1. Capitolo Uno

1765 Words
1 CAPITOLO UNO Stasia avrebbe voluto maledire la forza del segnale del suo cellulare. Non sentiva suo padre da quasi un anno e ora lui non smetteva di parlare. Non cadeva mai la linea quando ne aveva bisogno? “Ci sei?” chiese lui per la seconda volta. Lei lanciò un’occhiata alla vicina entrata della metropolitana e contemplò la possibilità di correre giù per le scale. Probabilmente nemmeno quello avrebbe potuto salvarla. “Sono qui,” confermò. “Allora rispondi quando parlo con te.” Non poteva essere serio. “Mi hai invitato alla festa di compleanno di Riley.” Dovette ripeterlo per essere sicura di aver capito. “Sarebbe tua moglie. Che ha dieci anni meno di me.” Ormai non era nemmeno più irritante. La moglie precedente aveva solo sei anni più di lei. Poi c’erano state altre quattro donne. A quel punto aveva dimenticato la maggior parte dei loro nomi. “Non è il compleanno di Riley, è quello di Emmy. Compie tre anni.” Stasia sentì un suono in sottofondo e si chiese quale lavoro suo padre stesse ignorando per rivolgerle quello stupido invito. “Sono abbastanza certa che la figlia di Riley ne compia quattro.” E non voleva toccare la questione del nome. Voleva terminare quella telefonata, senza cominciare a litigare. Se solo avesse lavorato ancora all’ospedale, quello sarebbe stato il momento perfetto per una chiamata d’emergenza. “Emmy è tua sorella.” Armand Selby era un maniaco dei dettagli... quando gli facevano comodo. Ed Emmy era la sorellastra di Stasia. Una dei suoi nove fratellastri. Ma ciò non significava che volesse mollare tutto per il compleanno di una bambina. “Dovrò controllare la mia agenda. Non so se sarò in città.” Sapeva che era stato un errore tornare a New York. Era di gran lunga troppo vicina agli obblighi familiari che avrebbe preferito ignorare. “Sai bene che puoi organizzarti per usare il jet se il trasporto è un problema.” Borbottò qualcosa, e Stasia fu abbastanza certa che sarebbe stata affibbiata ad un assistente per pianificare gli spostamenti. Gli assistenti non erano facili da distrarre come suo padre. Ma almeno non si sentiva combattuta quando mentiva. “Il problema non è il trasporto.” Non aveva intenzione di usare il jet di famiglia. O una delle auto del parco macchine di suo padre. O qualsiasi altra cosa che arrivasse dal grottesco patrimonio familiare, se poteva evitarlo. Disponeva di un’eredità che già odiava toccare, ma quella almeno non implicava nessun tipo di legame. I clacson suonavano lungo la strada e Stasia li udì appena. Facevano parte della vita di tutti i giorni in città. Ma stavolta il suono le giunse come un’ondata, come l’avvertimento di un pericolo imminente. Guardò lungo la strada, chiedendosi se si trattasse di un’ambulanza o di un guidatore un po’ eccentrico. Un altro pedone le urtò la spalla e imprecò. Stasia non si scusò. Quella era New York. Ma avrebbe dovuto continuare a camminare. Non si accorse dell’auto che si era fermata, ma una mano le afferrò il braccio e iniziò a trascinarla verso la strada. Il telefono le cadde mentre gridava e si girava, pronta a colpire chiunque la stesse importunando. Il cuore le balzò in gola quando vide una sciarpa intorno al volto dell’uomo e degli occhiali da sole neri a celarne gli occhi. Qualche ciocca di capelli scuri spuntava dal berretto da baseball blu navy, ma non avrebbe potuto identificarlo per salvarsi la vita. E non avrebbe potuto nemmeno nessuno fra i mille testimoni intorno a loro. Stavano per assistere al rapimento di una donna in pieno giorno. Una follia. Quella non era la prima volta per Stasia. Si impuntò, cercando di arretrare mentre mirava alla gola dell’uomo con la punta dell’osso del gomito. Si mosse abbastanza velocemente da sfuggire alla presa con uno strattone, ma lui indietreggiò e il colpo non andò a segno. “Aiuto! Chiamate la polizia!” gridò Stasia mentre l’uomo l’afferrava di nuovo. Usò il suo più incisivo tono da pronto soccorso, quello che aveva imparato dalle infermiere veterane che potevano far eseguire un ordine a chiunque. E non si fece prendere dal panico. Il panico può uccidere. L’uomo aveva una presa salda e iniziò a tirarla verso un’auto scura con i vetri fumé che era apparsa sul bordo del marciapiede. Si chiese confusamente se fosse quello ad aver fatto suonare tutti quei clacson ma non aveva affatto intenzione di soffermarsi su quel particolare. Si lasciò andare a peso morto contro l’uomo, rifiutandosi di collaborare al proprio rapimento. Quella non era una cosa che aveva imparato al pronto soccorso, era piuttosto una tecnica che una delle sue guardie del corpo le aveva insegnato ad utilizzare quand’era bambina. Stasia si guardò intorno cercando di farsi un’idea migliore di ciò che stava succedendo, di chi stesse assistendo e di chi stesse cercando di rapirla. Una donna bionda stava ferma in piedi con gli occhi sbarrati e il telefono in mano, riprendendo in video l’intera faccenda. Il video non sarebbe stato di grande aiuto a Stasia se l’avessero infilata a forza nel bagagliaio di un’auto. “Tu,” gridò, senza poterla indicare ma stabilendo un contatto visivo con la donna, “chiama la polizia! Ora!” Fu l’ultima cosa che riuscì a dire