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Passione a corte, Erotico fantasy - Raccolta 1

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Tre vicende ambientate a corte, in palazzi fantastici o cupi, ma sempre in grado di risvegliare la fantasia di chi legge. Tre sovrani da servire, accontentare, eccitare e... conquistare. E tre giovani donne disposte ad aprirsi al piacere.

Contiene i romanzi:

-Iniziazione al piacere

-La Rondine Rossa

-L’amante di Bastel

--

CONTIENE SCENE ESPLICITE - CONSIGLIATO A UN PUBBLICO ADULTO

--

C’è chi dice che l’assassinio sia un’arte. Rondine Rossa non era mai stata d’accordo. Eppure, se qualcuno avesse potuto fregiarsi del titolo di artista dell’omicidio, quella sarebbe stata lei.

Nella sua quindicennale carriera aveva ucciso ogni possibile obbiettivo. Aveva avvelenato paranoici che stipendiavano quattro diversi assaggiatori e aveva accoltellato uomini che non lasciavano che nessuno gli si avvicinasse a meno di tre passi. Aveva abbattuto come bestiame individui tre volte più grossi di lei e aveva soffocato nel sonno persone che si vantavano di non dormire mai.

Non era arte. Era il suo lavoro, l’unico che conoscesse.

Era il secondo giorno di un novembre ventoso. I corridoi del Palazzo della Ruota erano troppo freddi, mentre li percorreva in punta di piedi, nei suoi abiti da cameriera. Anche quello faceva parte del suo lavoro: sapere come camminare.

Entrare nel Palazzo della Ruota aveva richiesto tutta la sua abilità. Quindici anni di esperienza, comunque, pensò, sospirando appena. Non era poco. Non aveva ancora compiuto trent’anni.

Sgattaiolò nell"appartamento del reggente da una finestra. Atterrò sul pavimento senza un rumore. Assi di legno lucido, le dissero i suoi piedi. Più avanti dovevano esserci dei tappeti.

Rimase ferma dietro alle tende ascoltando i rumori.

Non ce n’erano. O meglio, un rumore c’era, debolissimo. Qualcuno che respirava lentamente, a cinque o sei metri di distanza. Non era nemmeno un rumore, era quasi un’impressione.

Cancellò dalla sua mente ogni elemento estraneo al suo compito. Al suo lavoro.

Non era arte. L’arte dà all’artista un’emozione: gioia, tormento, non importa. Rondine uccideva senza provare niente, nemmeno la legittima soddisfazione per un lavoro ben fatto.

Il reggente respirava piano. L’aria della stanza era caldissima, secca. Rondine si rese conto che aveva cominciato a sudare.

Prese dall’interno della manica il sottile filo piombato con cui avrebbe garrotato il reggente e iniziò ad avvicinarsi. Doveva essere a letto. Dormiva. Non si vedeva assolutamente niente.

Rallentò ancora. Non doveva fare rumore.

Non ne fece.

Il respiro di Fedor Grayson ora era vicino. Un respiro leggero, lento.

Rondine si passò un’estremità del filo nella sinistra, tenendo l’altra con la destra. Doveva essere a un paio di metri dal reggente.

Pochi secondi.

Un uomo gridò.

Il reggente, che dormiva.

