3.

3444 Words
3. Il dolore le fece perdere conoscenza, alla fine. Venire sballottata su una sella dura, il sangue che le gocciolava dalla spalla, sotto l’ascella e tra i seni, il corpo del dhenesco dietro come un muro... tutti i muscoli doloranti e la testa leggera, che non riusciva a restare aggrappata alla realtà. Ripensò a sua madre, la vide accanto alla pentola, le erbe che bollivano sul fuoco, e il suo sorriso ogni volta in cui la guardava. A un certo punto il dhenesco rallentò. Si guardò attorno con aria tesa. Qualcosa non tornava. Le disse delle parole, ma Radina non capì. Un’ulteriore, vaga, preoccupazione si aggiunse a quelle che già aveva. Sua madre che pestava le radici, l’odore amaro nella loro piccola casa. La sua voce che parlava, dolce e allegra... Alla fine svenne e basta. Si risvegliò sempre per il dolore. Il capitano la stava posando a terra con un grugnito. Il mantello le scivolò via dal corpo e Radina cercò di ricoprirsi usando il braccio ancora sano. Il dhenesco scosse la testa, come a indicarle che avevano altri problemi. Radina si guardò attorno. Non sapeva quanto tempo fosse passato, ma probabilmente non molto. Erano all’interno di un rudere di pietra, un ambiente quadrato dalle mura fatte di sassi incastrati a secco e il cui soffitto doveva essere crollato anni prima. Il pavimento era di lastre piatte, tutto considerato non sporche. Il punto in cui erano era in ombra, perché attorno a loro c’erano degli alberi, ma il sole illuminava comunque ogni angolo dell’ambiente. E c’era un rumore... il rumore spumeggiante di un torrente o qualcosa del genere. Il dhenesco le ruotò il mento fino a farsi guardare di nuovo. Non fu un movimento gentile, ma neppure troppo brusco. Radina guardò nei suoi occhi un po’ arrossati e un po’ preoccupati, poi i lineamenti rapaci, il mento su cui iniziava a ricrescere la barba, le labbra sottili e screpolate... «Alek» le disse. «A-Alek.... tuo nome» mormorò lei. Lui annuì. «Bene. Ora... tanto, tanto male» le spiegò, in un linguaggio telegrafico che riuscisse a comprendere. Radina lo sapeva fin troppo bene. Le diede qualcosa da mordere. Un fazzoletto o un pezzo di stoffa di qualche tipo. Vide che aveva in mano uno strumento metallico... un oggetto dalla forma insolita, che pure associava a quella delle comuni forbici. Erano come forbici al contrario e capì... capì con orrore misto ad ammirazione... che era un oggetto che i dheneschi si portavano dietro proprio per rompere frecce eventualmente conficcate nel proprio corpo. Alek, lì, lo mise a cavallo dell’asta della freccia, tenne fermo l’impennaggio con l’altra mano... e la chiuse. Si sentì uno schianto secco e il dolore colpì Radina alla spalla forte come quando era stata colpita, facendola gridare. «Non finito. Molto lungo» disse Alek, senza pietà. Le salì praticamente sopra. Le fece ancora più male e le fece anche paura, sebbene, dopo qualche secondo, Radina capisse che intendeva solo tenerla ferma. Le sfilò il moncone di freccia lentamente, millimetro dopo millimetro, tenendola bloccata a terra con il proprio corpo. Lo fece per evitare che delle schegge le rimanessero nella ferita e per impedirle di farsi male da sola dibattendosi, ma in quel momento Radina riuscì solo a gridare con voce sempre più acuta e straziante. Alek la sentiva sobbalzare sotto il suo corpo, devastata dal dolore. Gli era già successo di estrarre così una freccia da un commilitone, sapeva che sarebbe stato tremendo, ma non l’aveva mai fatto con una donna. Quando sentì il calore della sua urina sulla coscia provò la tentazione di strappare la freccia e abbreviare così il suo tormento, ma riuscì a trattenersi. Sudava a sua volta, tutti i muscoli tesi a bloccare lei e a fare uscire l’asta di legno il più lentamente possibile. Alla fine, se gli dei vollero, l’ultimo pezzo di asta fu estratto. Radina piangeva e gemeva di dolore, dibattendosi ormai più debolmente. Alek scostò quel che restava del suo vestito e si alzò barcollando. Era sporco del sangue di lei, del suo sudore e del proprio, forse persino delle sue lacrime. Andò al ruscello e prese una tazza di acqua gelida. La gettò sulla ferita