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Antonia Darren sbarcò per la seconda volta in Harbat in una serata ventosa. Aveva viaggiato con un nutrito gruppo di reclute e in alcuni momenti il volo era stato simile a una gita scolastica.
Sentire l’eccitazione a stento repressa di quei giovani soldati e soldatesse faceva provare ad Antonia una strana sensazione. Invidia, da un lato, per la loro innocenza; preoccupazione venata di irritazione dall’altro, perché presto quei ragazzini avrebbero scoperto la realtà delle cose. Alcuni di loro sarebbero stati consumati dalla continua tensione, dalla continua paura, altri sarebbero morti. Antonia ricordava di essersi sentita come loro, alla prima ferma. La possibilità di morire le sembrava così remota da essere quasi eccitante.
Per questo non riusciva che a considerarli giovani, giovanissimi, nonostante avessero più o meno la stessa età.
Ma lei era già stata lì. Era tornata a casa dopo un periodo passato in un grande ospedale militare in Ellenza, i più grandi alleati delle Svetlands nella missione di peace keeping, era stata trasferita, trasferita ancora, aveva fatto un nuovo corso e ora veniva risputata indietro, come se la polvere dell’Harbat fosse il suo destino.
Fu sbarcata dal volo e caricata su un pullman insieme alle reclute. Ognuno con la sua sacca di ordinanza. Sorridenti e sbruffoni loro, seria e silenziosa lei. Qualcuno le aveva rivolto la parola o fatto domande di cortesia, ma avevano presto capito che preferiva non parlare.
O forse pensavano che volesse stare sulle sue, che non volesse mescolarsi con loro, dato che lei era della Military Police. Lo diceva la toppa sulla sua spalla, con il motto del corpo: Assistere, Proteggere, Difendere.
Il pullman arrivò alla base loro assegnata che il sole era già calata.
L’ordine di servizio di Antonia diceva che il suo primo compito era fare rapporto all’Agente Speciale per le Indagini Criminali Hiram Reich, il responsabile dell’unità alla quale era stata assegnata.
Non aveva idea di dove trovarlo, quindi appena scesa dal pullman pensò di chiedere a qualcuno.
«Agente Darren?».
Antonia si voltò di scatto.
Un soldato la stava aspettando in posizione di riposo. Era un uomo alto, sui trentacinque, dai tratti aquilini, gli occhi piccoli e chiari, i capelli castani tagliati cortissimi sotto il berretto dell’uniforme da campo. I gradi le dicevano che era lui il suo superiore.
Antonia gli rivolse il saluto, al quale lui rispose in modo formale, per poi tenderle la mano.
«Sono Hiram Reich. Ho pensato che si sarebbe persa se non fossi venuto a prenderla».
Antonia gli rivolse un sottile sorriso grato.
«È molto probabile, signore».
«Prego, mi segua» disse lui, mettendosi in moto.
Antonia si caricò sulla spalla il pesante borsone con tutto l’equipaggiamento. Dal suo superiore ovviamente non venne nessun cenno di volerla aiutare.
A volte qualcuno che si offriva di aiutare le soldatesse c’era: gli imbecilli o quelli che speravano di portarti a letto. Antonia era felice che il suo superiore non avesse immediatamente dimostrato di essere uno dei due. Le era già successo più volte.
«Siamo una piccola unità di recente formazione, quindi ambientarsi non le sarà difficile. A parte lei ci sono altri tre agenti semplici, di diversa anzianità. Ho appositamente chiesto al comando che mi mandassero un’altra donna, per i problemi culturali che può intuire».
Reich parlava in tono tranquillo e serio, a voce bassa, quasi con gentilezza. Camminava senza fretta, ma senza avere esplicitamente intenzione di aspettarla. Anzi, dato che Antonia era molto più bassa di lui, per stare al passo con le sue lunghe falcate doveva affrettarsi.
La condusse fino a un edificio basso e chiaro, un edificio amministrativo. La accompagnò lungo un corridoio e poi in una stanza.
«Signora Hive? Le sarei grato se registrasse l’agente Darren, qua».
La donna dietro la scrivania alzò gli occhi su di lui.
«Oh, SA Reich. Le hanno finalmente mandato un altro agente?».
«Proprio così».
Si voltò verso di lei.
«La signora Hive le fornirà il badge e la registrazione. Le indicherà la strada per il dormitorio della nostra unità. Ci vediamo domattina alle sette nel mio ufficio. Agente Darren... è un piacere averla a bordo».