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I.
I. Non era molto diverso dai suoi ritratti ufficiali. Più anziano. Più grigio. Gli zigomi più duri, il naso più tagliente, il contorno degli occhi un pochino più pesante. Il collo aveva delle grinze che nei ritratti non comparivano e la pelle della fronte sulle tempie lasciava trasparire le vene. Non molto, ma neanche quello era stato riportato nei quadri. Oppure, più probabilmente, da quando Vran Elisium di Ror era stato dipinto era passato qualche tempo. Aveva cinquantun anni. Era il tipo d’uomo che invecchia bene: snello, fibroso, asciutto. Era il tipo d’uomo più affascinante da vecchio che da giovane, forse, ma di certo non era immune al tempo. Ees Macarthica si inchinò rigidamente davanti a quello che sarebbe diventato suo marito di lì a un giorno. Piegò leggermente le ginocchia, una mano a reggere la gonna, e chinò appena la testa. Vran piegò soltanto il capo, e soltanto di una frazione di centimetro, senza mai smettere di guardarla. Sulla sua fronte si disegnò una ruga, ma scomparve velocemente. «Benvenuta, Ees Macarthica» disse, porgendole il braccio. Aveva una voce netta, bassa. «Grazie» rispose lei. Intorno a loro, i soldati e i valletti si disposero su due file, creando un corridoio umano fino alla carrozza reale. «Spero che il viaggio non sia stato troppo stancante» disse Vran, in tono assolutamente formale. «Non troppo» sorrise lievemente lei. L’altro si limitò a osservare il suo sorriso, senza contraccambiarlo. L’accompagnò fino alla carrozza e la aiutò a salire. Si sedette di fronte a lei. La sua donna di compagnia salì per ultima, perché così prevedeva l’etichetta. Erano poco distanti dalla capitale di Ror, Marela, e intorno a loro il bosco era curato, quasi addomesticato. Probabilmente erano in una riserva di caccia. La carrozza partì e Vran rimase in silenzio, continuando a osservarla con viso pensieroso. Ees non era così rispettosa dell’etichetta da non osare parlare prima di lui, ma lo lasciò fare. Chiaramente non era del tutto convinto. In effetti, le principali obiezioni a quel matrimonio erano venute da parte sua. Era stato lui, quello da convincere. Ci aveva messo due anni, prima di fissare la data delle nozze. Se non ci fosse stato un fidanzamento ufficiale e dei solidissimi motivi politici per non romperlo, Ees avrebbe potuto temere di venire scaricata prima delle nozze. E, a venticinque anni, non sarebbe più stata considerata molto giovane. Oh, il matrimonio di una principessa era un affare serio e complicato. La bellezza non contava, ma l’età sì. Più giovane la principessa, più numerosi gli eredi. Per una decina di minuti, Vran continuò a guardarla in silenzio. I suoi occhi sottili, un po’ segnati, quasi dello stesso grigio dei suoi capelli, la analizzarono in ogni dettaglio. Ees sapeva di essere a sua volta piuttosto simile ai suoi ritratti ufficiali. Sapeva anche di essere più bella dal vivo che su tela. La sua pelle era luminosa, chiara, i suoi occhi scintillanti, la sua bocca ben disegnata, il suo naso piccolo e delicato. Una bambola di porcellana, con i capelli acconciati come quelli di una bambola, in boccoli ordinati. Capelli di una ricca sfumatura di castano, senza un solo filo bianco. Si chiese se l’altro avrebbe parlato. Aspettò, senza tradire alcuna impazienza. Il terreno, sotto alle ruote della carrozza, era già cambiato. Ora passavano su una strada acciottolata, segno che erano vicini alla città. «Spero che vostro padre, il re George, goda di un’ottima salute come l’ultima volta in cui l’ho sentito». Bene, aveva parlato, alla fine. Una frase neutra, formale. «Ottima, vi ringrazio, principe». Non fece domande sulla sua famiglia, dato che sapeva che erano tutti morti molti anni prima. «Questa sera voi e il vostro seguito verrete alloggiati nel padiglione degli ospiti. Spero che vi piacerà. È molto gradevole». «Sono impaziente di vederlo» rispose Ees, con un sorriso gentile. Poteva essere formale quanto lui. «Sono impaziente di vedere ogni cosa, di Cor». L’altro inclinò la testa da un lato. Poi, per la prima volta, il suo viso fu attraversato da un veloce sorriso di divertimento. «Sì?» Sorrise anche