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CAPITOLO DUE
L’aria sembrava verde. Owen gettò la testa all’indietro e ululò di gioia e di abbandono nella notte rischiarata dalla luna. Il terreno era morbido sotto le sue zampe, e un po’ di fango si infilava spiaccicandosi fra i cuscinetti delle dita. Lo amava, amava la connessione con la terra e con la sua essenza primordiale. Correre così era una libertà che non aveva mai immaginato prima della trasformazione.
Ora non poteva immaginare una vita che ne fosse priva.
Un coro di ululati rispose al suo richiamo e il vento sibilò dietro di lui mentre uno del suo branco lo inseguiva. Owen intravide una pelliccia marrone, ma fu l’odore a tradire la vicinanza del lupo. Andre lo urtò e gli morse la pelliccia prima di riprendere la fuga. Owen lo inseguì. Erano al sicuro in quei boschi. Il proprietario era Gibson e loro avevano chilometri per correre, e correre, e correre ancora attraversando la fitta foresta e sentieri dimenticati.
Dimenticati dagli umani, almeno.
Ma a quel magnifico coro di ululati mancavano due voci. Rowe e Vega erano via per un lavoro e probabilmente stavano correndo da soli da qualche parte che non sarebbe mai stata all’altezza di quei terreni.
Owen emise un piccolo lamento a quel pensiero. Voleva la sua famiglia riunita. Potevano non avere sangue in comune, ma una notte oscura aveva stabilito fra loro un legame, anni prima, e lui era determinato a costruire qualcosa insieme agli uomini e alle donne che si erano trasformati e avevano corso con lui.
Chi altri poteva capire quanto fosse strano essere un licantropo?
Lo era solo da due anni e ancora capiva pochissimo di cosa significasse. Come tutti gli altri. Ma a volte l’impulso di trasformarsi li vinceva e tutti finivano per correre attraversando la notte come le bestie selvagge che vivevano dentro di loro. La muta non era collegata alla luna piena, di questo avevano le prove. Ma non c’erano certamente manuali da cui potessero imparare.
Andre si lasciò sfuggire un latrato di frustrazione e Owen si scosse. Quelli erano pensieri umani per il tempo in cui erano in forma umana. Li abbandonò e si arrese al suo lupo. Gli odori si fecero più intensi e lui seppe che una lepre era appena fuori portata, piena di sangue succulento e della frenesia della fuga.
Lui e Andre si lanciarono in corsa insieme e non passò molto tempo prima che Willa Hunter, Erin Jackson e Gibson si unissero a loro. Una sola lepre non avrebbe mai saziato cinque lupi. Ma non era l’unica preda in quei boschi.
Gibson prese il comando. Il lupo dominante aveva un modo particolare di farlo, e tutti lo seguivano inconsciamente. In forma animale non parlavano, la loro comunicazione si limitava agli sguardi, agli sbuffi e ai latrati. Non ci volle molto perché si disponessero in formazione. L’avevano già fatto prima di allora.
Dimenticata la lepre, colsero l’odore di un cervo e partirono all’inseguimento.
I muscoli di Owen gli dolevano ma se ne dimenticò nell’euforia della caccia. Quello era ciò che il suo corpo era destinato a fare e non avrebbe mai voluto fermarsi.
E poi accadde. Il cervo apparve.
Era iniziata la caccia.
Non prestò più attenzione alla sensazione del terreno sotto le zampe o al profumo degli alberi nell’aria. Tutto il suo essere era concentrato sul cervo e sul pasto abbondante che avrebbero consumato. Owen sapeva che quando si fosse svegliato con due gambe avrebbe potuto avere uno strano sapore in bocca, ma non gli importava. Non si preoccupava del futuro, quando era nella sua forma animale.
Stava andando tutto perfettamente. Erano un branco nato per cacciare insieme.
Andre correva avanti per spingere il cervo sul sentiero giusto mentre gli altri lo tallonavano, pronti a balzare non appena fosse inciampato.
Però qualcosa andò storto. Il cervo avrebbe dovuto continuare a dirigersi lungo il sentiero. Gli alberi si sarebbero fatti sempre più vicini man mano che procedeva, fino a diventare troppo fitti perché potesse andare oltre. A quel punto sarebbe stato loro.
Ma non andò così.
Il cervo svoltò verso est e in pochi secondi giunse alla strada provinciale che correva sul confine della proprietà. I lupi furono costretti a sbandare fino a fermarsi prima di lasciare la copertura degli alberi. Non potevano rischiare di essere avvistati da un normale umano. Se fossero stati fortunati potevano essere scambiati per coyote. Ma non avevano intenzione di sfidare la sorte.
