CAPITOLO VI

2190 Words
CAPITOLO VI L'inventario di quanto possedevano quei naufraghi gettati dal caso sopra quella costa che pareva disabitata, è presto fatto. Essi non possedevano nulla, all'infuori degli abiti che indossavano al momento della catastrofe Va fatta eccezione, tuttavia, per il taccuino e un orologio di Spilett, conservati evidentemente per distrazione. Non avevano nemmeno un'arma, nemmeno un utensile, nemmeno un temperino. Dalla navicella, all'ordine gettato dall'ingegnere, era stato buttato proprio tutto. Gli eroi immaginari di Daniel de Foe e di altri romanzieri, non erano stati gettati sopra isole squallide e deserte in condizioni tanto disastrose. Essi traevano delle risorse abbondanti dalla loro nave incagliata sugli scogli o fracassata contro la costa, oppure trovavano di che provvedere ai primi bisogni della loro nuova esistenza in qualche grosso rottame che il mare buttava sulla costa. Insomma, non si trovavano così totalmente disarmati in faccia alla natura. I nostri naufraghi non avevano nulla: e dal nulla, bisognava arrivare a tutto! E almeno, se Cyrus Smith fosse stato con loro! Almeno se l'ingegnere avesse potuto mettere la sua scienza, il suo spirito inventivo al servizio di quella loro situazione disperata! Allora, forse, tutto non sarebbe stato perduto! Purtroppo, non si poteva più sperare di rivedere Cyrus Smith. I naufraghi non dovevano attendere altro aiuto se non dalle loro proprie forze e da quella Provvidenza che non abbandona gli uomini di fede. Ma, prima di tutto, dovevano essi fermarsi su quel punto della costa senza cercare di sapere a qual continente apparteneva, se era abitata oppure la costa deserta di un'isola disabitata? Era una questione importante da risolvere, e senza indugio, perché dalla sua soluzione dipendevano le misure da prendere. Ma, prima di intraprendere qualsiasi esplorazione, seguendo il consiglio di Pencroff, risolsero di attendere qualche giorno. Bisognava preparare una scorta di viveri e procurarsi del cibo un poco più nutriente di qualche uovo e di un po' di molluschi. Gli esploratori, dovendo sopportare dure fatiche, sprovvisti di un comodo rifugio dove riposare la notte, dovevano, anzitutto, pensare al modo di rifocillare le proprie forze abbondantemente. Intanto, quella grotta offriva un rifugio sufficiente; il fuoco era acceso, bastava conservare la bragia, uova e litodomi non facevano difetto. Chissà che non ci fosse modo di uccidere qualcuno di quei colombi di roccia che volavano a stormi di centinaia sulla sommità della muraglia! Magari a colpi di bastone o a sassate... E perché gli alberi della foresta non dovevano dare qualche frutto nutriente e gustoso? E infine l'acqua dolce era là; a portata di mano. Tutto sommato, fu deciso di restare per qualche giorno nella grotta, a prepararvi una esplorazione accurata sia lungo la costa sia nell'interno. Questo progetto piaceva soprattutto a Nab che, sempre più chiuso nelle sue idee, nei suoi presentimenti, non aveva alcuna fretta di abbandonare quel posto, teatro della catastrofe. Egli non credeva, non poteva, non voleva credere che l'ingegnere fosse perduto; non gli pareva possibile che un simile uomo fosse finito in quel modo banale, portato via da un colpo di mare, annegato miseramente nei flutti a qualche centinaio di passi dalla costa! Fin che le onde non avessero buttato sulla spiaggia il suo corpo; fino a che lui, Nab, non l'avesse visto coi suoi propri occhi, toccato con le mani, il cadavere del suo padrone, egli non avrebbe creduto alla sua morte. E questa idea si radicò sempre più nel suo cervello, diventò certezza segreta, assoluta. Forse, era un'affettuosa illusione; ma il marinaio non ebbe il coraggio di opporvisi. Per Pencroff, non c'era più speranza: l'ingegnere era perito nel mare; ma con Nab, non voleva discutere, non si poteva discutere. Era come il cane che non può lasciare il posto dove il padrone è caduto, e il suo dolore era tale che probabilmente non sarebbe sopravvissuto. Quel mattino del 26 marzo, fin dall'alba, Nab aveva ripreso lungo la costa le sue ricerche, spingendosi verso settentrione, ed era tornato in quel punto dove, presumibilmente, il mare si era rinchiuso sopra l'ingegnere. Come tutta colazione, quel giorno non c'erano, come la sera precedente, che delle uova e dei litodomi. Ma Harbert aveva trovato del sale depositato nelle cavità delle rocce per evaporazione, e quella sostanza minerale giunse graditissima. Finita la colazione, Pencroff chiese al giornalista se voleva accompagnarli nella foresta, perché lui e Harbert avevano deciso di farvi una escursione. Ma poi, tutto ben ponderato, era meglio, anzi necessario che qualcuno restasse alla grotta per custodire il