Ees. «Immagino che non ne vedrò quasi niente» disse, abbandonando il tono inespressivo che aveva tenuto fino a quel momento. «Buona previsione. Vi dispiacerebbe molto se approfittassimo del resto del viaggio per chiarire alcuni dettagli?». «Quanto durerà ancora, il viaggio?». Vran scostò appena una tenda. «Forse una mezz’ora». «Possiamo provarci. In realtà, i dettagli da chiarire sono diversi. Speravo che avremmo potuto discuterli con calma questa sera». Il principe scosse appena la testa. «Mi rendo conto che è molto scortese, ma stasera ho delle faccende da sbrigare con il gabinetto dei ministri. Temo che questo sia l’unico momento possibile». Non sembrava davvero dispiaciuto, ma era anche vero che il suo viso non era molto facile da leggere. Ees annuì leggermente, come a comunicargli che prendeva atto della situazione. «Il re George mi ha fatto un ritratto esemplare della vostra semplicità e della vostra modestia e non dubito che corrisponda pienamente al vero. Vorrei comunque informarvi di alcune... necessità inerenti al vostro ruolo». Di nuovo, Ees annuì educatamente. Vran, però, non continuò. Invece si voltò verso la dama di compagnia dell’altra e la guardò con viso severo: «Voi capite che tutto questo è confidenziale». «Rosemar è assolutamente fidata» disse Ees. Negli occhi dell’altro passò un veloce lampo di divertimento. «Mi perdonerete se non considero assolutamente fidata neanche voi, principessa. Questo è la prima questione in agenda. Personalmente, ho un punto di vista discretamente eclettico sul ruolo di una consorte. In privato. Si tratta di un punto di vista largamente condiviso dalla corte e dalla nobiltà. In privato». Ees non riuscì a trattenere un sorriso sarcastico. «Non temete, ho anch’io un alto concetto del privato» disse. Sospirò e scosse le spalle. «Come sapete, sono stata cresciuta per essere la moglie di un sovrano». «Molto bene. Qualsiasi... dubbio, non sarebbe accolto positivamente dai vostri futuri sudditi». Ees intrecciò le dita, pensierosa. «In questa premessa sulle virtù della privatezza devo forse leggere una comunicazione sui vostri privilegi coniugali?». L’altro ne sembrò divertito. «No, affatto» disse. «Con l’età mi sono reso conto che soltanto una cosa tiene la testa di un sovrano sopra al suo collo: l’efficienza completa». Ancora una volta, lei annuì. Si sporse leggermente verso di lui. «Vi rendete anche conto che siete stato scelto da me non meno che da mio padre?» chiese. Tutto quel balletto l’aveva già stancata. Sentirsi dire per prima cosa, come se fosse una bimbetta stupida, che se avesse avuto un amante avrebbe dovuto essere discreta l’aveva messa di pessimo umore. La bocca dell’altro si contrasse leggermente. «Lo speravo. Questo rende le cose più semplici». «Sì, vi ho studiato» ammise lei, in tono indifferente. «Siete politicamente longevo e avete una pessima reputazione. Apprezzo la stabilità». Vran si limitò a guardarla. Se era scettico, non lo diede a vedere. +++ La gente era stancante, ed Ees aveva avuto due giorni ininterrotti di gente. Gente che faceva ala alla carrozza, al suo arrivo, gente assiepata nel tempio, durante il matrimonio, gente invadente e chiassosa al banchetto, dopo la cerimonia. Quello che ormai era suo marito sembrava indifferente. Durante il banchetto, lo vide rispondere con una scrollata di spalle al Duca di Gersa che aveva fatto una battuta spinta su quella notte credendo di non essere sentito da nessun altro. Lo vide sorridere solo di bocca alle felicitazioni di un’anziana contessa dall’aria matronale. Infine, lo vide andare verso di lei e offrirle il braccio. Riusciva a rendere impersonale anche quel gesto, come Ees aveva già notato. La accompagnò verso l’appartamento reale, che, formalmente, sarebbe diventato anche suo. Un valletto aprì la pesante porta di mogano lavorato e la richiuse silenziosamente alle loro spalle. Ees si guardò attorno. Come si aspettava, erano una serie di stanze di eleganza sobria e impeccabile, illuminate da lampade a olio su ogni muro. La tappezzeria era tra l’azzurro e il grigio chiaro, i mobili quasi tutti di legno laccato di nero. I pavimenti erano coperti da folti tappeti, sulle pareti c’erano quadri