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Soldati di ventura

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Blurb

Il nemico: Da quattro anni la Namdvara è sotto il giogo degli invasori di Dhenes. La conquista delle placide vallate namdvariane è stata brutale e i nemici non hanno risparmiato efferatezze e violenze. Quando uno degli invasori, durante una tempesta, entra in una locanda e trascina con sé in una camera una viaggiatrice, Radina, tutti pensano al peggio... ma nessuno fa nulla per difenderla. In realtà Alek, il nemico che l’ha obbligata a seguirlo, è solo ferito. A gesti le fa capire di aver bisogno del suo aiuto e Radina non riesce a rifiutarsi curarlo. Il corpo di Alek, snello e muscoloso come quello di un cane da caccia, la riempie di turbamento. Il giorno dopo ognuno se ne va per la sua strada, ma il gruppo di viandanti con cui viaggia Radina viene assalito da dei banditi. Nel frattempo nelle pacifiche valli di montagna è scoppiata la ribellione e gli invasori vengono cacciati. Alek dovrebbe combattere con i suoi uomini, ma si trova di nuovo davanti la ragazza dagli occhi gentili che l’ha aiutato nonostante fosse il nemico... e ora è lei ad aver bisogno di aiuto...Fatto per uccidere: A Grad cade la neve quando Sophia, su un binario della stazione ferroviaria, lotta con tre uomini che vogliono sopraffarla. Un treno passa sbuffando vapore – forse per lei è la salvezza! – ma no, rallenta e basta, non si ferma. Quando ormai tutto sembra perduto, la porta di un vagone si apre e due mani sconosciute la traggono a bordo. Sophia è sfuggita ai suoi aggressori, ma chi l’ha salvata? Tjark Vinter sembra un gentiluomo, ma sul suo viso una cicatrice rivela che ha combattuto nella Guerra dei Sospiri, dieci anni prima. Sophia scoprirà presto che la guerra gli ha lasciato ben altre cicatrici, dato che Vinter è uno dei pochi maghi da combattimento rimasti in circolazione, uno dei pochi a padroneggiare arti ormai inutili, in tempo di pace. E quando verrà a sapere che è stato arrestato dovrà ricambiargli il favore e salvargli la vita, perché le autorità vogliono cancellare dal mondo lui e il suo segreto... un’abilità che lo rende una perfetta macchina da guerra, ma che gli impedisce di dimostrarle tutta la passione che prova per lei.Per soldi o per amore: Lerer sta viaggiando in carrozza verso il proprio matrimonio, un matrimonio politico che ha ogni intenzione di boicottare. Quando il suo convoglio viene assalito da un drappello di mercenari in un primo momento pensa che la sua fine sia vicina. Freddamente, prova a concedersi solo al loro comandante per evitare di venir passata tra tutti gli altri, ma presto scopre di aver sbagliato a giudicare quegli uomini – e il comandante in particolare. Sareth ha un codice, un codice a cui cerca di attenersi sempre: portare a termine gli incarichi, prendere soldi da un solo committente per volta, non sgozzare innocenti se è possibile evitarlo, non derubare i civili, non distruggere per il gusto di farlo. Lerer è costretta ad ammettere che il suo codice è molto più nobile di quello dei nobili di nascita... e che Sareth è un uomo migliore di qualsiasi marito la sua famiglia potrà mai imporle.

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1.
