1.
Ven Renan fu svegliato dal suono acuto del corno della battaglia. Era così che l’amministrazione lo informava che quel giorno avrebbe combattuto. Non credevano nelle chiacchiere inutili, quelli dalla Trident. Credevano nel parlarti per segnali acustici in modo che tu potessi sviluppare un riflesso condizionato a ognuno di essi.
Funzionava.
Quando sentiva il corno della battaglia a Van si rattrappivano i genitali, fisicamente, e si stringeva il buco del culo. Non era elegante a dirsi, ma tanto non c’era nessuno a cui potesse dirlo. Poteva solo prendere atto che il terrore di una possibile morte imminente faceva quell’effetto al suo corpo.
Scivolò giù dalla branda dura e munita di un unico lenzuolo sottile. Aveva i muscoli delle spalle e del collo contratti, un altro effetto del segnale, certo, ma anche dell’umidità della notte.
Andò nell’angolo dove un singolo foro sul pavimento rappresentava i suoi sanitari. Ci pisciò dentro. Aprì il rubinetto dell’acqua per far defluire la sua urina e scacciare in parte l’odore di cesso.
Al proprio odore ormai Van era abituato. L’avrebbero lavato prima dello spettacolo - e lì iniziavano e finivano i punti a favore dei combattimenti nell’arena. Potevi crepare o restare menomato, ma almeno prima facevi la doccia.
Bevve un po’ d’acqua e aspettò che la porta della propria cella si aprisse.
Lo fece dopo qualche minuto, con un suono metallico.
Mentre percorreva il corridoio scuro che l’avrebbe portato alla Preparazione, Van, come ogni giorno, contò: gli restavano ancora tre anni di pena. Se fosse riuscito a sopravvivere a quei tre anni, sarebbe stato liberato.
Sapeva che le percentuali erano a suo sfavore. Il 90% dei condannati al Ludo moriva prima della fine del periodo di detenzione. Chi non moriva impazziva.
Van non sapeva se fosse già impazzito oppure no, ma era sicuro di non essere ancora morto.
Era già qualcosa.
Era riuscito a sopravvivere a quasi un anno di quell’ordalia. Alla detenzione durissima, alla preparazione atletica, ai combattimenti e ai dopo-combattimenti, in cui veniva drogato e usato per intrattenere gli ospiti di riguardo dello spettacolo. Era riuscito a resistere a trecentoquarantuno giorni di violenza fisica e psicologica costante.
No, non sapeva se era già impazzito.
Era più che probabile.
Si aprì la porta della sala della Preparazione.
Due guardie armate di laser stordenti controllavano la stanza, per impedire che provasse ad ammazzarsi con il cucchiaio o qualcosa del genere. La Trident era padrona della sua vita e della sua morte, e non avrebbe mai permesso che un gladiatore si togliesse la vita senza poter monetizzare il suo decesso.
L’erogatore di cibo sputò una montagnola di roba bruna nella ciotola sul bancone. Van la prese, prese il cucchiaio e iniziò a mangiare in piedi, in fretta.
Era un composto proteico, altamente energetico, fatto apposta per colmare qualsiasi lacuna nutrizionale di cui Van potesse mai soffrire. Per quanto miracoloso fosse, sapeva di cibo per gatti.
Van mangiò tutto, bevve mezzo bicchiere d’acqua e andò verso la porta successiva. Le due guardie armate lo squadrarono da capo a piedi.
«Che bestia, eh?» commentò uno, come se lui non fosse neppure lì.
«Quelli che sopravvivono diventano così. Più animali che esseri umani. Guardalo, però, ha il cazzo retratto: ha paura anche lui».
Van restò indifferente. Non voltò la testa per guardarlo.
«Poveraccio. A volte mi chiedo, per quanto male un uomo abbia fatto nella vita...»
«Non cascarci» lo interruppe l’altra guardia. «Possono fare pietà, ma non cadere nell’errore di compatirli. Questo qua probabilmente ha stuprato decine di donne, accoppato bambini o fatto saltare in aria chiese piene di gente».
Neppure a quello Van rispose. Non sarebbe servito a nulla.
La porta si aprì e lui la attraversò, mentre la prima guardia concludeva: «Merita di soffrire».
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Il getto freddo della doccia lo colpì come uno schiaffo diretto all’intero corpo. Acqua mescolata ad agenti antiparassitari, disinfettante, detergente. Van si frizionò con forza, cercando di pulire ogni angolo. Era l’unica, fugace, sensazione positiva della sua nuova vita. Per qualche minuto sentirsi di nuovo pulito, sentirsi di nuovo quasi umano.