di pregio. Al contrario di quello che si aspettava, però, tutte le stanze sembravano deserte. Vran le lasciò il braccio e la precedette attraverso l’appartamento. «Sicuramente saprai che la tradizione vuole che buona parte della corte si accalchi nella nostra camera da letto e rimanga lì, oltre il baldacchino chiuso, a offrire tutta la sua fedeltà alla nuova coppia» disse, lui, in tono vagamente ironico, entrando appunto nella stanza da letto. Deserta. Il letto aveva le tende del baldacchino ordinatamente legate alle colonne. Sul lato destro era stesa una camicia da notte da donna, su quello sinistro un pigiama da uomo. «Ho abolito questa usanza» spiegò lui, lasciandosi cadere su una poltroncina. Sorrise appena, versando un po’ di vino da una brocca. Le porse il bicchiere senza alzarsi e lei si avvicinò per prenderlo. Il fatto che non ci fosse nessuno la rassicurava e la rendeva inquieta nello stesso momento. Vran si versò un bicchiere di vino a sua volta e bevve un sorso. «Non ho più vent’anni» continuò «mi piace fare le cose con calma e vedere quello che faccio. Ma se ti serve aiuto per uscire da quel vestito puoi chiamare una cameriera». «Se mi aiuti con la chiusura sul retro non sarà necessario» rispose lei. Si preparò mentalmente a una lunga nottata. Era vergine, non aveva mai visto un uomo da vicino, ma questo non significava che fosse ignorante. Era stata istruita in ogni dettaglio. Se a suo marito serviva del tempo, gli avrebbe concesso del tempo. Se a suo marito serviva aiuto, lo avrebbe aiutato. Se poi non ci fosse stato niente da fare, avrebbe accettato le sue decisioni sul modo in cui procurarsi un erede. Come aveva detto lui, non aveva più vent’anni. «Vieni qua, voltati» la invitò Vran. Iniziò a slacciarle i nodi della chiusura del vestito. Ees sentiva le sue mani che lavoravano con precisione e praticità. Se l’era immaginata in un altro modo, quella notte. Si era immaginata di venir svestita da due o tre cameriere, che poi l’avrebbero aiutata a infilare la camicia. Si era immaginata l’oscurità del letto, all’interno del baldacchino, e il respiro silenzioso di molte persone all’esterno. Aveva immaginato le mani di suo marito, al buio, sotto alle coperte, che le sollevavano la camicia. Una veloce penetrazione. Dolore, probabilmente, ma per pochi minuti. Poi, quando lui avesse finito, lei avrebbe sospirato forte, in modo che tutti la udissero. Ora, da sola con quell’uomo che non conosceva, le veniva quasi da piangere. Che cosa avrebbe dovuto fare? Oh, sapeva tutto. Le avevano insegnato ogni cosa. Ma ne sarebbe stata capace? Mentre lui la guardava, in quella stanza illuminata? Vran finì di slacciare il suo vestito e la aiutò a uscirne. In corpetto e calze, davanti a lui, iniziò ad avere paura. Suo marito la guardò, con la testa inclinata da un lato, riflessivo, e per la prima volta Ees vide passare nei suoi occhi qualcosa di simile a un’espressione comprensiva. «Vai a letto» le disse. «Infilati sotto alle coperte. Arrivo subito». Ees, per un attimo, restò ferma dov’era. Non era... giusto. Non era quello che doveva fare. Il suo compito era restare lì, lasciarsi spogliare ed eccitarlo al meglio delle sue possibilità. «Vai» le ripeté lui, in tono bonario. Ees si voltò e cercò di andare verso il letto senza correre. Quando fu sotto alle coperte quasi sospirò di sollievo. Suo marito si sedette dal suo lato, dandole la schiena. Si sfilò gli stivali e li buttò in un angolo, poi si tolse la giacca, la cravatta e il panciotto. In camicia e pantaloni, andò a spegnere qualche luce. Non tutte, ma una buona parte. Tornò verso il letto e si sedette di nuovo. Ees lo vide togliersi la camicia e capì che si era tolto anche il resto quando lui si infilò sotto alle coperte. «Voltati» le disse. «Ti slaccio i nodi del corpetto». Sentì di nuovo le sue mani al lavoro, senza che la toccasse da nessun’altra parte. La aiutò a sfilarsi il bustino e Ees sentì, all’improvviso, la stoffa fresca delle lenzuola contro la pelle. Tornò a voltarsi verso di lui. Lo guardò negli occhi, cercando di nuovo quella scintilla di umanità che aveva visto prima. Vran si limitò a osservarla. «E così» mormorò, con un lieve sorriso, «niente