fuori! Via una sedia. Dingo con la sua aria così scozzese e Kit, così biondo ora che aveva perso il cappello di carta, giravano e giravano intorno all’ultima sedia. Andavano giù insieme, insieme si rialzavano e riprendevano a girare, Diana badava a sviare i loro sguardi, Fleur se ne stava indietro con un lieve sorriso; la faccia della zia Em era in fiamme. La musica cessò: Dingo si sedette anche questa volta e Kit rimase in piedi, rosso di rabbia. «Kit», esclamò Fleur, «comportati come si deve!» Kit alzò il capo e si mise le mani in tasca. “Brava Fleur”, pensò Dinny. Una voce alle sue spalle disse: «La grande passione di tua zia per i giovani fa nascere gran confusioni. Se ci mettessimo un po’ tranquilli nel mio studio?» Dinny si volse a guardare il viso magro, asciutto, mobile di sir Lawrence Mont, i cui baffetti erano praticamente bianchi mentre i capelli li aveva ancora brizzolati. «Io non c’entro niente, zio Lawrence». «Una volta tanto. Lascia dunque che i miscredenti si sfoghino e andiamo giù a fare una chiacchierata da bravi cristiani». “Mi piacerebbe parlare di Wilfrid Desert”, pensò Dinny mentre, arrendevole, seguiva lo zio. «Di che cosa ti stai occupando adesso, zio?» «In questo momento mi sto riposando e leggendo le memorie di Harriette Wilson. Una donna notevole, Dinny. Ai tempi della Reggenza nell’alta società ce ne voleva per rovinarsi la reputazione; ma lei fece del suo meglio per rovinarsela. Se non sai nulla di lei, posso dirti che ebbe gran fede nell’amore, ebbe numerosi amanti ma di tutti ne amò soltanto uno». «E, ciò nonostante, aveva fede nell’amore?» «Eh! era una donnina di buon cuore e gli altri le volevano bene. Proprio l’antitesi di Ninon de Lenclos, che li amò tutti quanti. Sono state due donne assai vispe. Te lo immagini un dialogo fra loro due sulla virtù? Siediti». «Questo pomeriggio, mentre stavo guardando la statua di Foch, ho incontrato un tuo cugino, il signor Muskham». «Jack?» «Sì». «L’ultimo dei dandy. C’è un’enorme differenza, Dinny, fra il buck, il dandy, lo swell, il masher, il blood, il knut, e qual è l’ultimo nome dell’incarnazione? Non me lo ricordo mai. C’è stato un continuo decrescendo. Per l’età, Jack apparterrebbe all’epoca dei masher, ma ha sempre avuto il taglio del puro dandy, il vero tipo che si trova nei romanzi di Whyte Melville. Che impressione ti ha fatto?» «Cavalli, partite a picchetto e imperturbabilità». «Levati il cappello, mi piace vedere i tuoi capelli». Dinny si tolse il cappello. «Ho incontrato anche qualcun altro: il testimone di Michael». «Chi? Il giovane Desert? Di nuovo qui?» E sir Lawrence inarcò le sopracciglia. Le guance di Dinny si erano leggermente soffuse di rossore. «Sì», rispose. «Strano tipo, Dinny». Lei ebbe una sensazione alquanto diversa da quante ne avesse mai provate. Non avrebbe potuto spiegarla con le parole ma le faceva ripensare a una certa porcellana che due settimane prima aveva regalato a suo padre per il suo compleanno: un gruppetto in biscuit di bella foggia, raffigurante una volpe con quattro volpacchiotti accovacciati sotto. L’occhio della volpe, dolce ma guardingo, esprimeva esattamente quello che era il suo sentimento in quel momento. «Perché strano?» «Veramente tradisco un segreto, Dinny. Ma per te… So di sicuro che questo giovane fece la corte a Fleur, uno o due anni dopo il suo matrimonio. Fu la prima spinta a farlo diventare l’Ebreo Errante che è». Era dunque a questo che egli alludeva quando accennava a Esaù? No! Dalla faccia che aveva fatto parlando di Fleur non le pareva possibile. «Ma sono cose di un secolo fa», disse lei. «Oh, sì! storie vecchie; ma si è sentito parlare anche di altro. I club sono fontane d’ogni maldicenza». Il sentimento di Dinny perdette di dolcezza ma la sua attenzione si acuì. «Fontane di che cosa?», chiese. Sir Lawrence scosse la testa. «Quel giovane mi piaceva; neanche a te, Dinny, voglio ripetere cose di cui in fondo non so nulla di sicuro. Basta che uno viva in modo un po’ diverso dal solito, perché la gente non la finisca più di ridire sul suo conto». La guardò fissa, ma lo sguardo di Dinny rimase limpido. «Chi è quel bambino cinese di sopra?» «È il figlio di un ex mandarino, che ha lasciato qui la sua famiglia per via dei subbugli che