Owen e gli altri erano delusi. Era difficile non esserlo quando un cervo succulento sfuggiva alla loro presa. Ma la notte non era rovinata. Niente affatto. Corsero, cacciarono e giocarono finché la stanchezza non ebbe la meglio su di loro. Capitava che di notte finissero per ammucchiarsi in una massa di pellicce addormentate e riposassero sotto le stelle. Non quella notte.
Gibson diede l’ordine e tornarono tutti verso la fattoria.
Prima di entrare passando dalla porta del seminterrato, Owen mutò di nuovo tornando in forma umana. Gli altri lo seguirono poco dopo. La sua muta era più veloce della loro, ma non di molto, e fortunatamente non era troppo dolorosa per nessuno di loro. Era come allungare i muscoli poco oltre il punto di comfort e mantenere la posizione per alcuni secondi. Non esattamente una sensazione piacevole, ma ne valeva la pena.
E una volta in piedi, nudo nella pallida luce lunare, i suoi sensi sembravano ovattati. Riusciva a malapena a percepire gli odori e i suoni gli arrivavano tutti mescolati. Ma i colori divennero rapidamente più nitidi mentre i suoi sensi si adattavano alla forma umana. Quella era la parte più sgradevole dell’intera muta.
Aprì la porta e si diresse all’interno, raccogliendo l’accappatoio che giaceva sul pavimento dove l’aveva lasciato prima della corsa. Tutti gli altri fecero la stessa cosa. Erano silenziosi. Lo erano sempre quando tornavano umani, come se ci volesse un po’ di tempo per ricordare come funzionavano le loro corde vocali e quali parole andassero in quale ordine.
Poi lo stomaco di Owen brontolò.
“Fottuto Chip,” mugugnò Erin Jackson. Si strinse nell’accappatoio chiudendolo con la cintura e si pettinò all’indietro i capelli biondi fermandoli in una coda di cavallo con un elastico che sembrò materializzarsi dal nulla. Owen non sapeva come facesse ad avere i capelli così perfettamente lisci e non aveva intenzione di chiederlo. Aveva un tale cipiglio da essere certo che lei stesse per colpirlo.
“Chip ha fame, maggiore,” disse Andre Gordon a Gibson, come se il maggiore non potesse sentire lo stomaco di Owen.
Owen tacque e si mise una mano sul ventre come se il gesto servisse a placare l’appetito. Poi il suo stomaco brontolò di nuovo e lui non riuscì a trattenere una risata. “Cosa posso dire? Avevo voglia di carne di cervo!”
Gibson alzò gli occhi al cielo. “Hai ragione da vendere, cazzo. Hunter, vai su e ordina qualche pizza. Il solito posto dovrebbe essere ancora aperto.” Si stava avvicinando la mezzanotte, ma erano ai margini di una città universitaria e molti locali erano aperti fino alle ore piccole.
Willa Hunter era riuscita a infilarsi dei vestiti veri mentre gli altri erano occupati a prendere in giro Owen. Rivolse un cenno di assenso al maggiore prima di correre su per le scale senza dire una parola. Owen provò a richiamare la sua attenzione, ma era già sparita alla vista. Oh, beh. Come minimo sapeva ordinare una pizza.
Andò a cercare i suoi vestiti prima che qualcun altro potesse deriderlo per i brontolii delle sue viscere. Controllò il telefono e non fu sorpreso di non trovare nuovi messaggi. Aveva chiamato sua madre in giornata quindi lei non avrebbe avuto motivo di farsi viva, e se Vega o Rowe si fossero trovati in difficoltà avrebbero chiamato Gibson o Gordon. Owen non era il primo da chiamare per nessuno di loro.
La fattoria era abbastanza grande da permettere a lui e agli altri di riporre i loro vestiti e di muoversi senza calpestarsi a vicenda. Dato che era già mezzanotte probabilmente si sarebbero fermati a dormire lì. Ci voleva più di un’ora di macchina per tornare in città e non sarebbe stata la prima notte che avrebbero passato insieme alla fattoria. Owen sospettava che Gibson provenisse da una famiglia ricca, ma non aveva mai fatto domande. Era abbastanza sicuro che il maggiore potesse ancora incasinargli la vita alla grande anche se erano tutti fuori dall’esercito da due anni. Non aveva intenzione di metterlo alla prova.