cambia. Quando ero giovane spedivano le ragazze al matrimonio come carne da cannone. Ne ho conosciute un paio, dopo». Sospirò lievemente. «Facciamo finta che sia dopo. Vieni qua». Ees non capì che cosa intendesse. Era già lì. Che cosa...? «Intendi dire... sotto?» sussurrò. Le avevano spiegato tutto. Poteva cercare al buio la “virilità” dell’altro (parole della sua istitutrice) e succhiarlo finché non fosse diventato duro a sufficienza. La sua istitutrice le aveva persino mostrato che cosa significava “a sufficienza” usando tre carote. Ees ricordava tutto. Era stato imbarazzante. La prima carota era di giornata. Era fragrante e fresca. La seconda carota aveva qualche giorno. Si era un po’ raggrinzita e se la prendevi ai due lati si piegava al centro. La terza carota era troppo vecchia per essere mangiata e se la prendevi ai due lati potevi piegarla a metà senza spezzarla. La sua istitutrice le aveva spiegato che per la terza carota non c’era più niente da fare, ma che la seconda poteva ancora compiere il suo dovere. Ossia, probabilmente, farle male. Partendo da una situazione “terza carota”, era compito di Ees sforzarsi per far raggiungere a suo marito almeno un livello “seconda carota”. Per farlo, la prima cosa era provarci con la bocca. In seguito, con qualunque mezzo suo marito avesse ritenuto necessario. Si preparò mentalmente a succhiare come le era stato spiegato, senza badare alla consistenza, alle dimensioni o all’odore della “carota”. Fece per mettere la testa sotto alle coperte, ma Vran le fece segno di no. «Qua» ripeté. Le posò una mano su una spalla. La attirò delicatamente contro di sé. Ees non sapeva dove mettere le proprie, di mani. «Sulla mia schiena andrà bene» le disse lui. «Così. Appoggia la testa sul cuscino, come se stessi per dormire. Non devi fare proprio niente». Ees posò la testa sul cuscino e la fronte contro il suo petto. Lui se la sistemò contro. Ora sentiva la sua pelle. La pelle del petto contro uno dei seni, la sua mano su un fianco, le sue gambe contro le proprie, un piede copra al suo piede. Ees non se l’era aspettato. Niente stava andando come previsto. Era... nuda. Non si aspettava di essere nuda. Non si aspettava la pelle dell’altro contro la propria. Non si aspettava di sentire i peli del suo petto che le solleticavano un capezzolo. «Chiudi gli occhi, se vuoi» le disse lui. «Non ho nessuna intenzione di saltarti addosso ora». A disagio, lei chiuse gli occhi. Non era così che avrebbero dovuto andare le cose, ma se lui preferiva in quel modo chi era lei per dissentire? Forse voleva solo dormire con lei. Forse poteva solo dormire con lei. Forse la sua era una carota numero quattro e Ees non avrebbe nemmeno dovuto averci a che fare. Sentì la sua mano che le accarezzava il fianco. Piano, lenta. Le sembrò che continuasse per un’eternità. Iniziò ad avere le palpebre pesanti. Poteva dormire? Era tranquillo, lì. C’era caldo e Vran aveva un buon odore. La accarezzava sul fianco, sulla spalla, sull’esterno di una coscia. Le ricordava quando lei accarezzava il suo cucciolo di gatto, tanti anni prima. Baffo ronfava e poi si addormentava sulle sue cosce. Era gradevole. Forse lei era un cucciolo di gatto, per suo marito, tutto qua. Si spostò leggermente, per mettersi più comoda. La mano di Vran continuava a percorrerla, proprio come se stesse accarezzando un gatto. La sentì sui seni. Gradevole. Sullo stomaco. Per qualche motivo, desiderava stargli vicino, pelle contro pelle. La sua mano continuava ad accarezzarla e Ees era semi-addormentata. Ai suoi capezzoli era successo qualcosa. Erano più duri, ora, più sensibili. Avrebbe voluto che Vran la toccasse ancora lì. Le sue dita la percorrevano leggere. Le sentì tra le proprie gambe, come se suonassero uno strumento a tasti. Anche nella propria “femminilità” (sempre parole dell’istitutrice) era cambiato qualcosa. Si sentiva bagnata e molto sensibile. Si sentiva tesa. Si chiese se Vran avrebbe continuato così o se sarebbe successo qualcos’altro. Così... le piaceva. Le faceva venire voglia di spingere i fianchi verso la sua mano. Era... Provò l’impulso di accarezzarlo a sua volta. La sua schiena, le sue spalle, il suo petto. Aprì