ci sono laggiù. Strano ometto. Simpatici, i cinesi. Quando arriva Hubert?» «La settimana prossima. Prenderanno l’aeroplano dall’Italia. Jean ha volato molto, sai». «Che ne è di suo fratello?», e guardò di nuovo Dinny in faccia. «Alan? È di stanza in Cina». «Tua zia non finisce di rimpiangere che tu non lo abbia sposato». «Caro zio, farei qualunque cosa per far piacere alla zia Em, ma poiché i miei sentimenti per lui sono quelli di una sorella, i comandamenti me lo avrebbero impedito». «Io non voglio che tu ti sposi», disse sir Lawrence, «per andare a finire in Barberia o giù di lì». Come un lampo le passò per la mente il pensiero: “Lo zio Lawrence la sa lunga”, e il suo sguardo divenne più limpido. «Questo maledetto “ufficialismo”», continuò lui, «mi pare che ci portino via tutti i nostri conoscenti e parenti. Delle mie due figlie, Celia è in Cina, Flora in India; tuo fratello Hubert nel Sudan, tua sorella Clare, appena sposata, se ne andrà. Jerry Corven ha avuto un posto a Ceylon. Ho sentito dire che Charlie Muskham è stato preso al seguito del Governatore della Città del Capo; il figlio maggiore di Hilary vuole entrare nell’amministrazione civile in India e il minore in Marina. Mi pare, Dinny, che tu e Jack Muskham siete gli unici che mi rimaniate. C’è anche Michael, naturalmente». «Dunque vedi spesso ai club il signor Muskham?» «Abbastanza al Burton, e viene al mio tavolo al Coffee House: giochiamo a picchetto: siamo gli ultimi due a giocarlo. Ma adesso non è la stagione: da ora fino a dopo le corse di Cambridge non lo vedrò quasi più». «È un grande intenditore di cavalli?» «Sì. Di qualunque altra cosa non capisce niente. Già, gli intenditori non capiscono nulla fuori della loro partita. Pare che il cavallo sia un animale che chiude tutti gli spiragli all’intelligenza. Concentra in sé tutta l’attenzione degli appassionati; non solo devono badare ai cavalli ma anche a tutte le persone che in qualche modo hanno a che fare con i cavalli. Come stava il giovane Desert?» «Oh!», esclamò Dinny, che non se l’aspettava, «aveva un colorito giallo fosco…». «È il riverbero della sabbia. È una specie di beduino, sai. Suo padre è un eremita, quindi ce l’ha un po’ nel sangue. La miglior cosa che so di lui è che Michael gli vuol bene, nonostante quel pasticcio». «E le sue poesie?», chiese Dinny. «Disarmonie: con una mano disfa quello che fa con l’altra». «Forse non ha mai trovato il suo posto nel mondo. Ha degli occhi piuttosto belli, non ti pare?» «Mi ricordo piuttosto della sua bocca, inasprita dalla sofferenza». «Gli occhi dicono quello che uno è; la bocca quello che uno è diventato». «La bocca e la pancia». «Ho notato che lui di pancia non ne ha», disse Dinny. «Merito della dieta di una manciata di datteri e una tazza di caffè. Gli Arabi veramente non bevono caffè; il loro debole è il tè verde con della menta. Buon Dio! Ecco la zia. Quando ho detto “buon Dio” alludevo al tè con la menta». Lady Mont si era tolto il copricapo di carta e aveva ripreso fiato. «Cara zia», disse Dinny, «mi ero proprio dimenticata che era la tua festa e non ti ho portato nulla!» «Dammi un bacio, invece. Dico sempre che i tuoi baci sono una delizia. Da dove sei sbucata?» «Ero venuta in città a fare delle spese per Clare». «Hai portato quello che ti occorre per la notte?» «No». «Non fa nulla. Prenderai una delle mie camicie da notte. Porti ancora la camicia da notte?» «Sì», rispose Dinny. «Che brava ragazza! Non mi piacciono i pigiami per donna, e neppure a tuo zio. È al di sotto della vita, sai, che il pigiama è brutto. Non c’è rimedio: tanto non ci riuscite. Michael e Fleur rimarranno a pranzo». «Grazie, zia Em. Ho proprio bisogno di rimanere in città. Oggi non sono riuscita a prendere nemmeno metà della roba di cui Clare ha bisogno». «Non mi piace che Clare si sposi prima di te, Dinny». «Ma era logico che fosse così, zietta». «Sciocchezze! Clare è brillante; di solito, chi è brillante non si sposa presto. Io mi sono sposata a ventun anni». «Vedi, cara!» «Non mi prendere in giro. Sono stata brillante solo una volta. Te ne ricordi, Lawrence? Per via di un elefante; pretendevo che si sedesse e quello invece s’inginocchiava. Le zampe degli elefanti si piegano da una parte sola, Dinny. E allora