Detto questo, Reich le strinse la mano e la lasciò lì.
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Venti minuti più tardi bussava alla porta del dormitorio 302. Si trovava in un edificio separato da quelli usati dalle truppe, a poca distanza da uno degli spacci, quasi sul perimetro esterno della base.
«Avanti!» gridò una voce femminile.
Antonia entrò.
Il dormitorio era piccolo, diviso in due da un muro divisorio. In entrambi gli ambienti c’erano tre letti a castello e un’ulteriore porta. In quello di destra, due occupanti in maglietta e pantaloni del pigiama, in quello a sinistra una ragazza rossa circa della sua età.
«Ehm. Ciao» disse, un po’ a disagio.
La ragazza rossa si alzò dal suo letto. Portava una t-shirt e dei pantaloncini da notte ed era lievemente sovrappeso.
«Ciao. Io sono Amy LeRoy. E tu devi essere la recluta».
Aveva un bel sorriso e le diede una stretta calorosa alla mano.
«Già. Antonia Darren. Tony».
«Ciao, Tony. Questi sono Mitch Calogero e Santo Diaz. Vieni, puoi scegliere una branda qualsiasi nella nostra metà del dormitorio».
Mentre parlavano uno dei loro commilitoni era saltato giù dal secondo piano di un letto, mentre l’altro era già sdraiato e si era limitato a un cenno distratto della mano.
«Ciao, Darren. È un piacere. Santo sono io».
Ci fu un’altra stretta di mano.
«Quindi il capo ha avuto quello che voleva, eh?» commentò Amy LeRoy, tornando a sedersi. Si stava smaltando le unghie dei piedi, chissà per quale motivo. Non c’erano molte occasioni di mostrare i piedi, nell’esercito.
«Ha detto di aver chiesto appositamente un’agente donna. Per... mh, “intuibili problemi culturali”» confermò Tony, iniziando a tirare fuori le sue cose.
«L’hai già incontrato? Reich?».
Amy sembrava stupita.
«Già. È venuto a prendermi al pullman. Temeva che mi perdessi».
«Hai una concorrente, LeRoy!» giunse una voce divertita, da dietro il muro.
«Sei solo un deficiente, Calo!» replicò lei.
Tony non disse nulla. Erano scherzi tra loro e non voleva intromettersi. Ma Amy non sembrava considerare l’argomento privato.
«Non dargli retta. È un povero idiota invidioso. Quindi avrai notato che è fichissimo».
Tony sbatté le palpebre, colta un po’ alla sprovvista.
«Chi?» disse. Poi ci arrivò. «Suppongo che sia un bell’uomo» aggiunse, cauta. Non era nel suo carattere commentare così l’aspetto degli altri, ma non voleva nemmeno sembrare scostante.
«È la sua fissazione» giunse di nuovo la voce di Calogero, da oltre il muro. «A parte questo LeRoy è pure a posto».
Amy sospirò. «Non è una fissazione. È solo oggettivamente favoloso. Si potrà dire, no?».
«Ma certo. E poi Darren era l’unica a non saperlo ancora. Hai fatto bene ad aggiornarla come prima cosa».
Tony sorrise e mise le sue magliette in un armadietto.
«Mi sa che hai ragione» disse, a voce bassa. «È invidioso».
«Darren, ti ho sentita! Non è gentile parlare così di uno che ancora non conosci!».
Lei rise. «È vero, scusa».
Si sedette sulla branda ancora da fare. Amy sventolò una mano sul suo lavoro di pedicure per accelerare l’asciugatura dello smalto.
«Comunque è normale non restare fulminati dalla sua bellezza. È una di quelle cose che maturano piano-piano. Molto insidioso. Non ci cascare, anche perché Reich non è interessato».
«Avrà qualcuno» disse Tony, gentilmente.
«No, ma non è interessato e basta, né a me né a nessuno. Vedrai».
A Tony in fondo non importava così tanto, ma ridacchiò e promise che le avrebbe fatto sapere.
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«Prego, si accomodi».
La sala operativa della loro unità era nella parte anteriore dell’edificio in cui c’erano anche i dormitori. Era composta da un stanzone con qualche computer e una grossa piantina di Habra e dall’ufficio di Reich.
Tony si era presentata a rapporto alle sette-zero-zero come da ordini.