leggermente la bocca e si strinse di più a lui. Sentì le sue labbra sul collo. Non era sicura di essere del tutto sveglia, ma voleva stare contro di lui. Si spostò ancora e percepì qualcosa di nuovo. Qualcosa che... Aprì gli occhi, sospettosa. «Shh...» le disse Vran, accarezzandole i capelli. «Non ancora». Riprese a toccarla. Ees aprì le cosce, per permettergli di raggiungerla meglio. Vran la toccò infallibilmente nel punto che la sua istitutrice chiamava “il bottone d’emergenza”. Era un punto che poteva strofinare se lui le faceva troppo male (e se lui glielo permetteva). Aveva provato a sfiorarselo da sola, qualche sera, ed era bello. Ora lo stava sfiorando lui ed era... più bello. Le faceva venir voglia di ansimare, ma non era sicura che andasse bene farlo. Vran era silenzioso. “Non ancora” aveva detto. Intendeva dire che non era ancora pronto? Ma lo era. Lo sentiva benissimo. Non aveva alcun dubbio: una carota di primo tipo, ma più delle dimensioni di un cetriolo. Poi ci arrivò. Naturalmente. Non era ancora pronta lei, a suo avviso. Solo che si sentiva molto pronta, prontissima. Si strofinò contro di lui. Avrebbe voluto dirgli che voleva sentire com’era farsi mettere dentro la sua “virilità” – e se faceva male, pazienza. Non aveva mai desiderato farsi male, ma in quel momento non sembrava importante. Sentiva che la propria “femminilità” era fradicia, fremente. Vran le posò una mano su una natica e la tirò verso di sé. Le salì sopra. Le fu dentro. Ees emise una sorta di grido. Dolore, piacere, tutto insieme, come un’unica cosa. Si sentì riempita dall’altro. Si sentì stringersi attorno a lui, attorno a quella “virilità” tutt’altro che troppo vecchia. Senza riuscire a trattenersi, emise un lungo sospiro. Era come se tutto fosse più vivido del normale, come se la sua pelle fosse più sensibile. La mano di Vran sopra la sua natica, il suo petto contro i suoi seni e, specialmente, quella sua parte dura e grossa dentro di lei... Lo sentì muoversi al suo interno. Piano, a lunghe ondate. Ogni volta la punta usciva leggermente e poi affondava di nuovo dentro di lei, facendole emettere un sospiro di piacere. Non riuscì a fermarsi: provò a muoversi a sua volta, a cercarlo. Aprì gli occhi e trovò i suoi che la guardavano, grigi, pensierosi. Respirava piano, lento. «Vran...» ansimò lei. «Sì?» le mormorò in un orecchio. La baciò sul collo e riprese ad accarezzarle il corpo. I seni, con i suoi capezzoli eretti e quasi doloranti. Le natiche, così sensibili... Le fece scivolare le dita nel solco tra le natiche ed Ees strinse le sue spalle, aprendo la bocca di scatto. Un istante dopo sentì il piacere che arrivava, senza possibilità di fermarlo. Fu come un incendio, ma più veloce. Partì dalla sua “femminilità” magnificamente piena e si diffuse a tutto il corpo. Emise un lungo gemito e lui la baciò sulle labbra. Poi lo sentì accelerare e accelerare ancora. Il suo respiro diventò più veloce, meno silenzioso. E tremò. O forse fu lei, a tremare. Di certo lei emise un suono, come una vocale, che pian piano si spense. Sentì una specie di contrazione, qualcosa che avrebbe definito dolore, se non fosse stato piacere puro. Anche Vran si fermò. Scivolò via, rotolò di lato. Ees si avvicinò, sperando che la abbracciasse. Si sentiva accaldata e ancora molto sensibile. Aveva paura che lui le rimettesse dentro il suo... be’, aveva un nome, no? Pensarlo la faceva un po’ vergognare. In ogni caso, temeva che lui volesse tornarle dentro, perché forse a quel punto le avrebbe fatto male, ma lo voleva anche un po’. E, specialmente, voleva che lui la abbracciasse e la accarezzasse, di nuovo, come un gattino. Lui lo fece. Lei posò la testa sulla sua spalla. «Grazie, sai...» mormorò. Lui le accarezzò i capelli. «Prego. Perdonami se te lo dico, ma sei talmente giovane... o forse sono io a essere vecchio. Stai bene, sì?». Ees annuì contro il suo petto. «Bene» concluse lui. Ees socchiuse gli occhi, Lo guardò. I capelli grigi sul cuscino e le punte della barba che stava ricrescendo, più scura. Gli zigomi affilati, il naso aquilino. «Mi piaci» gli disse. Lui rise sottovoce. «Dormi, ora».

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