La fattoria aveva due grandi camere da letto nel seminterrato e altre due al piano superiore. Il maggiore aveva la principale; nessuno aveva mai fatto obiezioni. Willa ed Erin riuscirono entrambe ad accaparrarsi le loro stanze, quindi Owen e Andre avrebbero dovuto condividere la restante. Non gli importava. Tanto Andre non russava.
Owen prese in considerazione l’idea di farsi una doccia veloce, ma sentiva la pelle ancora fresca e nuova dalla muta, quindi non ce n’era bisogno. Un po’ di stanchezza per aver corso a quattro zampe tutta la notte stava cominciando a farsi sentire e aveva voglia di infilarsi a letto, ma Gibson probabilmente avrebbe voluto fare una riunione di aggiornamento.
E Owen voleva la pizza.
Salì al piano superiore e trovò tutti vestiti e seduti intorno alla grande isola della cucina, intenti a divorare la prima di quattro pizze ai funghi e salame piccante. Owen aprì un altro cartone e prese quattro pezzi della seconda pizza. Quella era un’altra cosa che derivava dall’essere licantropi. Dovevano mangiare tutto il tempo. I loro corpi bruciavano calorie come se il mondo dovesse finire da un momento all’altro. E Owen mangiò le prime fette così in fretta che ne sentì a malapena il sapore.
“Qualche aggiornamento sul lavoro di Bradley?” chiese Erin. Mangiava la pizza a piccoli morsi e si tamponava le labbra col tovagliolo per pulirsi dall’unto dopo ogni boccone.
Gibson indicò con un cenno della testa il cellulare posato accanto al suo piatto. “Rowe ha mandato un messaggio. Il lavoro si sta concludendo. Saranno a casa tra un paio di giorni.”
Un po’ di tensione, tensione che Owen non si era reso conto di provare, abbandonò la squadra. Era bello sapere che sarebbero stati di nuovo tutti insieme. “Ci sono stati problemi?” chiese, con la bocca piena di pizza.
Gibson gli lanciò un’occhiataccia e il sorriso di Owen si allargò. “È andato tutto bene. L’ex non si è presentato al matrimonio e la coppia felice è in viaggio per Aruba.”
Non era propriamente una notizia epocale e nessuno esultò. “È venuto fuori qualcosa di più interessante che fare da babysitter a una coppia di sposi?” chiese Andre. Era curvo in un angolo e in qualche modo riusciva a essere mezzo nascosto nell’ombra nonostante la cucina fosse ben illuminata. C’era una nota polemica nella sua voce e Owen alzò gli occhi al cielo. Quel ragazzo era tutto un dramma e doveva imparare a rilassarsi. Erano appena stati fuori a correre. Avevano mangiato una pizza. Cosa c’era da lamentarsi?
Due anni prima, dopo che senza tante cerimonie erano stati sbattuti fuori dall’esercito nel tentativo di mantenere il silenzio su quello che era successo loro, Gibson li aveva riuniti con un’idea: protezione. Potevano fornire protezione a chi ne aveva bisogno mentre cercavano di capire cosa significasse essere creature impossibili in un mondo ordinario. La loro squadra di guardie del corpo aveva preso il via diciotto mesi prima, ma stavano ancora cercando di farsi un nome. Ciò implicava accettare piccoli incarichi e ampliare la rete di contatti. A Owen non dispiaceva. Era però abbastanza sicuro che Andre avrebbe preferito buttarsi da un palazzo piuttosto che scambiare cortesie con potenziali clienti.
“Sarai il primo a saperlo,” promise Gibson con un tono carico di sarcasmo.
Andre gli lanciò un’occhiataccia dal suo angolo buio.
Proprio mentre Gibson era pronto a infilarsi in bocca un altro pezzo di pizza, il suo telefono squillò. Guardò lo schermo per un momento stringendo gli occhi, poi posò la pizza, prese il telefono e uscì.
Owen lanciò un’occhiata ad Andre, guardò Erin e Willa e poi tutti si voltarono verso Gibson. Era in piedi in veranda e aveva chiuso la porta di vetro scorrevole. Owen desiderava che essere un licantropo lo avesse fornito di un super udito. La sua ricerca, ammesso che guardare Teen Wolf potesse considerarsi ricerca, gli aveva suggerito che avrebbe dovuto essere in grado di fare molto più di quello che era possibile a un normale umano. Era un po’ più forte, un po’ più veloce e i suoi sensi erano un po’ più acuti, ma niente di inumano. Niente che permettesse a nessuno di loro di sentire chiaramente quello che il maggiore stava dicendo.
“Sta facendo il misterioso,” mormorò Willa.