dissi questa spiritosaggine: che ognuno segue la sua piega». «Zia Em! Tranne che in quell’occasione, sei sempre stata la donna più brillante che conosca». «Il tuo naso è un piacere a vederlo, Dinny; ho a noia i nasi aquilini, come quello di tua zia Wilmet, di Hen Bentworth e il mio». «Il tuo è appena un po’ curvo, cara». «Da bambina avevo il terrore che diventasse peggio e per questo lo schiacciavo con la punta all’insù contro un armadio». «Ho provato a farlo anch’io, zietta, ma per l’altro verso». «Una volta, mentre lo stavo facendo, mio fratello – tuo padre – si era nascosto sopra l’armadio, come un leopardo, e saltandomi addosso si morse un labbro a sangue. Il sangue mi colò giù per il collo». «Che orrore!» «Sì. A che cosa stai pensando, Lawrence?» «Pensavo che probabilmente Dinny non ha fatto colazione. È vero, Dinny?» «Mi proponevo di rimandarla a domani, zio». «Hai visto?», disse lady Mont. «Chiama Blore. Se non metti su un po’ di carne, non arrivi a sposarti». «Lasciamo che prima si sposi Clare». «Immagino che sarà Hilary a celebrare il loro matrimonio». «Di certo». «E io mi metterò a piangere». «Per quale ragione precisamente piangi ai matrimoni, zia?» «Perché lei sarà un angelo e lui sarà in falde e avrà dei baffi a spazzolino da denti, ma non proverà nessuno dei sentimenti che lei gli attribuirà. È triste!» «Ma certi sentimenti li proverà anche lui. Sono sicura che anche Michael faceva la stessa figura con Fleur e lo zio Adrian, quando sposò Diana». «Adrian ha cinquantatré anni e la barba. Per di più è Adrian». «Ammetto che questo comporti una differenza. Ma credo che sia piuttosto da compatire l’uomo. Per la donna quello è il momento culminante della vita, mentre l’uomo quasi sicuramente si accorge di avere un gilè che lo stringe». «Quello di Lawrence non lo stringeva. È stato come un fuscello e io ero sottile come te, Dinny». «Dovevi essere un amore con il velo, zia Em. Vero, zio?» Lo sguardo, ancora pieno di passione in quelle due facce ormai mature la fece tacere; poi soggiunse: «Dove vi siete conosciuti la prima volta?» «Mentre eravamo a caccia. Io mi trovavo in un fosso; la cosa dispiacque a tuo zio e venne a tirarmi fuori». «Molto romantico». «Ma anche fangoso. Non ci parlammo per tutto il resto della giornata». «Allora che cosa è che vi ha fatti unire?» «Una cosa e l’altra. Io ero ospite dei genitori di Hen, i Corderoy, e tuo zio venne per vedere certi cuccioli. Ma perché mi sottoponi a questo interrogatorio?» «Volevo soltanto sapere come si faceva a quei tempi». «Prova per conto tuo come si fa adesso». «Lo zio Lawrence non vuol sbarazzarsi di me». «Tutti gli uomini sono egoisti, tranne Michael e Adrian». «Inoltre mi dispiacerebbe troppo farti piangere alle mie nozze». «Blore, porta un cocktail e un sandwich per la signorina; non ha fatto colazione. Ah, Blore, il signor Adrian con signora e il signor Michael con signora rimangono a pranzo. E, Blore, dì a Laura di mettere una mia camicia da notte con tutto quello che occorre nella camera azzurra. La signorina Dinny rimane qui stanotte. Quei bambini!» E con andatura un po’ ondeggiante, lady Mont precedette il cameriere fuori della stanza. «Quanto è cara, zio!» «Non ho mai detto il contrario, Dinny». «Dopo essere stata con lei mi sento sempre meglio. Si arrabbia mai?» «Magari comincia, ma le viene sempre in mente qualche cos’altro che la distrae». «Che fortunato carattere!» Durante il pranzo, quella sera, Dinny stette ad aspettare che suo zio facesse qualche allusione al ritorno di Wilfrid Desert. Ma non ne fece. Dopo pranzo, si sedette vicino a Fleur in ammirazione e adorazione, secondo il suo solito, di questa cugina acquisita, il cui fare era grazioso e sicuro di sé, il cui viso e il cui corpo erano così ben torniti, i cui occhi chiari erano così intelligenti, che conosceva se stessa senza illusioni e che con Michael sapeva tenere un atteggiamento che era nello stesso tempo di inferiorità e di superiorità. “Se mai mi sposerò”, pensava Dinny, “non riuscirò mai a contenermi così verso mio marito. Lo voglio guardare bene in faccia, da pari a pari.” «Ti ricordi delle tue nozze, Fleur?», le chiese. «Certo, cara. Una cerimonia desolante!» «Ho visto il vostro testimone oggi». Il bianco limpido degli