2.
Si svegliò diverse ore più tardi. Dato che non c’erano finestre non ebbe immediatamente un riscontro, ma la sveglia sul comodino segnava 7pm in caratteri rossi e squadrati. Era in un letto che non le apparteneva, nuda. Qualcuno l’aveva infilata sotto al piumino. Si ricordò dell’ultima parte del pomeriggio e si toccò tra le gambe. Aveva i peli tutti appiccicosi, era successo davvero.
Non riusciva a ricordare bene, come se avesse preso una droga di qualche tipo. Ricordava Angelo Balistreri sopra di lei, che spingeva, ma non riusciva a ricordare altro.
E prima... prima c’era stato un massacro. A dare retta al boss, lì, avevano sparato con un lanciamissili, nemmeno fossero in Afghanistan. Robert era morto.
Lei era stata portata via, curata e lavata, ma non aveva più niente di suo. Chissà dov’era finito il suo cellulare.
Scivolò fuori dalle coperte e si rese conto di essere tutta indolenzita. Non per il sesso, ma per quello che era successo prima. Si guardò nello specchio. Aveva un grosso cerotto sulla fronte e una bendatura su una caviglia. Che le faceva male.
In quel momento pensò per la seconda volta che era stata a letto con Angelo Belistreri. Un boss mafioso, niente meno. L’uomo con cui era venuta a stringere un accordo perché diventasse un testimone federale.
Non avrebbe dovuto. D’altronde non avrebbero neppure doovuto spararle addosso.
Si esaminò allo specchio. Aveva gli occhi grandi e chiari, i capelli castani tutti ingarbugliati, il seno piccolo, la vita stretta e delle gambe belle e lunghe. Si era levata l’accappatoio davanti a lui, Cristo santo. E quando le aveva dato la possibilità di fermarlo non l’aveva fermato.
Chiuse gli occhi, cercando di ritrovare la lucidità. Non si ricordava nemmeno come fosse stato. Si ricordava solo che era grosso. Che tristezza, non le veniva in mente proprio nient’altro.
Usò il bagno personale di Balistreri per darsi una sciacquata.
Guardò dentro al sacchetto che aveva portato quel tipo. Qualche completino da mignotta e roba paramilitare, della security.
Janet pescò un paio di short di dimensioni imbarazzanti e una t-shirt larga e blu. Non aveva niente da mettersi ai piedi, ma era piuttosto sicura che le sue scarpe stringate fossero ancora lì, da qualche parte.
Prima di uscire diede un’ultima occhiata alla stanza. Era tutto ordinatissimo, tutto pieno di buon gusto. Non sembrava nemmeno il posto in cui qualcuno dormiva tutte le notti.
Uscì nel claustrofobico corridoio senza finestre e si guardò a destra e a sinistra. Tutte le porte erano chiuse, ma da una provenivano delle voci infantili.
Andò da quella parte. Bussò.
«Avanti» disse una voce maschile, dall’interno.
Entrò. Per terra, seduti sulla morbida moquette marrone, c’erano due ragazzini tra i sei e i dieci anni, un maschio e una femmina. Seduto dietro di loro, a gambe incrociate, c’era Angelo Balistreri stesso, nel completo gessato che aveva indossato quel pomeriggio. Davanti a loro erano sparpagliati centinaia di pezzi di Lego.
Balistreri alzò gli occhi su di lei. Le occhiaie erano ancora al loro posto, la barba era un po’ più lunga.
«Bellini» disse.
«Chi è lei?» chiese il ragazzino. Era il minore dei due e assomigliava al padre solo negli occhi.
«È una mia amica. È venuta per parlarmi di cose molto importanti» rispose Balistreri, paziente.
«È quella a cui hanno sparato il razzo?» fece la bambina. Era più grande e gli assomigliava di più. Aveva le sopracciglia troppo spesse, un difetto che avrebbe corretto a forza di ceretta appena entrata nell’adolescenza.
«Non lo sappiamo, Martha» rispose il padre. Si alzò in piedi con un grugnito. «Adesso devo lasciarvi per un pochino. Ci vediamo più tardi, okay?».
Il bambino tirò su con il naso. «Posso venire nel lettone?».
Balistreri ci pensò per qualche secondo. «Okay» concesse. «Ma solo per stanotte».
Le fece segno con la testa di precederlo fuori, per poi guidarla fino al salotto in cui si erano incontrati quel pomeriggio. «Meglio?» le chiese, andando al mobiletto degli alcolici. Si versò un bicchiere di qualcosa. «È tutta la sera che non faccio che bere. Ma è stata una giornata pesante».
«Serviti pure» disse lei, andandosi a sedere sul divano. «È stata pesante per tutti. Credo di avere diritto a qualche spiegazione».
Balistreri le allungò un bicchiere con qualche dito di bourbon e si andò a sistemare all’altro capo del divano.