1. Arriva insieme alla notte. Infagottato in abiti scuri, con la pelle viscida di pioggia e i capelli che gocciolano. Negli abiti dell’invasore. Entra e, nel silenzio che si è creato, si strizza le lunghe ciocche nere con le mani. Rimane presso la soglia, una piccola pozza d’acqua si forma attorno ai suoi piedi. Gli avventori della locanda lo guardano tutti. Non era l’effetto che voleva ottenere, chiaramente, ma se lo aspettava. Radina si fa piccola-piccola, cercando di non farsi notare quando lui la guarda. Alek è stanco, bagnato, ed è obbiettivamente oltre qualsiasi ulteriore forma di prudenza. Si getta un lembo fradicio del mantello dietro alle spalle e avanza in mezzo ai tavoli. Lo guardano. Che lo guardino pure, pensa. Non ha mai sperato di potersi fermare per la notte senza che nessuno si accorga di lui. Si avvicina al tavolo dove Radina sta consumando un anonimo pasto, avvolta in un’anonima veste, e la solleva per un braccio senza pronunciare una parola. Le sue mani sono fredde e scivolose, il suo sguardo è distante, i modi sono spicci, quasi bruschi. Radina lo segue incespicando. Viene trascinata verso le scale, poi su per gli scricchiolanti gradini di legno. «Cosa vuoi?» grida, alla fine. «Cosa vuoi da me?» Il dhenesco non risponde. Capisce la sua lingua a sufficienza da intuire che cosa abbia detto, e anche in caso contrario non ci vorrebbe di certo un genio a indovinarlo. Ma non le sa rispondere e comunque lei non si fiderebbe. Quindi continua a trascinarsela dietro. Nessuno degli avventori muove un dito per aiutarla. Fissano la scena, incapaci di distogliere lo sguardo, ma paralizzati dalla paura. Man mano che le scale salgono diventano più fredde e più buie. La mano di Alek è di pietra, stretta sul braccio di Radina. Per quanto lei scalci, non cede di un millimetro. Si arresta davanti a una porta chiusa, la porta di una stanza per gli avventori che desiderano fermarsi per la notte, e la apre con una leggera spinta delle dita della mano che non è impegnata a stringere Radina. La trascina dentro e l’uscio si chiude con un tonfo dietro di loro. «Dovremmo fare qualcosa» disse Oray, alzando lo sguardo sul padre. Il vecchio distolse gli occhi e rimestò nella ciotola con il cucchiaio. I suoi grandi baffi bianchi fremettero, mentre bofonchiava: «E che cosa? Ti vuoi mettere contro uno di quelli?» «Chi era?» chiese Peltridge, a metà strada tra la paura e l’eccitazione. Era ancora negli anni in cui tutto è una grande avventura. «Chi era, Oray? Tu lo sai?» «Zitto!» lo rimproverò il vecchio, dandogli uno scappellotto dietro alla nuca. Non molto forte, solo per inculcargli un po’ di prudenza. «Non sono sicuro» disse Oray. «Non uno della truppa, ma non so se è un capitano, un signore o che cosa». «Stai zitto, stupido di un figlio!» ripeté il vecchio, con urgenza. «È un capitano. Hanno tutti quei mantelli di pelle, li usano per coprire le armi. E i signori non sono mai da soli... avrebbero paura» disse una voce estranea, accanto a loro. Si trattava del viaggiatore che era seduto all’altro capo del tavolo. Indossava una veste verde, lisa ma ben tenuta, con il cappuccio alzato fin sopra la testa. Il viso era in ombra, ma le mani, abbronzate e nodose, facevano pensare a un uomo sui cinquant’anni. Oray scosse la testa, cupo. «Bisognerebbe fare qualcosa» insistette. Lo sconosciuto ridacchiò. «Come farsi accoppare, per esempio? Questa idea ti stuzzica, cucciolo?» «Ascolta almeno lui, se non vuoi ascoltare tuo padre» borbottò il vecchio. «Anche ponendo di attaccarlo tutti insieme – e ti assicuro che i capitani lottano come diavoli – e di sopraffarlo... domani arriverebbero soldati come cavallette e farebbero passare un guaio a tutti. All’intero paese, forse a tutta Namdvara. Ne vale la pena? Per la fichetta sporca di una viandante?» Il vecchio tappò le orecchie al ragazzino. «Non ascoltare, Peltridge». Lo straniero emise una risata sgradevole. «È adulto abbastanza, nonno. Sono cose della vita». Indicò le scale con un cenno del mento irsuto. «Il capitano dhenesco, lì, sai perché ha tirato su quella donna?» Peltridge scosse la testa. «Perché non è così giovane da impressionarsi, ma non è così vecchia da ringraziare dopo aver