della namdvariana e lei sobbalzò e rabbrividì. Lo fece due o tre volte, fino a pulirla. Rivoli d’acqua ghiacciata le corsero tra le piccole tette dure, facendole ritrarre i capezzoli. Il modo in cui continuava a piangere, il dolore che esprimeva il suo viso, fecero muovere qualcosa dentro Alek. Una pietà che non credeva neppure di poter più provare. Le scostò dalla faccia i capelli incollati dal sudore. Le mostrò la sua fiaschetta. «Guarda. Dolore. Poi basta» le disse. Quando le versò l’alcool sulla ferita il lamento di lei gli fece stringere il cuore nel petto. Da quel momento in poi i ricordi di Radina erano frammentari, come se fossero stati filtrati da un setaccio e mescolati tra loro. Ricordava che il dhenesco le fasciava la spalla. Poi che le sfilava del tutto il vestito ormai inutile. Ricordava le sue mani che la lavavano quasi gentilmente, la ripulivano dal sangue e dal sudore una tazza d’acqua del ruscello per volta. Ricordava il tocco delicato tra le sue gambe, una cosa che in quel momento non aveva compreso, ma che non l’aveva spaventata. Le aveva bloccato il braccio contro il seno, per poi avvolgerla stretta in una coperta di lana pungente. Poi, frammenti. Il dolore sordo e pulsante alla spalla. Un’immagine del dhenesco che si lavava a sua volta, in ginocchio nel ruscello come se pregasse. Poi il freddo e i brividi, il calore e gli incubi. Quando si era risvegliata Alek non era lì. Concentrandosi, Radina non riusciva neppure a sentire il suo cavallo che sbuffava o muoveva la coda per scacciare le mosche. Se n’era andato? L’aveva lasciata lì, avvolta in quella coperta come un bruco nel suo bozzolo, ferita e senza nulla? Be’, in fondo era un dhenesco, un invasore, ma fino a quel momento a lei non aveva fatto nulla di male. E lei l’aveva aiutato, alla taverna. Perché ora era scomparso, dunque? Si addormentò di nuovo. Non poteva fare nient’altro... non riusciva a fare nient’altro. Quando riaprì gli occhi era notte e si stava avvicinando qualcuno. Radina sentiva gli zoccoli di un quadrupede, ma non era il cavallo di Alek. Quella era una bestia alta e terribile. Questo, a giudicare dal rumore... La sagoma che vide oltre il muro semi-diroccato era quella di un ciuco. Rimase in silenzio. Era una notte buia, forse quel nuovo visitatore non si sarebbe accorto di lei. Sperò che volesse solo fare una sosta, non accamparsi, perché altrimenti il mattino dopo l’avrebbe notata di sicuro e... Scorse la sagoma del visitatore. Il busto a forma di V, le lunghe gambe, i capelli che spiovevano ondulati attorno alle spalle. «Alek?» disse, a voce bassa. Lui si voltò. La raggiunse con un paio di lunghi passi, scavalcando il muretto diroccato. Si accucciò accanto a lei e le scostò i capelli dalla fronte con gentilezza. Disse qualcosa che Radina non capì. «Cosa?» disse, in dhenesco. Lui sospirò. «Radina dove?» spiegò. Al buio non la trovava più. Lei si trovò a sorridere. «Radina qua». «Sì, sì». Le toccò la fronte, come a sincerarsi che non scottasse. Poi stese il proprio mantello e si allungò accanto a lei, su un fianco. «Devo dirti una cosa importante. Come faccio, visto che capisci poco e niente della mia lingua?» Sospirò. «Capire?» «Importante» ripeté lei. Era quella l’unica parola che conoscesse, ma sarebbe bastata la sua espressione a dirle che doveva parlarle di qualcosa di serio. «Sì, importante. Guerra. Capito?» Lei sbatté le palpebre. «Guerra?» «Tutto attorno. Guerra. Namdvara contro Dhenes». «Ah!» fece lei, in tono di sfida. Alek sbuffò. «Sì, sì. Namdvara libera, capito? Ma domani. O dopodomani. Ora guerra». «Capito. Ah!» Lui sopirò. Si passò una mano tra i capelli. Stanco, angustiato. «Sì, capisco anch’io. So che sei felice. Ma ora ci sono combattimenti dappertutto ed è... pericoloso, no? Per me, ma anche per te». Radina aggrottò la fronte. Non aveva capito quasi nulla, solo il tono. Poi le venne in mente la cosa più ovvia. «Tu, guerra? Spada?» «Avrei dovuto, sì. Se non fossi stato in una locanda a farmi rammendare da te sarei stato chiamato a combattere. Ma non mi hanno trovato... quindi ora mi considereranno morto o disertore». Lei lo guardò in silenzio. Non