occhi di Fleur si spalancò. «Wilfrid? Come facevi a ricordartelo?» «Avevo solo sedici anni allora e fece colpo sulla mia adolescenza». «È il destino di ogni testimone. Bene, e come sta?» «Molto abbronzato e seducente». Fleur rise. «Lo è sempre stato». Dinny la fissò in viso e proseguì: «Sì, lo zio Lawrence mi ha raccontato che ha un po’ abusato della sua forza di seduzione». Fleur parve sorpresa. «Non sapevo che mio suocero se ne fosse mai accorto». «Lo zio Lawrence», disse Dinny, «è piuttosto intuitivo». «Wilfrid», mormorò Fleur con un lieve sorriso di reminiscenza, «si comportò veramente bene. Filò in Oriente docile come un agnello». «Ma non sarà solo questa la ragione che lo ha trattenuto in Oriente per tutto questo tempo». «No certo; come non è una malattia che ci fa stare per sempre a letto. Oh, no! A lui l’Oriente piace. Forse possiede un harem». «No», esclamò Dinny, «perché deve essere di gusti difficili». «Proprio così: buona risposta alla mia cinica supposizione. Wilfrid è una delle persone più strane che abbia mai incontrate ma simpatico. Michael gli voleva molto bene. Ma», disse a un tratto, fissando Dinny, «è impossibile innamorarsi di lui; è la disarmonia personificata. L’ho studiato piuttosto da vicino un tempo… dovetti farlo, sai. Ti sfugge. Appassionato e irascibile, sentimentale e amaro. Non ci deve essere alcuna cosa in cui creda». «Eccettuate forse», obiettò Dinny, «la bellezza e la verità, se riuscisse a trovarle». Fleur le diede una risposta inaspettata: «Ma, mia cara, tutti ci crediamo a queste cose, quando si hanno intorno a noi. Il guaio è che non sempre si trovano, a meno che… a meno che uno non le abbia dentro di sé. Ma come fa ad averle uno che manca di armonia interna? Dove vi siete incontrati?» «In contemplazione davanti alla statua di Foch». «Ah! Mi par di ricordare che aveva una specie di adorazione per Foch. Povero Wilfrid, non è molto fortunato. Nevrotico dopo la guerra, poeta, e con una famiglia… un padre che ha voltato le spalle al mondo; una madre, mezza italiana, che scappò con un altro. Non sono cose riposanti. I suoi occhi erano quel che aveva di meglio, destavano la compassione: sono veramente belli, piuttosto del tipo fatale. Ritrovandolo, le tue giovani fibre hanno nuovamente trasalito?» E guardò più a fondo negli occhi Dinny. «No, ma volevo provare se tu trasalivi ancora a sentirlo nominare». «Io? Io, figliola, ho quasi trent’anni e due bambini», la faccia le si rabbuiò, «sono immunizzata. Se mai volessi parlarne, non potrei farlo che con te, Dinny. Ma di certe cose è meglio non parlar mai». Su nella sua camera, un po’ a disagio nella ampia camicia da notte della zia Em, Dinny si mise a fissare il fuoco che era stato acceso nonostante le sue proteste. Quello che provava le sembrava assurdo: uno strano desiderio, timido eppure ardito, come un presentimento di qualche cosa che stesse per accadere. E perché? Perché aveva rivisto un uomo che dieci anni prima l’aveva turbata; un uomo, per quel che se ne diceva, da non farci affidamento. Preso uno specchio, si mise a studiarsi il viso che le sbocciava fuori dai ricami della troppo abbondante camicia. C’era in quel viso di che essere soddisfatti, ma lei non lo fu. “Che noia”, pensò, “questo eterno profilo botticelliano…” Il naso all’insù, e gli occhi blu! Sii attenta, ninfa rosso-chiomata, e guardati da quella immagine che sei tu! E con lui così abituato all’Oriente, ai neri occhi languidi dietro al velo, a curve nascoste e suggestive, alla sensualità, al mistero, ai denti di perla – basti pensare alle Uri! Dinny si guardò i denti nello specchio. Su questi almeno non c’era da ridire: i più bei denti della famiglia. Anche i suoi capelli non erano proprio rossi, piuttosto di quella tinta che la signorina Braddon chiamava fulva – bella parola. E qui si fermò, perché con tutti i ricami di quella camicia era inutile fare degli studi sulla sua persona al di sotto della linea oltre la quale non usavano lavarsi ai tempi della Regina Vittoria. Avrebbe potuto farlo la mattina dopo, prima del bagno. Per questa parte che le rimaneva da esaminare, aveva di che ringraziare Dio! Posò lo specchio con un lieve sospiro e si mise a letto.
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