«Non posso saperlo con sicurezza, ma immagino che sia stata la Connessione. Vogliono ritardare il momento in cui stringerò l’accordo. Sanno che non ho più la forza di tirarla per le lunghe. Sono alle corde».
Janet lo guardò e si rese conto di quanto fosse stremato.
«Hanno fatto saltare in aria la mia ex-moglie, hanno ammazzato mio fratello... non mi resta più molta famiglia da mettere in pericolo, ma vorrei evitarlo. È stato solo un caso che i bambini non fossero a giocare in giardino, oggi pomeriggio».
«Avevo con me una bozza di accordo, quando sono arrivata. Una valigetta nera» disse lei.
Balistreri fece un gesto fatalista. «Distrutta».
Lo sguardo di lei si fece più penetrante. «È solo una mia impressione o non hai chiamato la polizia?».
Lui si mordicchiò il labbro inferiore. «Anzi, li ho mandati via. Ma ho qua l’FBI».
«Non è la stessa cosa».
«No, lo so» ammise lui. «Non volevo che casa mia si riempisse di sbirri».
«Devo telefonare a New York» disse Janet.
Balistreri la fissò in silenzio per qualche secondo. «Se telefoni a New York mandano qualcun altro a farti fuori» disse, alla fine, a bassa voce.
«Come fai a saperlo? Credo che tu non ci stia dicendo molte cose».
«Non lo so, me lo sento nelle ossa. Vogliono evitare che io mi accordi con i federali. Dato che sanno che sono rintanato qua, sanno anche che non possono uccidermi. Non molto facilmente, comunque. Così hanno pensato di uccidere voi. Mi dispiace, Bellini, ma credo che qualcuno, all’FBI, abbia parlato».
Janet sapeva che era possibile. Era così, con le questioni di mafia: le aderenze erano infinite, non sapevi mai di chi fidarti.
«Come vuoi procedere? Dovremo fissare un altro incontro».
Balistreri sembrò deluso.
Si alzò e rimboccò il suo bicchiere, che nel frattempo aveva finito. Quello di Janet era ancora intatto. Riempì, bevve un sorso, e tornò verso il divano con passo dinoccolato. Si sedette accanto a lei.
«Ci ammazzeranno tutti. Me, mia sorella, i miei figli». Chiuse gli occhi e si portò il bicchiere alle labbra alla cieca. Bevve. Non era ancora ubriaco, ma non era neppure perfettamente lucido, valutò Janet.
«Succhiami il cazzo, per favore» disse.
Janet inarcò le sopracciglia, ma lui non aveva nemmeno aperto gli occhi.
«Che cosa?» fece, lasciandogli modo di rimediare.
Lui sbuffò. «Non servi a niente. Non hai più la bozza, non puoi fare niente. Ma hai comunque delle belle labbra, delle belle gambe e delle belle tettine. Fammi un pompino, almeno ti renderai utile».
«Forse hai bevuto troppo» disse lei, cercando di non drammatizzare. Non voleva rovinare tutto per una conversazione da ubriachi. Quell’uomo era un testimone inestimabile, per il Bureau.
«Ho bevuto troppo di sicuro» borbottò lui. Scivolò da un lato, posandole la testa sulle cosce. Janet si trovò con quella cosa in grembo e provò l’impulso di accarezzargli i capelli. Perché, poi? Si astenne. Lui le fece scorrere una mano sull’esterno di una coscia, in un gesto decisamente troppo familiare.
Janet sospirò appena. «Credo che ci sia stato un malinteso. Oggi pomeriggio ero sotto shock... avevano appena ucciso il mio collega... ci avevo quasi lasciato le penne. Non dico che mi sia dispiaciuto, ma non ho intenzione di rifarlo».
Lui infilò la punta delle dita sotto i suoi short.
«Quindi è per questo che ti sei infilata questi pantaloncini che lasciano uscire tutte le chiappe, mh? Oh, dai».
Janet allontanò la sua mano. «Non c’erano altri vestiti».
«Okay, benissimo, scusa se ho pensato male» fece lui, un po’ sarcastico. Dato che lei gli aveva spostato la mano dagli short, lui la usò per strizzarle una tetta al di sopra della t-shirt. «Sei pure senza reggiseno. Ma diciamo che non vuol dire niente. Diciamo che oggi pomeriggio eri tutta suonata e che nemmeno volevi. Ora sono io quello tutto suonato e ho solo bisogno di un piccolo pompino. Sembri nata per succhiare cazzi. Hai detto che non ti è nemmeno dispiaciuto...»
«In realtà non me lo ricordo molto bene. E ti assicuro che non sono nata per...»
«Okay, fantastico, come vuoi» fece lui, interrompendola. «È sempre la stessa storia: se vuoi che qualcosa sia fatto bene devi farlo da solo».
