I. Perduto su PellucidarGli arabi, di cui ho scritto alla fine della mia ultima lettera (cominciò Innes), e che credevo nemici intenzionati solo a uccidermi, si rivelarono fin troppo amichevoli – stavano cercando proprio la banda di predoni che mi avevano minacciato. L’enorme rettile simile a un ranforinco che avevo portato con me dal mondo interiore, l’orrenda creatura Mahar che Hooja il Furbo aveva sostituito alla mia cara Dian al momento della mia partenza, li riempì di meraviglia e di timore.
Né li intimoriva di meno il possente scavatore che mi aveva portato a Pellucidar e ritorno, e che giaceva nel deserto a circa due miglia dal mio accampamento.
Con il loro aiuto riuscii a portare quelle ingombranti tonnellate in posizione verticale – il muso in profondità in una buca che avevamo scavato nella sabbia e il resto sostenuto dai tronchi di palme da dattero tagliate per lo scopo.
Fu un lavoro di grande ingegneria fatto solo con arabi selvaggi e le loro cavalcature ancora più selvagge a svolgere il compito di una gru elettrica, ma alla fine ci riuscimmo, ed ero pronto per la partenza.
Per qualche tempo esitai a portare la creatura Mahar con me. Era stata docile e tranquilla da quando si era scoperta praticamente prigioniera a bordo della “talpa di ferro”. Era stato, naturalmente, impossibile per me comunicare con lei, poiché non aveva organi uditivi e io non conoscevo il suo metodo di comunicazione fatto di quarta dimensione e sesto senso.
Per natura sono di buon cuore, e così capii che non era da me lasciare questa cosa così odiosa e ripugnante da sola in un mondo strano e ostile. Il risultato fu che quando entrai nella talpa di ferro la portai con me.
Che sapesse che stavamo per tornare a Pellucidar era evidente, perché immediatamente il suo modo di fare cambiò da quella cupezza abituale che l’aveva pervasa, a un’espressione quasi umana di contentezza e gioia.
Il nostro viaggio attraverso la crosta terrestre non fu che una ripetizione dei miei due precedenti viaggi tra il mondo interno e quello esterno. Questa volta, però, immagino che dobbiamo aver mantenuto una rotta più perpendicolare, perché abbiamo raggiunto la meta in un tempo leggermente inferiore rispetto al mio primo viaggio di cinquecento miglia. Poco meno di settantadue ore dopo la nostra partenza dalle sabbie del Sahara, sfondammo la superficie di Pellucidar.
La fortuna ancora una volta mi favorì con un margine minimo, perché quando aprii la porta del rivestimento esterno dello scavatore vidi che avevamo mancato di poche centinaia di metri l’arrivo sul fondo dell’oceano.
L’aspetto del paese circostante mi era del tutto sconosciuto: non avevo idea di dove mi trovassi con esattezza nei centoventiquattro milioni di miglia quadrate della vasta superficie di Pellucidar.
Il sole perpetuamente a mezzogiorno riversava i suoi torridi raggi dallo zenit, come aveva fatto dall’inizio del tempo pellucidariano e come avrebbe continuato a fare fino alla fine di esso. Davanti a me, attraverso l’ampio mare, lo strano paesaggio marino senza orizzonte si piegava dolcemente verso l’alto per incontrare il cielo, finché non si perdeva alla vista nelle profondità azzurre della distanza, molto al di sopra del livello dei miei occhi.
Che strano aspetto aveva! Quanto era diverso dall’area piatta e monotona della visione circoscritta che ha l’abitante della crosta esterna!
Mi ero perso. Anche se avessi vagato incessantemente per tutta la vita, non avrei mai potuto scoprire dove fossero i miei vecchi amici di questo strano e selvaggio mondo. Mai più avrei potuto vedere il caro vecchio Perry, né Ghak il Peloso, né Dacor il Forte, né quell’altro bene infinitamente prezioso, la mia dolce e nobile compagna, Dian la Bella!