aveva capito nulla, se non il tono amaro. Tirò lentamente fuori dalla coperta la mano libera. Gli sfiorò una guancia e la sentì bagnata. «Paura?» «Se mi trovano mi ammazzano. No, non ho paura, stupida. Non è giusto. Sono nato per combattere... non è giusto venire ucciso come un vigliacco dalla mia stessa gente». Lei gli sfiorò di nuovo la guancia. Non aveva capito il suo discorso, solo che era amareggiato e preoccupato. Doveva andare a combattere? Non sembrava. Forse... avrebbe dovuto. Forse ora era un... «Tlot». Era la parola dhenesca per collaborazionista e di solito si riferiva ai namdvariani che facevano la spia per i dheneschi. «Sì, be’... al contrario. Comunque... un traditore. Traditore, capito?» Lei annuì. «Traditore. Scusa». «Eh? No, che c’entra? Non è colpa tua. È successo prima». «Aiuto». Le sembrò di vedere una specie di sorriso amaro sul volto di lui. «Mi sembra ovvio. Ormai ti ho salvata da quel tizio, curata, lavata... ho anche del cibo e dei vestiti per te. È normale che ti aiuto. Sempre che non ammazzino tutti e due». Radina non capì, ma capì che lui non aveva capito. «Io aiuto» specificò. Si svegliò prima dell’alba. La spalla le faceva molto male e doveva andare in bagno. Alek dormiva accanto a lei avvolto nel suo mantello di pelle e, a giudicare dalla posizione in cui era, durante la notte doveva aver avuto freddo. Era tutto rannicchiato su se stesso, le braccia strette al petto. Anche i suoi lineamenti sembravano contratti, ma dalla preoccupazione, e sulla mascella la barba scura era ormai lunga mezzo centimetro. Quella notte l’aveva nutrita. Le aveva infilato in bocca piccoli pezzi di cibo come un uccello con i suoi pulcini ancora troppo piccoli per cacciare. Radina si era chiesta da dove gli venisse quella capacità di prendersi cura delle persone. Forse era così che si sarebbe comportato con un compagno d’armi ferito. In qualche modo le ricordava i discorsi che sua madre le aveva fatto sugli uomini, ormai una vita fa. Quando invitava qualcuno a restare per qualche notte con lei, nella loro piccola casa, e poi quelli se ne andavano sempre. Radina avrebbe voluto un papà, come le altre bambine. Sapeva che il suo vero padre era morto, ma avrebbe voluto un... sostituto, forse. Sua madre non la vedeva così. Le aveva spiegato con calma che stava bene da sola, che era sufficiente a se stessa e a lei. Quando aveva un uomo, era un amico con cui passava un po’ di tempo. Si aiutavano a vicenda, poi ognuno riprendeva la sua vita. “Devi imparare che ci sono degli uomini buoni. Uomini bravi e per bene. Uomini di cui fidarsi. Devi imparare a riconoscerli e ricordarti sempre che siete pari. Pari. Tu fai qualcosa per loro, loro fanno qualcosa per te. A nessuno è dovuto niente e a un certo punto ognuno andrà per la sua strada. Così è bello. Per quello che ne so io, in tutti gli altri modi diventerai una serva”. Allontanò il pensiero e si alzò lentamente, puntellandosi sul braccio sano, e si allontanò avvolta nella propria coperta. Era l’unico indumento che le restasse, a parte le scarpe, ma il dhenesco aveva nascosto in un anfratto del muro la sua sacca da viaggio. Orinò nell’erba alta fuori dalla casupola diroccata. Là sotto le bruciava tutto, ma sapeva che il brigante non era riuscito a violarla: aveva sentito con le dita che il sigillo era ancora intatto. Anche Alek se n’era accertato e Radina non era sicura di voler sapere il perché. O di volersi soffermare sulla cosa. Quando tornò indietro lo trovò con una mano appoggiata contro un muro e i pantaloni mezzi scesi. Stava orinando nel torrentello, con gli occhi ancora chiusi. Il rumore durò a lungo e Radina aspettò che finisse senza riuscire a distogliere lo sguardo dalla sua figura. C’era qualcosa di profondamente mascolino, in lui, di così mascolino da essere animale e provocarle sensazioni contrastanti: attrazione e repulsione, fascinazione e lieve disgusto. Ogni suo movimento sembrava quello di una bestia selvatica, misurato, efficiente, privo di tenerezza e pietà. Ma il giorno prima era stato gentile, con lei, e, anche se apparteneva al popolo dei loro oppressori, Radina provava gratitudine nei suoi