Si slacciò i pantaloni e se li abbassò. Janet non poté impedirsi di guardare. Il problema era che quell’uomo era bello. Bello e grosso. In realtà le dimensioni erano più o meno l’unica cosa che si ricordasse. Ed era praticamente una bestia: un assassino, un criminale, uno che aveva ordinato rese dei conti orribili. Quando sua moglie si era stancata della vita che era costretta a vivere, lui l’aveva sbattuta fuori dalla famiglia, ottenendo la custodia dei figli. Trattava le persone come se fossero spazzatura. Tutti, ma le donne di più.
Perché doveva essere esattamente il tipo di maschio che la attizzava?
Ora confermò la sua valutazione più o meno su tutto, dal fatto che era un animale alle dimensioni del suo uccello. Balistreri se lo prese in mano e iniziò ad accarezzarselo quasi teneramente, con gli occhi chiusi e l’altra mano sul suo seno. Janet guardò il suo glande scuro, teso, duro, e poi l’asta del suo uccello, leggermente curva, con le vene in rilievo. Era lungo una spanna. Era pure largo. Era un gran bel pezzo di carne.
Questo lo pensò mentre gli allontanava la mano dal suo seno e si diceva che quella scena era disgustosa. Si ripeteva che quel tizio era un criminale, un assassino e pure l’emblema del maschilismo o giù di lì. Il Bureau stava trattando con lui solo per distruggere una rete ancora più ampia, che spaziava dallo spaccio di droga, alla prostituzione, al traffico d’armi, al gioco d’azzardo.
«Io me lo ricordo benissimo, comunque» mormorò, con il respiro accelerato, mentre iniziava a masturbarsi nel senso stretto del termine. L’afflusso di sangue rendeva il suo glande di un colore brunastro, con i due lobi durissimi e il buchetto dell’uretra che si contraeva lievemente. «Eri tutta bagnata. Ce l’avevi stretta come un laccio emostatico. Hai goduto a voce alta. Un piccolo gemito ogni volta che ti arrivavo in fondo. E continuavi ad ansimare “ancora, ancora”. Quando sei venuta hai infradiciato tutto. Me l’hai strangolato con la passera. Ma diciamo che non volevi nemmeno. Diciamo che mi sono approfittato della situazione. Tu che ti denudi davanti ai miei occhi e che ti strusci tutta. Tu che goccioli dalla figa, no? Una coincidenza».
«Cristo, smettila» disse lei, con voce debole.
Balistreri aprì gli occhi di una fessura e la guardò. Vide la sua fronte sudata e le sue pupille dilatate.
Lasciò andare il suo uccello e si alzò a sedere. La spinse giù, sul divano. La rivoltò a pancia sotto. Le abbassò gli short sotto al sedere.
«Non voglio infierire, ma sei anche senza mutande» disse, salendole sulla schiena.
Mezzo secondo dopo Janet sentì la cappella di lui entrarle dentro e poi fermarsi. Era così dura, così larga... la fichetta di lei gli si strinse attorno, inzuppandolo tutto. Poteva ancora tirarsi indietro, probabilmente. Janet sollevò il sedere, iniziando ad ansimare.
Balistreri le arrivò in fondo con tutta calma, facendole sentire ogni dettaglio.
«Questo cerca di ricordartelo» la ammonì, con un mezzo sbuffo.
«Ancora» gemette lei.
Lui iniziò a muoversi lentamente, ritraendosi e poi sprofondandole di nuovo dentro, allargandola e riempiendola, facendosi spazio senza strappi.
Janet iniziò a godere a voce alta e lui le separò le natiche con le mani, dandole piacere anche dietro, semplicemente con la tensione. Lei si sfilò la maglietta e la buttò un po’ più in là. Lui si chinò per stringerle anche le tette, da dietro.
Accelerò un pochino e Janet iniziò a tremare di piacere. Smise di chiedersi che cosa stesse facendo. Dalle sue labbra sgorgava una sorta di incitamento continuo a prenderla più forte, a riempirla tutta, a fotterla come una cagna.
Balistreri si allungò fino a strizzarle il clitoride e Janet gridò di piacere. Pulsava tutta. Il desiderio la stordiva. Sentiva il grosso randello di lui darle ogni motivo di godere.
Balistreri grugnì e accelerò. Le piantò la cappella dritta nella cervice, fino a farla lacrimare. Le strizzò le tette e la fica. Questa volta Janet capì benissimo quando iniziò a eiacularle dentro, gemendo di piacere.
Lo raggiunse subito dopo, gridando. L’orgasmo la scosse tutta, la fece pulsare e contrarre, la fece ansimare e mugolare. La sua fica si riempì di umori e Balistreri le atterrò sulla schiena, senza fiato.
«Non lo so... come sei... come agente federale, Bellini... ma hai la passera... come un guanto».
Janet sospirò. Se lo sentiva ancora dentro. Si sentiva il culo tutto umido e la fica ancora aperta. Una delle mani di lui era chiusa su uno dei suoi seni... e le piaceva.