provato la sua mazza. Mi sono spiegato?» «Non parlare così al bambino» intervenne Oray, anche se lo sconosciuto non stava dicendo nulla di nuovo. Ma caso fu ignorato. Sembrava che lo straniero fosse quasi compiaciuto all’idea di quello che stava succedendo al piano superiore. «Fanno così» continuò. «Tutti loro. Ai dheneschi piace un po’ di zuffa. A Resgate c’era questa balia... l’hanno munta come una mucca. Sul serio, eh. Nella piazza principale. Sono delle bestie». «Adesso basta» disse il vecchio, con una smorfia. Ma Peltridge non sembrava aver capito del tutto le parole dello straniero. «Avete visto la spada?» si intromise, più interessato a quello. «E chi non l’ha vista?» disse Oray, con una smorfia. «Sono di un metallo speciale, lo sapevi, ragazzino?» raccontò lo sconosciuto, piegandosi verso di lui, come a fargli una confidenza. Le armi parevano interessargli quanto le ragazze munte come mucche. Pelridge spalancò gli occhi. «Quale metallo?» «Una lega dura, ottenuta con il minerale del nord. Per questo le nostre lame si spezzano così facilmente, se si incrociano con le loro. E magari anche per altri motivi, non dico di no. Siamo sempre stati pacifici, al di qua del fiume. Loro hanno la guerra nel sangue. La violenza. È sempre la stessa cosa, no? La sfogano su tutto quello che respira, siano soldati nemici, contadini o fichette. A Jander sono già nati bastardi a frotte. Ci danno dentro senza risparmiarsi. Strano che non si sentano ancora dei rumori». «Ti interessano proprio, le loro abitudini di monta» commentò Oray, con una smorfia. «Quando un dhenesco ha i pantaloni calati è l’unico momento in cui puoi accopparlo» spiegò lo straniero, pratico. «Dovremmo fare qualcosa per quella donna,» ripeté Oray. «Non c’è niente che tu possa fare, ragazzo» disse lo sconosciuto. E il vecchio aggiunse: «Proprio niente, a parte andare a chiamare un medico. Nel caso sopravviva». La porta non era stata solo chiusa, era stata sbarrata. Radina aveva visto il dhenesco bloccarla con una pesante spranga di ferro. Alek le lasciò il braccio e andò alla finestra. Sbarrò anche quella, scrutando nella notte di tempesta con occhi arrossati. Non c’erano tende da tirare, pertanto chiuse gli scuri. Fuori la pioggia e il vento fischiavano tra le montagne. «Pietà, mio signore…» iniziò a piagnucolare Radina, con la schiena contro la porta. Il dhenesco non la ascoltò. Prese un nuovo ciocco e lo gettò nella brace del camino. La legna era umida, e quando prese fuoco sibilò ferocemente. Alek si voltò e osservò la sua preda. Era una giovane di poco più di vent’anni, con i capelli ramati e il viso a forma di cuore. Era vestita in modo povero, ma con pudore. Il suo abito azzurro aveva qualche rammendo, il fazzoletto era un po’ stinto dal sole, le scarpe erano state usate a lungo. «Senti...» disse, nella sua lingua, inarcando un sopracciglio nero. La sua voce era stanca, roca. Radina si rannicchiò contro il muro. Alek scosse la testa. Sapeva fin dall’inizio che parlarle sarebbe stato inutile. Si sfilò il mantello e lo appese accanto al camino. Si passò le dita tra i capelli, ritraendole gocciolanti. Sul letto c’erano due asciugamani lisi. Ne prese uno e iniziò a strofinarsi la testa. Radina lo osservò con espressione inorridita. Sotto il mantello buona parte dei suoi abiti scuri era bagnata. Alla luce incerta del camino mostrarle quello che voleva mostrarle senza sembrare minaccioso sarebbe stato impossibile. Ad Alek non importava neppure, in realtà. Sarebbe solo stato più pratico, pensò, con un sospiro mentale. Le diede le spalle e iniziò a slacciarsi il giustacuore. Non c’era altro modo. Solo restare in piedi gli costava una discreta fatica e ora quella donna avrebbe pensato che voleva dormire con lei. Per così dire, aggiunse mentalmente, con un sorriso cupo. La sentì singhiozzare più forte. Altre parole dal suono incomprensibile, ma dal significato fin troppo chiaro: non farlo. Alek non voleva fare proprio nulla. Voleva che lei facesse qualcosa per lui e stava cercando un modo per farglielo capire. Alla fine riuscì a slacciarsi il giustacuore di pelle nonostante le dita rigide e scivolose. Se ne liberò, lasciandolo cadere a terra. La namdvariana