prezioso fuoco e anche per il caso che Nab avesse bisogno di soccorso. Il giornalista, dunque, restò. - E noi, Harbert - disse il marinaio - andiamo a caccia. Troveremo delle munizioni lungo il cammino, e il nostro fucile ce lo taglieremo nella foresta. Al momento di partire, però, Harbert fece osservare che, in mancanza di esca, sarebbe stato prudente tener pronto una sostanza che potesse sostituirla. - Quale? - Un pezzo di tela bruciacchiata. In caso di bisogno, essa potrà servirci da esca. Il marinaio trovò la cosa giustissima; ma si rendeva necessario sacrificare un pezzo di fazzoletto. Poiché il sacrificio valeva la pena di esser compiuto, il fazzoletto a quadretti di Pencroff fu subito ridotto di proporzioni, e una larga striscia diventò uno straccetto bruciacchiato. Quella specie di miccia fu allora collocata dentro una nicchietta sassosa, al riparo d'ogni vento e d'ogni umidità. Erano le nove del mattino, il tempo era nuvoloso, il vento soffiava da sud est, e Harbert e Pencroff si misero in cammino, volgendosi a guardare ogni tanto il fil di fumo che usciva dalla loro grotta. Giunti nella foresta, Pencroff tagliò due solidi rami che trasformò in ottimi randelli dalla punta affilata contro un grosso sasso. Ah, se si fosse avuto un coltello!... I due cacciatori cominciarono ad avanzare fra le alte erbe, seguendo la riva del fiume. A un certo punto, il fiume faceva una brusca svolta verso sud ovest, restringendosi un poco, e le sue rive formavano un letto incassato coperto da una duplice arcata di rami fronzuti. Per non smarrire la strada, Pencroff decise di seguire il corso del fiume; ma la sponda presentava qua e là degli ostacoli notevoli: rami che scendevano fino al pelo dell'acqua, liane intrecciate tenacemente che bisognava rompere a colpi di bastone. Ogni tanto Harbert, con l'agilità di un gatto, si cacciava dentro il folto e spariva, ma il marinaio lo chiamava subito, ansioso e preoccupato, e infine lo pregò di non allontanarsi più. Anche la foresta, come la costa, era immune d'ogni traccia di piede umano. Pencroff ci vide però impronte di quadrupedi, segni di passaggio recente di animali, dei quali tuttavia non seppe precisare la specie. Anche Harbert, come il marinaio, pensò che doveva trattarsi di qualche grossa fiera, con la quale si sarebbe presto o tardi dovuto fare i conti. Ma nemmeno un albero portava i segni di una scure, in nessun angolo v'erano tracce di un fuoco anche lontano nel tempo. Ma, del resto, questa solitudine era forse da benedirsi, perché la presenza di uomini su quella terra selvaggia in pieno Pacifico non sarebbe stata certo che una pericolosa presenza. Pencroff e Harbert non si scambiavano che qualche rara parola, perché le difficoltà del cammino erano numerose e gravi: tanto gravi che, dopo un'ora di strada, non avevano fatto che un miglio. Fino allora, la caccia era stata infruttuosa; e pure molti erano gli uccelli che si sentivano cantare sugli alberi e si vedevano volare di ramo in ramo; ma la presenza di quei due uomini pareva che li avesse resi improvvisamente diffidenti. Fra gli altri, a un certo punto, Harbert vide un uccello dal becco acuto e lungo che somigliava a un grosso martin pescatore, ma con le piume assai più scure e d'uno splendore quasi metallico. - Dovrebb'essere un jacamar - disse, cercando di avvicinarsi a quel volatile. - Ben venga questo jacamar, se ha la buona idea di lasciarsi mettere arrosto - osservò Pencroff. Proprio in quell'attimo, Harbert lanciava con molta destrezza un sasso che colpiva l'uccello a un'ala: questo però non bastò ad abbatterlo, perché la bestia, per quanto ferita, filò via nel folto, correndo sulle sue zampe. - Sono stato maldestro! - si rammaricò il giovinetto. - No, ragazzo. Tu hai tirato giusto, e non so chi sarebbe riuscito a colpire quell'uccello come lo hai colpito tu. Ma lasciamolo perdere e non sviamoci. Lo troveremo un altro giorno. Continuarono nella loro esplorazione. Gli alberi erano sempre più stupendi, invano il marinaio cercava tra essi qualcuno di quei preziosi palmizi così utili e provvidenziali per i frutti che offrono all'uomo. Qui non si vedevano che conifere: pini e abeti, alti, certuni, fino a cinquanta metri. A un certo punto, però, un fitto volo di uccelli non molto grandi e dalle bellissime piume, venne a sciamare sui rami bassi degli alberi intorno ai due esploratori. - Sono dei «curucus» - osservò Harbert. - Preferirei che fossero delle galline faraone - disse Pencroff.