La lama automatica del Programma Igienico tagliò i peli facciali, barba e capelli, alla lunghezza di cinque millimetri. Abbastanza perché alla vista non risultasse calvo, ma troppo corti perché gli avversari potessero usarli come appigli. Il resto del suo corpo era completamente glabro, privato per sempre di ogni pelo al momento dell’ingresso nel Ludo.
Passò all’erogatore di composto. Era una crema marrone che doveva cospargersi sulla pelle, un mix di olio e lubrificante che l’avrebbe reso scivoloso, almeno per i primi minuti di combattimento. Non dimenticò di darselo anche in testa.
Più avanti sul bancone trovò un paio di calzari neri, del tipo che ti venivano dati per l’arena. Erano aderenti guaine di materiale elastico, con una suola di gomma sagomata per consentire la massima presa sul terreno.
Li indossò e passò alla stanza successiva.
Qua, su un monitor sporco di ditate, vide per la prima volta l’avversario che stava per affrontare. Erano due.
Uno era un trione, una manipolazione genetica dei vecchi leoni terrestri. I trioni erano privi di criniera e di stazza ancora maggiore rispetto ai leoni, con la coda appuntita e velenosa. Molto duri da accoppare, perché avevano il dorso corazzato.
Van aveva ancora una lunga cicatrice su una coscia causata dalla coda di uno dei quei cosi. Il veleno che conteneva ti rallentava e, in dose sufficiente, finiva per addormentarti.
Il secondo avversario era un prigioniero come lui. Nonostante la guardia l’avesse definito “una bestia”, Van non era certo il condannato più grosso del Ludo. Il suo avversario di quel giorno era molto più massiccio di lui, forse anche più alto. Una fortezza umana dagli occhi piccoli e scuri e dalla pelle bianchiccia.
Van si chiese che cosa stesse pensando il suo avversario di lui, in quel momento. Forse lo stava sottostimando, vedendo la sua figura relativamente snella. Ma più probabilmente stava guardando le sue cicatrici e si stava facendo due conti.
Sullo schermo comparve l’elenco delle armi tra cui poteva scegliere.
Era un elenco variabile, perché alla Trident non volevano che un prigioniero si specializzasse e offrisse, quindi, uno spettacolo sempre uguale.
Quel giorno c’erano lance, spade, balestre, mazze chiodate, asce e una sorta di pungolo elettrico.
Van si affrettò a scegliere il pungolo, prima che glielo soffiasse il suo avversario.
Il quale, subito dopo, scelse un’ascia.
Van prese una spada.
Il suo avversario optò per una lancia.
Erano praticamente ad armi pari.
Van era leggermente favorito per via del pungolo, il suo avversario era leggermente favorito per via della massa maggiore. Se la coda del trione l’avesse punto il veleno avrebbe agito in modo più lento su di lui.
Il suono del corno di guerra risuonò ancora nella stanza.
Van deglutì e andò verso l’ultima porta.
Prima che si aprisse si ripeté, per la ventiduesima volta da quando era entrato al Ludo: non cedere alla tentazione di farti accoppare.
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L’anfiteatro era ampio, con le gradinate tutto attorno e il palco d’onore verso ovest. In aria ronzavano i sensori che avrebbero trasmesso lo spettacolo su buona parte dei pianeti dell’Alleanza. Il pavimento dell’arena era di ferro liscio, reso rovente dal sole impietoso del pomeriggio. Le gradinate erano in ombra, naturalmente. Gli unici che dovevano soffrire erano i gladiatori.
Quando Van entrò fu accolto dalle grida della folla. Il rumore rimbombò nell’anfiteatro come il ruggito di una bestia. Era quello l’altro suono che gli faceva rattrappire il pene e stringere il buco del sedere. Ancora di più del corno di battaglia.
La consapevolezza che gli spettatori volevano vedere il suo sangue e, se possibile, le sue viscere sparpagliate sulla piastra bruna del pavimento.
«Imbattuto da ventidue giorni, il campione della sfida odierna, Van Renan!» annunciò il cronista. La sua voce gioviale uscì dagli altoparlanti posti tutto attorno all’arena. «Sei piedi e tre di fibroso orioniano DOC, trentacinque anni a marzo, condannato in via definitiva per strage e sovversione...» Le grida della folla si alzarono di nuovo. Piovvero sputi. «Ha subito da non molto un infortunio a un ginocchio... speriamo che si sia ripreso! Non vogliamo che muoia subito, giusto?».
Un altro ruggito della folla. In quanto all’infortunio, volendo si poteva definirlo così. Van preferiva considerarlo per ciò che era: un maledetto centauriano che l’aveva colpito con una mazza chiodata fino a ridurre il suo ginocchio a una pappa sanguinolenta. Era stato quattordici ore nelle mani del programma chirurgico.