piangeva in silenzio, ora. Forse rassegnata. Alek cercò di sollevarsi la camicia sulla schiena. Era bagnata di acqua e di sangue, nera. «Donna» la chiamò. Cercò di richiamare alla mente le poche parole che conosceva nella lingua di lei. Dato il suo ruolo, non gliene servivano molte. «Dammi» provò. La donna alzò la testa. Disse “no” diverse volte, in tono quasi calmo, quasi ragionevole. Ad Alek danzavano davanti agli occhi delle macchie nere e l’ultima cosa che voleva era rotolarsi sul letto con quella namdvariana spaventata. «No» ripeté, nella lingua di lei. E poi: «Dammi occhi». Era una frase piuttosto inquietante, ne era sicuro, ma era anche abbastanza strana perché lei uscisse dall’idea ossessiva che lui stesse per stuprarla. Cercò di sollevarsi la camicia, di mostrarle la parte bassa della schiena e del fianco. Radina socchiuse gli occhi. La luce era insufficiente, ma ora vedeva che i pantaloni del dhenesco non erano intrisi solo d’acqua. «Sei ferito?» gli chiese. Lui tornò ad avvicinarsi, la lunga spada che gli dondolava al fianco. Passi lenti e un po’ strascicati. Tornò a sollevarsi la camicia. Si voltò su un lato. Radina deglutì. «Sì, ho capito. Hai una ferita». E cercava aiuto, come se nulla fosse. Come se la sua gente non li avesse combattuti, come se non avessero bruciato le loro fattorie e stuprato le loro donne... con entusiasmo infinito... e non avessero ucciso qualsiasi protesta, e non li stessero soffocando di tasse, decime e ruberie. Lui la prese di nuovo per il polso. Per quanto fosse ferito, era comunque molto più forte di lei. La sollevò senza sforzo e la tirò più vicino. Si slacciò i pantaloni tenendola ferma per il braccio, strattonandola. Radina si divincolò di nuovo. «Dammi occhi» ripeté lui, estenuato. I lineamenti duri, tipici dei dheneschi, erano resi ancora più incavati dalla sofferenza. «Sì, sì, ho capito» disse lei, riuscendo a liberare una mano. Toccò la sua camicia fradicia d’acqua e probabilmente anche di sangue. Aveva un odore acido, di bagnato, sudore, sporco... Alla luce guizzante del camino riusciva a vedere l’area insanguinata tra la schiena e il fianco di lui. Dato che si era slacciato i calzoni vedeva anche una parte di gluteo e, cosa di cui avrebbe fatto volentieri a meno, i peli fitti e neri del suo pube. Ora più calma, gli indicò il letto. Il dhenesco scosse la testa. «Devi stenderti» sospirò Radina. «Devo pulirti. Devo vedere». Ovviamente lui non capiva nulla delle sue parole. Lei lo spinse piano da quella parte. Lo accompagnò, come un asino verso la stalla. Quando si sedette, guaì di dolore e mise involontariamente in mostra tutta l’attrezzatura. Un membro scuro e spesso la cui vista quasi fece vomitare Radina. Lui si coprì con una mano e cercò di voltarsi su un lato. Radina fece per aiutarlo, ma si trovò la strada bloccata dalla sua mano: non si copriva più le vergogne, ma impugnava un coltello. Lei si allontanò di mezzo passo. «Solo Kalte sa quanto vorrei ucciderti, ma non sono proprio il tipo. Molla quel coltello. Voltati». Gli occhi di lui restarono per un attimo nei suoi, sospettosi. Alla fine ebbero la meglio la stanchezza e il dolore. Lo voltò a pancia in giù, i pantaloni abbassati a metà del sedere. Non fosse stato un dhenesco sarebbe sembrato ridicolo, ma gli invasori non erano il genere di individui che ti facesse venir voglia di scherzare. Radina gli sollevò sulla schiena la camicia bagnata. Doveva essere un capitano, avevano tutti dei mantelli di pelle scura come quello che si stava asciugando accanto al camino. La schiena era a forma di V, la pelle aderente ai muscoli, le vene, sul fianco, in rilievo. Era alto, snello, un cane da caccia fatto e finito. A Radina venne voglia di sputare, ma invece finì di togliergli la camicia e la usò per pulirgli la schiena e la natica dal sangue mescolato all’acqua. Il dhenesco disse qualcosa nella sua lingua gutturale, allungò una mano verso il giustacuore. Radina glielo passò. L’invasore frugò a fatica in una tasca interna. La pelle del suo torace era lucida di sudore, ma aveva la pelle d’oca. I peli neri del petto erano cosparsi di goccioline. Radina si rendeva conto che stava soffrendo. Non le importava. Non era abbastanza