- Ma si possono almeno mangiare? - Sono buonissimi, e dalla carne assai delicata. Nota poi che si lasciano avvicinare senza troppa diffidenza. Scommetto che li potremo uccidere a colpi di bastone. Scivolando cautamente fra tronco e tronco, il marinaio e il ragazzo arrivarono sotto una pianta i cui rami bassi erano pieni di quegli uccelli che aspettavano al loro passaggio mosche e farfalle per ghermirle e mangiarle. I due cacciatori, giunti a tiro, si alzarono bruscamente e usando i loro bastoni come falci, spazzarono via delle intere file di uccelli che non pensavano affatto a volar via e si lasciarono così stupidamente abbattere. Quando si decisero a prendere il volo, un centinaio di vittime giaceva sull'erba. - Bene! - fece Pencroff. - Questa è selvaggina adatta a cacciatori come noi. Potevamo prenderli anche con le mani! Il marinaio infilò per i becchi quegli uccelli, come allodole, sopra un giunco flessibile, e poi fu ripreso il cammino. Lo scopo principale di quella esplorazione era quello di procurare la maggior quantità possibile di cibo agli abitanti della grotta. Ora, lo scopo non era ancora stato raggiunto a pieno, e il marinaio che scrutava con attenzione ogni angolo e ogni ciuffo d'alberi, lanciava maledizioni contro quegli animali che si vedevano correre e sparire dentro il folto. Ah, se almeno ci fosse stato il cane Top! Ma anche Top era scomparso insieme col suo padrone. Verso le tre del pomeriggio, altri grossi voli di uccelli furono avvistati sopra gli alberi e su cespugli di ginepro; e all'improvviso si udì nella foresta un vero e proprio suono di tromba. Quella specie di fanfara, era il canto di quegli uccelli, nei quali Harbert riconobbe subito dei «tetras» dalle piume giallo-brune e dalla coda bruna. Pencroff decise che bisognava assolutamente catturare almeno uno di quei grossi gallinacei, così buoni da mangiare. Ma la cosa era tutt'altro che facile, perché quegli uccelli non si lasciavano avvicinare. Infatti, dopo alcuni tentativi infruttuosi, il marinaio si fermò e disse: - Dal momento che non si possono uccidere al volo, cerchiamo di prenderli con la lenza. - Come delle carpe? - rispose ridendo Harbert. - Ecco: come delle carpe - rispose serio il marinaio. Pencroff aveva trovato nell'erbe alcuni nidi di tetras con due o tre uova ciascuno. Non toccò quei nidi, ai quali dovevano certamente tornare i rispettivi titolari; ma intorno a essi pensò di tendere le sue insidie. Trasse così Harbert in disparte, e preparò i suoi ingegnosi ordigni, mentre il ragazzo lo guardava attentissimo, ma poco fiducioso nell'esito di quella nuova «pesca». Il marinaio costruì le sue lenze con delle sottili liane attaccate l'una all'altra e lunghe cinque o sei metri; alle estremità di ogni liana venne assicurato un grosso spino ricurvo, tratto da arbusti di acacia; e come esca, vennero usati dei grossi vermi rossi. Preparati i suoi strumenti, Pencroff, scivolando tra l'erba, tornò verso i nidi, vi assicurò vicino un capo della sua lenza, e, tenendo l'altro capo in mano, si appiattò con Harbert in un nascondiglio erboso. Cominciò allora la paziente attesa. Harbert era sempre meno fiducioso nel successo dell'impresa. Dopo circa una mezz'ora, ecco i tetras tornare verso i loro nidi, proprio come Pencroff aveva pensato. Tornavano a coppie, si vedevano saltellare intorno ai nidi sbeccucciando nell'erba, senza accorgersi affatto della vicinanza dei due cacciatori, che, del resto, erano assai ben nascosti, e avevano avuto cura di collocarsi sottovento. Anche il ragazzo adesso si era appassionato a quel nuovo genere di caccia o di pesca che dir si voglia, e come Pencroff, tratteneva perfino il respiro, incantato a guardare avidamente quegli uccelli che passavano fra amo e amo mostrando di non accorgersene nemmeno. Fu allora che Pencroff diede una leggera scossa alla lenza; il movimento si propagò a tutta la fila degli ami, e i vermi si agitarono come se fossero ancora vivi. La cosa parve attirare l'attenzione dei tetras che, senz'altro, si buttarono contro quei vermi e li attaccarono a colpi di becco. Tre uccelli, i più voraci, inghiottirono insieme verme e amo; Pencroff diede uno strappo alla lenza, tirò la corda di liane, e un furioso dibattersi d'ali indicò che gli uccelli erano presi!Evviva! gridò il marmalo precipitandosi verso la selvaggina. Harbert aveva battuto le mani. Era la prima volta che vedeva prendere degli uccelli con la lenza; ma il marinaio, modestamente, lo assicurò che non era alle sue prime armi, e che, del resto, non era lui l'inventore di quell'ingegnoso sistema di cattura. - Ma, ridotti come siamo, ragazzo mio, bisogna prepararci a vederne di ben altre. Con i tetras penzoloni sulle spalle, i due esploratori, felici di non tornare a mani vuote, ripresero la strada del ritorno, seguendo a ritroso il corso del fiume. Alle sei di sera, piuttosto stanchi del lungo cammino, rientravano nella grotta.
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