«Ed ecco lo sfidante, Cennan Layanne, dal sistema di Izar. Sei piedi e sei per duecentoquindici libbre, solo ventidue anni!».
Ancora una volta la folla gridò.
«Questo grosso gentiluomo è qua per aver dissacrato una Vergine di Aniene!».
Grida e sputi.
Van guardò il povero stronzo che era appena entrato nell’arena dalla porta di fronte alla sua. Le Vergini di Aniene erano sacerdotesse di una casta molto potente. Per dissacrarle bastava portarle a letto, che loro fossero consenzienti o meno. Era più probabile che il tizio che aveva davanti fosse un idiota che uno stupratore. Solo un idiota poteva pensare di scoparsi una sacerdotessa di Aniene e farsi pure beccare. Se invece l’aveva costretta... be’, in quel caso la faccenda si faceva più scivolosa. Per farlo, il giovane Cennan, lì, doveva essere riuscito a penetrare nei sistemi difensivi del tempio, che si dicevano complicatissimi. La maggior parte delle persone che provava a entrare, infatti, lo faceva per mettere le mani sulle offerte del tempio, non certo per le sue scialbe vestali.
Per Van il grado di abiezione morale del suo avversario era irrilevante. Capire se fosse astuto o meno, invece, poteva fare la differenza tra la vita e la morte.
La folla ruggì di nuovo.
Van, che si era astratto dalle ciance del presentatore, si rese conto che stavano aprendo la saracinesca delle bestie. Ne uscì lentamente un trione. L’animale si muoveva con l’eleganza indolente tipica di tutti i felini, agitando la coda appuntita.
«Prima facciamo fuori la bestiaccia, poi ce la vediamo tra noi» disse il giovane Cennan e Van ebbe l’assoluta certezza che il ragazzo non aveva abbastanza sale in zucca da essere riuscito a penetrare nel tempio di Aniene.
«Vedo che sei nuovo» ribatté.
Si spostò con calma verso un lato dell’arena, estraendo il pungolo dalla sua fodera. Cennan impugnò la lancia, indeciso se puntarla contro di lui o contro la bestia.
Van batté per terra con l’estremità elettrificata del pungolo, facendo partire una scossa. La lastra di metallo condusse male l’elettricità. Van, attraverso le suole di gomma, ne fu a stento pizzicato. Il trione, tuttavia, non aveva scarpe di gomma e, specialmente, non aveva un cervello in grado di speculare sulla conduttività dei materiali. Si sentì pungere e ruggì. Ruggì e scattò avanti, caricando Cennan.
L’izariano, vedendosi venire contro una bestiaccia alta un metro al garrese, impugnò la lancia con entrambe le mani, preparandosi a respingerla.
«Aiuto» disse, spostando lo sguardo su Van.
Van, il pungolo in una mano e la spada nell’altra, gli fece segno di no con la testa. Perché avrebbe dovuto aiutarlo? Per poi doversi scontrare con un avversario più grosso e più forte di lui?
Cennan conficcò la punta della lancia nel petto del trione, facendolo saltare indietro. Van scaricò di nuovo il pungolo a terra, gridando: «Vai! Vai!».
Era il comando che usavano gli addestratori per ordinare l’attacco. Il trione balzò di nuovo verso Cennan, che fu costretto a retrocedere. Van pungolò direttamente il trione, gridandogli ancora di attaccare.
Il grosso felino mosse la coda innervosito. Ricominciò ad avvicinarsi a Cennan. Van tagliò la sua fuga da un lato. Lo minacciò con la spada, costringendolo a difendersi con la lancia, la qual cosa andava benissimo a Van.
In uno scontro ravvicinato la forza maggiore del suo avversario sarebbe diventata un problema.
«Renan è stato astuto» diceva intanto il cronista. «Ha aizzato il trione contro Layanne e ora lo tiene tra due fuochi, per così dire. Lo minaccia con la spada senza mai avvicinarsi veramente. Lo tiene impegnato, gli impedisce di battersi con il trione. In una parola, è riuscito a usare lo scontro a tre contro il suo avversario umano».
Van non si sentiva poi così astuto. Era semplicemente l’unico modo per uscirne vivo.
Cennan era costretto a usare la lancia per tenere lontani sia lui che il trione, di conseguenza non poteva passare al contrattacco. Il trione, innervosito dalle punzecchiature che gli infliggeva Cennan, vedeva solo lui come avversario, mentre considerava Van come un concorrente, di cui disfarsi solo dopo aver ucciso la preda.