Owen dovette mordersi il labbro per evitare di parlare. Willa non avrebbe mai rivelato loro nemmeno il giorno del suo compleanno o quale fosse la sua città natale. “Il maggiore ha il permesso di fare una telefonata privata.”
“No, si è comportato in modo strano,” concordò Erin. Guardò ognuno dei loro piatti come se stesse contando il numero di fette che avevano mangiato e si allungò verso un altro cartone.
I quattro continuarono a fissare Gibson attraverso il vetro mentre masticavano la loro pizza. Solo quando lui terminò la chiamata si voltarono in fretta per fingere di non aver spiato spudoratamente.
“Siete tutti molto discreti,” disse Gibson dopo aver chiuso di nuovo la porta dietro di sé. “Myers, con me.” Fece un cenno verso la sua camera da letto in fondo al corridoio.
Owen ebbe la stranissima sensazione di essere chiamato nell’ufficio del preside. Dovette ricordare a se stesso che non era più a scuola o nell’esercito e che nessuno poteva fargli del male.
Certo, come no. Il maggiore poteva rendere la sua vita un inferno, se avesse voluto. Owen cercò di pensare se avesse fatto qualcosa di sbagliato nell’ultima settimana o giù di lì, ma non gli venne in mente niente. E poi si ricordò di avere trentadue dannati anni e che non doveva avere paura di Gibson.
Entrò nella camera da letto del maggiore e si chiuse la porta alle spalle. Erano lontani dagli altri abbastanza da non poter essere uditi, purché avessero parlato a bassa voce, e quella stanza fungeva anche da ufficio per Gibson quando era alla fattoria, quindi non era strano discutere lì.
“Cosa succede?” chiese Owen. Si appoggiò alla porta e incrociò le braccia in modo disinvolto.
Gibson sedette alla piccola scrivania che aveva allestito e aprì il suo portatile. “Era un mio amico dei tempi dell’università. Sua sorella potrebbe essere nei guai e lui vuole una scorta per lei per la prossima settimana mentre la sua famiglia si occupa della questione.”
“Si occupa della questione? Parliamo di mafia?” Non avevano un rigido codice morale relativo al tipo di persone per cui lavorare, ma Owen immaginava che dovesse esserci una linea di confine da qualche parte.
Gibson sbuffò, con una risatina. “Peggio. Parliamo di soldi. Un sacco di soldi. Hai mai sentito parlare dei Selby?”
“Non direi.” Owen conosceva qualche riccone famoso, ma non quelli sfuggenti che evitavano i riflettori.
“Il Selby Group ha le mani in pasta ovunque. Ricchi da generazioni. La figlia non è coinvolta, ma questo è il secondo tentativo di rapimento in tre anni.”
“Rapimento? Questi non sono semplici guai.” Owen si era aspettato di sentir parlare di un altro lavoretto da babysitter. Le ereditiere erano sempre bisognose di attenzioni.
“AR sembra sicuro che la sicurezza privata della famiglia possa gestire il problema, ma vuole un estraneo a proteggere sua sorella. Pare che la ragazza non apprezzi la scorta privata e lui ha pensato che questa soluzione possa funzionare meglio. Ci andrai tu.”
“Solo io?” A Owen non dispiaceva lavorare da solo ma non era così che funzionavano le missioni. Non poteva coprire ventiquattro ore su ventiquattro per sette giorni su sette, con o senza i suoi sensi potenziati da mutaforma. Doveva pur dormire, ogni tanto.
“Per cominciare, sì. Lui vuole convincerla ad accettare una squadra, ma ci andrà piano. Ci sarà un monitoraggio di supporto a distanza, ma tu sarai l’unico tramite con la ragazza.”
“Il nostro monitoraggio di supporto o il loro?” A Owen non piaceva l’idea di affrontare quel particolare incarico da solo, e ancora meno l’idea di un supporto non meglio definito. Ma avrebbe eseguito gli ordini del maggiore.
“Il loro.” Nemmeno Gibson ne sembrava entusiasta.
Owen non vedeva lo scopo di discutere; Gibson voleva lui per quel lavoro, quindi sarebbe andato. “Quando comincio?”
Il maggiore tornò al suo computer e digitò qualcosa. Un attimo più tardi arrivò una notifica sul telefono di Owen. “Presentati domani mattina presto. Ti ho mandato i dettagli.”
“Immagino che stasera tornerò in città.” Si mosse. “C’è altro?”
Gibson gli lanciò un’occhiataccia. “Non mandare tutto a puttane.”
“Sì, signore.”