prima che il suo rapitore le mettesse una mano sulla bocca. Stasia provò a mordergli il palmo ma non ci riuscì. Si lasciò di nuovo andare e trasalì quando la sua caviglia si torse malamente sul duro cemento, cosa che però fece inciampare l’uomo. “Lasciala andare!” urlò un ragazzo con la maglia dei Knicks, facendosi strada verso di loro. Stasia riuscì a dare un’altra occhiata attorno a sé e vide che la scena aveva attirato una folla di altre persone, cosa non troppo difficile da fare in una strada trafficata di New York. Allora perché qualcuno stava cercando di prenderla proprio lì? Se ne sarebbe preoccupata più tardi. “Lasciala!” Una giovane donna con i capelli di un viola acceso e con indosso un giubbotto di jeans strappato si unì alla mischia. Ci volle solo un minuto perché la scena si trasformasse in un assalto, mentre Stasia veniva separata dal suo aspirante rapitore. Tre o quattro persone lo circondarono, ma lui diede una spallata al ragazzo che indossava la maglia dei Knicks e indietreggiò rapidamente fino a raggiungere la macchina. Una portiera si aprì e lui si tuffò all’interno mentre l’auto si allontanava. “Tutto a posto?” chiese la ragazza con i capelli viola. Si chinò e porse a Stasia il suo telefono. “È tuo?” Le braccia di Stasia cominciarono a tremare mentre lei batteva i denti. Lo shock. Lo sapeva, ma la cosa non bastava a calmare i nervi quando ci si trovava proprio nel bel mezzo della situazione. “Sto bene,” riuscì a dire con labbra tremanti. “Non sembra. Cosa voleva quel tizio da te? Non avevo mai visto una cosa del genere.” La ragazza rabbrividì. A Stasia venne da ridere. Sapeva che non era un risposta adeguata, ma solo un altro esempio di malfunzionamento dei neuroni dovuto al trauma. Ma ridere era meglio che piangere. “Io sì.” E sapeva esattamente cosa volesse quell’uomo da lei. Un riscatto. I soldi di suo padre. Era sempre lì che si arrivava. A fronte di tutti i privilegi che derivavano dalla ricchezza, non era sempre sicuro essere la figlia di un miliardario. Abbassò lo sguardo sul suo telefono e fu sorpresa di constatare che lo schermo non era incrinato. Era veramente un miracolo. C’era una dozzina di notifiche di messaggi di suo padre, che voleva sapere cosa stesse succedendo. Stasia fu tentata di lasciarlo sulle spine. Ma qualcuno nella folla che la circondava avrebbe sicuramente postato un video dell’accaduto sui social media e sarebbe stato meglio che la notizia giungesse da lei stessa. Aprì la sua applicazione di messaggistica. In quel momento non pensava di essere in grado di gestire una conversazione con Armand Selby. Tentato rapimento. La folla ha respinto l’aggressore. Posteranno sicuramente un video sui social media. Devo parlare con la polizia a breve. Resterò in contatto per limitare i danni. Ecco. Poteva bastare. E le sue dita non tremavano quasi più. Un istante più tardi il telefono emise il suono di notifica della risposta. Ti mando un avvocato. Non parlare finché non arriva ad assisterti. Non rispose al messaggio. Non ce n’era bisogno. Un’altra figlia avrebbe potuto essere infastidita dal fatto che suo padre non le avesse chiesto se stava bene. Un’altra donna avrebbe potuto essere irritata dal fatto che suo padre le avesse ordinato di aspettare l’avvocato come se fosse una bambina. Ma lei aveva imparato da molto tempo che era inutile arrabbiarsi. La ragazza dai capelli viola mise una mano sulla spalla di Stasia e lei si scostò. “Scusa,” disse la ragazza. “Io sono Vi. Vedo che stanno arrivando due poliziotti. Vuoi che li distragga?” Stasia guardò Vi con più attenzione. Era giovane, probabilmente sotto i venticinque anni, ma c’era una durezza nei suoi occhi che poteva derivare solo dall’essere stata ferita da persone di cui si fidava. E in quella situazione stava cercando di aiutare una sconosciuta. Emanava un’aura abbastanza minacciosa da far sì che la folla si tenesse a distanza da loro due. Se Stasia fosse stata meno lucida avrebbe potuto pensare che Vi stesse per attaccare. Ma il suo istinto le diceva di fidarsi di lei. “Non ce n’è bisogno. Ho dei rinforzi in arrivo.” Sollevò il telefono agitandolo leggermente in direzione della ragazza. Due agenti in uniforme stavano disperdendo la folla e Stasia si tenne pronta. “Signora,” disse il primo poliziotto. Lui e il suo partner sembravano praticamente uguali e lei non sarebbe mai riuscita a distinguerli. Diede un’occhiata alle targhette e vide che uno si chiamava Smith, e l’altro Jones. Adorabile. “Abbiamo ricevuto una chiamata.” “Qualcuno ha tentato di rapirmi,” confermò lei. La sua voce ora era più ferma e le mani non tremavano più. Bene. Ai poliziotti non piacevano le donne piagnucolose. “Vorrete chiamare il vostro sergente prima che cominci il circo mediatico.” “Circo mediatico?” L’agente Jones era perplesso, “Questa è New York, signora. Ora dobbiamo raccogliere la sua deposizione.” “Mi chiamo Stasia Nichols. Mio padre è Armand Selby, il terzo uomo più ricco di New York. E non dirò nient’altro finché il mio avvocato non ci raggiungerà. Ora, vogliamo parlare alla stazione di polizia? O preferite aspettare che arrivino i furgoni della stampa?”
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