confronti. Ignaro delle riflessioni di cui era oggetto, Alek si diede una scrollata e si riallacciò i pantaloni. Si voltò e vide la namdvariana, pallida e barcollante vicino alla ex-porta della casupola, avvolta solo in parte nella coperta nella quale aveva dormito. «Aspetta» le disse. La sorresse per il braccio sano e la aiutò a sedersi. Andò a prendere i vestiti che si era procurato per lei. L’aria del mattino era ancora fredda, così Radina non si liberò del tutto della coperta, mentre lui la aiutava a indossarli. Quel vedere-e-non-vedere del suo corpo bianco e sodo fece affluire con prepotenza il sangue al membro di Alek, come in precedenza non gli era mai successo, neppure quando l’aveva vista completamente nuda. Il cazzo gli si gonfiò in modo doloroso, costretto dai pantaloni di pelle. Continuò a comportarsi come se nulla fosse, sperando che lei non se ne accorgesse. Radina, da parte sua, fece ben attenzione a non dimostrare di averlo notato, ma le tornò in mente l’immagine della spessa asta bruna di lui e l’idea, con suo vago sconcerto, la fece inumidire tra le gambe. Quando lei fu vestita, Alek la accompagnò fino all’asino. Radina immaginò che si fosse liberato del cavallo perché lo identificava subito come soldato dhenesco. Per lo stesso motivo, notò, Alek aveva arrotolato strettamente il proprio mantello di pelle e ne aveva indossato un altro di tela grigia. Radina lo tirò per un gomito e lui si voltò dalla sua parte. «Cosa?» domandò, spazientito. Lei posò la mano sul pomo della spada di lui. Alek chiuse gli occhi. «Ah, dannazione». Radina gli slacciò il cinturone. Aveva ragione lei, ovviamente, la spada l’avrebbe tradito. Ma in quel momento sentire le sue mani sulla fibbia gli procurò una seconda erezione, dolorosa e improvvisa. Non riaprì gli occhi. Aspettò solo che lei finisse. Radina prese tutto l’insieme di cintura, fodero e spada e li avvolse strettamente nella coperta in cui aveva dormito. Sapeva che Alek in quel momento stava soffrendo le pene che soffrono gli uomini focosi quando sono frustrati, ma non poteva aiutarlo. L’idea un po’ le ripugnava e un po’ la riempiva di una soddisfazione sciocca e vanitosa. Affibbiò la coperta al ciuco, poi lui la aiutò a salire. «Tu... mia casa. Darte» gli spiegò. Alek sembrò indeciso. «Quant’è lontana?» chiese. Radina gli mostrò due dita: due giorni di cammino a piedi. «Guerra» le ricordò lui. Radina disegnò con la mano una linea dritta, poi ne tracciò un’altra curva. «Sì, passeremo per strade secondarie» disse Alek. «Ma non è detto che riusciamo ad arrivare a Darte». Lei disse qualcosa nella sua lingua, alzando gli occhi verso il cielo e segnandosi il petto. Alek riconobbe il nome della loro divinità, Kalte. Annuì, perché in effetti erano nelle mani degli dei. Radina sfiorò appena il suo fianco e inarcò le sopracciglia. «Sto bene» tagliò corto lui, anche se la sua ferita alla schiena non era per nulla guarita. Semplicemente, era un soldato: aveva imparato a ignorarla. A quel punto Radina gli posò una mano sulla bocca. «Io parlo» disse. Alek annuì di nuovo. «Come pensi di trovarla?» chiese Therv, con aria scettica. Nell’ultimo giorno erano stati più che altro occupati a evitare le truppe dhenesche e i manipoli di rivoltosi namdvariani, giudicandoli entrambi egualmente pericolosi. I primi li avrebbero uccisi sul posto, i secondi avrebbero potuto pretendere che Oray si unisse alla lotta. Oray era un giovane assennato e dentro di sé si sentiva piuttosto cavalleresco, ma non era certo un uomo d’azione – come purtroppo aveva già dimostrato più volte. Proprio per questo suo padre non capiva perché continuasse a insistere con la viandante che avevano conosciuto. «Non possono essere andati molto lontano» disse lui, stringendosi nelle spalle. «Lei era ferita e anche lui». «O così ha detto la tua amica. A me non è sembrato molto ferito, ieri!» brontolò il vecchio. «Ricordamelo: ti ho già detto che non lascerò Radina con quella bestia?» ribatté Oray, bellicoso. Therv sospirò. «Mio figlio è impazzito». Oray non gli badò e tornò a guardare il sentiero sotto di loro. Avevano già battuto buona parte delle strade delle