debole da poter essere sopraffatto. Sebbene ferito, era in grado di difendersi e farle del male. Quindi poteva solo aiutarlo, le piacesse o meno. E, se guardava dentro se stessa con onestà, Radina sapeva di non poter colpire in ogni caso un uomo ferito. Sua madre l’aveva allevata in un altro modo, non poteva ribellarsi al suo insegnamento proprio ora. Il dhenesco riuscì a tirare fuori un astuccio di pelle. Un necessario per il cucito, come quello che si portavano dietro molte donne (Radina compresa). Di nuovo, in un’altra circostanza sarebbe stato buffo: un uomo armato fino ai denti, con tutto l’aspetto di un capitano invasore, che aveva un astuccio per il cucito. Ma non faceva ridere. «Acqua» disse lui, nella lingua di lei. «Acqua» ripeté Radina, nella lingua di lui. L’invasore la guardò. Per un istante parve sorpreso. Annuì. Radina prese l’asciugamano che lui aveva usato per i capelli e finì di bagnarlo nel secchio. Lo strizzò sulla sua schiena, poi strofinò per ripulire la ferita dai grumi di sangue. Lui strinse i pugni e li riaprì, ma non gemette. I muscoli della sua schiena guizzarono sudati. Era davvero come un animale, ammise Radina, come un cavallo di razza lustro e scattante. Finalmente, nonostante l’illuminazione inadeguata, riusciva a vedere con chiarezza lo squarcio. Era un taglio un po’ sfilacciato che dalla schiena arrivava sul fianco. Non troppo lungo, forse una spanna, e non troppo profondo, forse un paio di centimetri. Ma aveva sanguinato. Prese l’astuccio con il necessario per cucire. Infilò un filo in un ago. «Ora dolore» gli disse, in dhenesco. Lui tirò di nuovo fuori il coltello. Lo posò sul letto accanto alla propria mano. «Ora attenzione» le disse, a sua volta in dhenesco. Radina annuì. Accostò i lembi della ferita e li trapassò entrambi con l’ago. Sgorgò altro sangue, che le rese scivolose le dita. Il capitano strizzò gli occhi e Radina vide i suoi muscoli contrarsi, sul collo e giù per la schiena, fino alle chiappe. Il modo in cui aveva stretto il culo per il dolore sarebbe stato una delle cose più buffe del mondo, se solo quello non fosse stato un assassino della sua gente. Così come stavano le cose, Radina provava una vaga soddisfazione. Era contenta che sentisse dolore, che a ogni punto gli si irrigidissero i muscoli e gli si stringessero le chiappe. La sensazione un po’ la fece vergognare. Inoltre... il dhenesco non le diede molto di cui compiacersi. Sopportò il procedimento con stoicismo, chiaramente avvezzo al dolore e alle ferite. Quando Radina ebbe finito usò l’altro asciugamano per bendarlo e lui si voltò con un grugnito. Di nuovo mise involontariamente in mostra la verga bruna e spessa, ripiegata, circondata da una peluria nera e fitta... Radina soffocò un conato e lui le rivolse un sorriso sardonico. Disse qualcosa nella sua lingua, ruotandole la faccia con la mano. Radina qualcosa di dhenesco capiva, dopo quattro anni di invasione, e le sembrò che le avesse detto qualcosa come: “se ti fa schifo non guardare”. Che era perfettamente sensato, se solo fosse stato facile non guardare qualcosa su cui gli occhi ti scivolavano da soli. In ogni caso lui si alzò e si tirò su i pantaloni. Se li allacciò e tornò a sedersi sul letto. Allungò una gamba verso di lei. Per qualche secondo Radina restò perplessa, poi capì che voleva che gli sfilasse gli stivali. Fece anche quello. Si spinse a togliergli i calzini zuppi e a metterli accanto al camino. Poi indicò la porta. Alek inarcò le sopracciglia. Era sfinito e voleva solo dormire. La namdvariana si era comportata bene, quindi sarebbe stato portato ad accontentarla, ma... «Andare?» disse lei. Doveva capire abbastanza dhenesco, alla fin fine. «Non posso lasciarti andare adesso» le spiegò, scandendo bene le parole. «Tradimento... hai capito? Mi tradiresti e qualcuno mi sbuzzerebbe mentre dormo. Domani libera». Lei corrugò la fronte. «Domani libera» ripeté Alek. Con uno sforzo prese dal letto la coperta un po’ bagnata e chiazzata di sangue. Gliela mise in mano e indicò il camino. «Dormi lì. Calore». Lei sembrò indecisa. «Domani libera» ripeté lui. Non poteva fare altro per rassicurarla.

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