Si sedette davanti alla scrivania del suo superiore, aspettando che lui distogliesse l’attenzione dal monitor del computer. Stava bevendo una grossa tazza di caffè e le indicò una mensola con un gesto senza muovere gli occhi dallo schermo.
«Solo un secondo. Se vuole del caffè lo prenda».
Tony non lo voleva. Per quanto Reich sembrasse rilassato e amichevole era pur sempre un suo superiore e non aveva nessuna intenzione di sorseggiare una bevanda davanti a lui durante un colloquio formale.
Alla fine l’agente speciale spostò lo sguardo su di lei.
«Non è la sua prima volta, giusto?» le chiese.
«In Harbat? Nossignore. Ma non ero nella polizia militare».
Lui aprì una cartella.
«Sì, ho qua il suo stato di servizio. Ha firmato per il primo giro con la fanteria. È stata ferita a un fianco da un frammento di granata durante un’azione... mmh, otto mesi fa. Ha fatto richiesta di finire la ferma nei Military Police Corps... si è qualificata bene al corso di addestramento... ho qualche domanda a cui qua non c’è risposta, le dispiace?».
«Prego».
«È rimasta sconvolta? Dalla granata, intendo. O dalla... situazione?».
Tony era abituata a farsi scivolare addosso domande come quella. Rispondeva che era stato brutto, ma non poi così grave, che ora stava bene.
Ma Reich sembrava chiedere solo per saperlo, non per giudicarla. E rispondergli poco onestamente non era un bel modo per cominciare quella seconda esperienza.
«In un certo senso, signore. Le mansioni di un tempo... non sarei tranquilla nello svolgerle. Ma non avevo finito, qua».
Reich la guardò in silenzio per qualche secondo. Tony ebbe l’impressione che capisse benissimo.
«Sì, è difficile scollarsi questo posto di dosso» commentò, senza approfondire oltre. Poi aggiunse: «Ho apprezzato la sua sincerità, agente Darren. Se in futuro fosse a disagio con qualche compito, per favore, me ne parli. Nella mia unità cerchiamo di mantenere il machismo al minimo. Non si tratta di sensibilità, ma di prudenza. Spero che capisca che il suo lavoro con noi non è meno rischioso del precedente».
«Lo capisco, signore».
«Molto bene» sospirò Reich.
Chiuse il suo fascicolo e lo spostò da un lato.
«E suppongo che non sappia con esattezza a che cosa mi riferisco quando parlo di “lavoro”».
Tony si concesse un lieve sorriso.
«Non con esattezza, signore».
«Già. Uhm. Il nostro compito è duplice. Le nostre sono azioni di polizia. Indaghiamo sui crimini commessi nei confronti dei nostri uomini sul territorio harbattiano e viceversa».
Tony aggrottò la fronte. «Viceversa?».
Per la prima volta la bocca di Reich si incurvò in un sorrisino sarcastico.
«È evidente. Indaghiamo anche sui crimini che i nostri ragazzi commettono qua». Tornò serio. «Può immaginare da sola quali siano i più comuni. Per questo mi serviva un’altra agente femmina. Le donne harbattiane a volte sono difficili da avvicinare per un uomo. Abbiamo delle interpreti, ma ci sono occasioni in cui non è sufficiente».
«Capisco» mormorò Tony.
Non ci aveva pensato. O meglio, aveva preferito non pensarci, perché era proprio davanti agli occhi.
«Se questo per lei è un problema la farò trasferire a un’altra unità».
Reich l’aveva detto in tono gentile e Tony le fu grata per la sensibilità. Iniziava a capire come facesse Amy a essere così cotta di lui. Rispetto ad alcuni superiori che aveva avuto in passato sembrava un sogno.
«Non... credo, signore. Non ci avevo riflettuto. O meglio, non lo sapevo, anche se... potevo tranquillamente immaginarlo, ha ragione».
Reich prese un’altra cartelletta e gliela passò.
«Credo che potrebbe passare la giornata di oggi a leggere questi articoli. Dopo pranzo può uscire con Calogero per recuperare l’orientamento in città. Anche se per certi versi io non sono mai riuscito a orientarmi del tutto».
«È qua da molto?» chiese lei. Sperò di non essere stata indiscreta.
«Tre anni, ma dirigo questa unità solo da sei mesi. Prima ero un tiratore scelto».
Quasi involontariamente si portò una mano all’occhio destro, ma la abbassò subito.
«Ci conosceremo meglio in un altro momento» prevenne qualsiasi domanda. «Ora può andare, agente Darren».