vicinanze... prima o poi li avrebbero individuati. «Tu aspetta solo che la ritrovi, al resto ci penso io». «Ma sentitelo! Al resto ci penso io! Quando ti sei trasformato in un grande cavaliere, eh?» sbottò Therv. «Non sei nemmeno riuscito a non farti scappare il cavallo!» Pelridge guardò dall’uno all’altro, in silenzio. Therv gli accarezzò i capelli. Oray, la mascella contratta, era pronto a difendere le sue scelte a oltranza, ma era anche teso e spaventato. In fondo che non fosse un grande cavaliere era vero. Non aveva neppure una spada. E si era lasciato scappare il cavallo, d’accordo. «L’ho capito appena l’ho vista, come spiegarlo?» Therv fece una smorfia. «Non ce n’è bisogno. Guarda, c’è qualcuno sul sentiero!» Si fermarono a osservare, dimentichi della discussione. Era vero, due figure stavano avanzando lungo in sentiero, più in basso, venendo nella loro direzione. I tre si affrettarono a nascondersi oltre il limitare del bosco. «Uno è lui, ne sono sicuro!» sussurrò Oray, acquattandosi nell’ombra. «Fammi guardare» mormorò suo padre. Si appoggiò a un tronco e si sporse verso il basso. «Quella sull’asino è una donna». «Radina!» I due viaggiatori si avvicinarono al passo. Avanzavano affiancati, chini in avanti e, Oray ne aveva la netta impressione, pronti alla fuga. Data la situazione di caos che li circondava era perfettamente comprensibile. Finalmente furono vicini a sufficienza perché Oray fosse sicuro della loro identità. Abbandonò la protezione degli alberi, un po’ a disagio, e fece degli ampi gesti per farsi notare. Di primo acchito il dhenesco portò una mano alla vita, ma poi lo riconobbe a sua volta. Toccò il braccio di Radina con una familiarità che a Oray non piacque. «Amici?» Radina lo salutò debolmente con il braccio sinistro. Ora che Oray ci faceva caso, l’altro lo portava legato al collo. «Ciao. Che cosa ci fai qua?» chiese, in namdvariano. Oray arrossì. Poi desiderò morire per essere arrossito. «Siamo venuti a cercarti. Ci sono disordini. Be’, c’è una sollevazione. Avevamo paura che in sua compagnia...» un gesto teso nei confronti del dhenesco «...avresti avuto dei problemi». «Sì, in qualche modo mi ha spiegato quello che sta succedendo. E lui non era al suo posto, quindi immagino che sia un disertore o qualcosa del genere». Oray passò al dhenesco. «Tu non combatti con tua gente?» chiese al capitano. In quel momento, con un mantello di tela sulle spalle, la barba lunga e gli occhi arrossati, Alek sembrava un po’ meno terribile del giorno prima. «Non ero presente quando avrei dovuto. Quel che è stato è stato» rispose lui, stoicamente. Poi aggrottò appena la fronte. «La tua amica è ferita. Avete un posto sicuro dove portarla?» «Be’, nostra fattoria, a Opurne... ma è due giorni lontano». «Che cosa state dicendo?» li interruppe Radina. Oray glielo spiegò. Il dhenesco la toccò di nuovo sul braccio per attirare la sua attenzione. Era lo stesso gesto che Oray aveva già notato prima e ora lo innervosì ancora di più. Denotava decisamente familiarità. «Tu... andare con loro, Radina» scandì bene il capitano disertore, o quel che era adesso. «Loro ti tengono al sicuro». Lei scosse la testa. «Io aiuto te». Alek sbuffò. «Posso cavarmela da solo». Radina gli prese la mano, la strinse. «Tu salva me. Io aiuta te». Si voltò verso Oray e continuò, in namdvariano: «Spiegagli che mi sento in debito nei suoi confronti. Mi ha salvato la vita e ora, da solo, finirebbe ucciso. Deve venire con me». «Non credo che mio padre sarebbe molto felice di accoglierlo nella nostra fattoria...» disse Oray. Il vecchio non confermò, ma la risposta gli si leggeva in faccia. «Allora andremo a casa mia, a Darte. Era il piano iniziale. Durante il viaggio fingeremo che sia mio marito e una volta là...» «La nostra fattoria è più sicura» la interruppe Oray. Lanciò a suo padre un’occhiata implorante. Lui sospirò. «Va bene» acconsentì, con ben poco entusiasmo. Radina sorrise. «Bene. Siete molto gentili. Possiamo muoverci insieme... sarà più sicuro per tutti».
Free reading for new users
Scan code to download app
Facebookexpand_more
  • author-avatar
    Writer
  • chap_listContents
  • likeADD