Attaccato su due fronti, Cennan era sempre più affaticato e nel panico. La sua pelle unta gocciolava sudore, i suoi occhietti si spostavano erratici, alla ricerca di un aiuto che non sarebbe arrivato.
Van aspettò che il trione tornasse alla carica per avvicinarsi da dietro e strappargli la lancia mentre Cennan caricava il colpo. La scagliò lontano, per poi tornare subito a brandire la spada.
«Bastardo!» gridò l’izariano, facendo roteare l’ascia.
Il trione riuscì a graffiargli un braccio con la coda.
Bene, meno veleno per me, pensò Van.
Ormai nel panico, e sapendo di avere poco tempo prima di iniziare a sentire il torpore dell’avvelenamento, Cennan lanciò l’ascia contro il trione.
In assoluto non fu un brutto colpo. Raggiunse l’animale su un fianco, facendolo ruggire di dolore e aprendogli uno squarciò profondo all’altezza delle costole.
Ma qualsiasi colpo non-risolutivo, se avevi solo un’arma, era un colpo perdente. Il trione saltò avanti e azzannò Cennan alla gola. Poi fece quello che fanno tutti i predatori in quelle circostanze. Indifferente agli spasmi del corpo dell’izariano, lo scosse forte, senza aprire le mascelle, fino a rompergli l’osso del collo.
Una volta sicuro che la sua preda fosse morta, il grosso felino la buttò a terra e lanciò un’occhiata sospettosa a Van.
Se fossero stati in natura, al secondo prigioniero sarebbe bastato allontanarsi umilmente, riconoscendo al trione il diritto di nutrirsi dei frutti della sua caccia.
Ma non erano in natura e Van sapeva che, se non avesse attaccato, qualcuno avrebbe aizzato quella bestiaccia contro di lui. Meglio non aspettare quel momento e non lasciare al trione neppure il tempo di leccarsi il fianco ferito.
Come ogni volta in cui gli capitava di avvicinarsi a quegli animali – più spesso di quanto avrebbe voluto – Van restò impressionato dalla sua stazza e dal suo sguardo trasparente. Erano le bestie più belle e letali del mondo.
«Per il momento Renan se l’è cavata a buon mercato... vedremo ora come si batterà con un avversario molto più agile e forte di lui!».
Van fece una sorta di capriola laterale e si impadronì della lancia del gladiatore ormai morto. Poi passò all’attacco. Minacciò il trione su un fianco, lo percosse sul muso con il pungolo elettrico e lo ferì con la punta della lancia sulla coscia sinistra.
«Una cosa bisogna ammetterla: quest’uomo sa combattere! È lui che detta il passo».
Fosse o non fosse lui, il trione si girò di scatto e spazzò l’aria con la coda. Van rotolò per terra, ma fu ugualmente colpito su un braccio. Si rialzò e tornò ad attaccare, nonostante il veleno del trione bruciasse come lava fusa. La dose che era riuscito a trasmettergli non poteva essere troppo elevata, ma doveva comunque fare attenzione a tenerselo sempre di fronte, da quel momento in poi, perché venir tagliato una seconda volta dalla sua coda avrebbe significato indebolirsi e venire abbattuto.
Grondante di sudore, i muscoli ormai stanchi per la lotta protratta, Van si buttò a terra e cercò di passare sotto la pancia del trione per sbuzzarlo con la spada. Il trione lo voltò su un lato con un colpo di zampa, le unghie che affondavano in profondità su una natica di Van, e si preparò a saltargli addosso.
Da terra, sanguinante e indebolito, Van lo percosse con il pungolo elettrificato. Il trione emise un miagolio infastidito... fu allora che Van gli cacciò la spada dentro la bocca. Gli sfondò il palato, poi ritrasse la mano prima che la bestia riuscisse a mordergliela.
Il trione miagolava e ruggiva, reso folle dal dolore. Non poteva chiudere la bocca, perché non era in grado di liberarsi della spada di Van.
Intontito dal veleno e dal dolore, il prigioniero si alzò in piedi sorreggendosi alla lancia. Camminò lentamente fino all’ascia abbandonata a terra, il sangue che gli colava copioso giù da una gamba.
Vacillò, si raddrizzò... il trione continuava a dibattersi... fece roteare una volta l’ascia in aria... la lanciò con tutta la forza che gli restava.
La lama si piantò nella spessa scatola cranica del trione, sopra uno degli occhi. Un istante più tardi l’animale crollava su un fianco e Van guardava verso la tribuna d’onore.
«Incredibile, signori! Con questa, Van Renan si aggiudica la ventitreesima vittoria!».
Van chiuse gli occhi, facendo di tutto per restare in piedi, aggrappato alla lancia.
Pensò: Vedrai che ritorno, Canthy. Aspettami. Ritorno.