Ma anche così fui felice di toccare ancora una volta la superficie di Pellucidar. Per quanto sia misteriosa e terribile, grottesca e selvaggia in molti aspetti, non posso che amarla. La sua stessa ferocia mi attrae, perché è la ferocia della natura incontaminata.
La magnificenza delle sue bellezze tropicali mi affascinava. Nelle sue terre possenti si respira una libertà senza limiti.
I suoi oceani incontaminati, che sussurravano tra meraviglie vergini non contaminate dall’occhio umano, mi chiamavano sul loro seno inquieto.
Non rimpiansi per un istante il mio mondo d’origine. Ero a Pellucidar. Ero a casa. Ed ero contento.
Mentre stavo sognando accanto alla macchina gigantesca che mi aveva portato al sicuro attraverso la crosta terrestre, la mia compagna di viaggio, l’orribile Mahar, emerse dall’interno dello scavatore e si mise accanto a me. Per molto tempo rimase immobile.
Quali pensieri passavano attraverso le convoluzioni del suo cervello rettiliano?
Non lo so.
Era un membro della razza dominante di Pellucidar. Per uno strano scherzo dell’evoluzione, la sua specie aveva sviluppato per prima il potere della ragione in quel mondo di anomalie.
Per lei, creature come me erano di un ordine inferiore. Come Perry aveva scoperto tra gli scritti Mahar nella città sepolta di Phutra, era ancora una questione aperta tra i Mahar se l’uomo possedesse mezzi di comunicazione intelligente o il potere della ragione.
Quella razza credeva che nel centro di una solidità onnipervasiva ci fosse un’unica, vasta cavità sferica, che era Pellucidar. Questa cavità era stata lasciata lì al solo scopo di fornire un luogo per la creazione e la diffusione della razza Mahar. Ogni cosa al suo interno era stata messa lì perché fosse usata dai Mahar.
Mi chiedevo cosa potesse pensare ora questo particolare Mahar. Trovai piacere nello speculare su quale fosse stato l’effetto su di lei del passaggio attraverso la crosta terrestre e dell’arrivo in un mondo che una persona anche meno intelligente dei grandi Mahar poteva facilmente vedere essere diverso da Pellucidar.
Cosa aveva pensato del piccolo sole del mondo esterno?
Quale era stato l’effetto su di lei della luna e della miriade di stelle delle chiare notti africane?
Come li aveva spiegati?
Con quali sensazioni di timore doveva aver visto il sole muoversi lentamente nel cielo per scomparire infine sotto l’orizzonte occidentale, lasciando nella sua scia ciò che un Mahar non aveva mai visto prima: l’oscurità della notte? Perché su Pellucidar non esiste la notte. Il sole immobile è sospeso eternamente al centro del cielo pellucidariano, direttamente sopra la testa.
Poi, anche lei deve essere stata colpita dal meraviglioso meccanismo dello scavatore che si era fatto strada da un mondo all’altro e ritorno. E deve anche aver pensato che era stato guidato da un essere razionale.
Inoltre, mi aveva visto conversare con altri uomini sulla superficie terrestre. Aveva visto l’arrivo della carovana di libri, armi e munizioni e il resto della raccolta eterogenea che avevo stipato nella cabina della talpa di ferro per il trasporto a Pellucidar.
Aveva visto tutte queste prove di una civiltà e di una potenza cerebrale che trascendeva in risultati scientifici tutto ciò che la sua razza aveva prodotto; e nemmeno una volta aveva visto una creatura della sua stessa specie.
Non poteva esserci che una sola deduzione nella mente del Mahar: c’erano altri mondi oltre a Pellucidar e il gilak era un essere razionale.
Ora la creatura al mio fianco stava strisciando lentamente verso il mare vicino. Al mio fianco pendeva un fucile a sei colpi a canna lunga – in qualche modo non ero riuscito a trovare la stessa sensazione di sicurezza nei nuovi automatici che erano stati perfezionati dopo la mia prima partenza dal mondo esterno – e in mano avevo un pesante fucile express.
Avrei potuto sparare al Mahar con facilità, perché sapevo intuitivamente che stava scappando, ma non lo feci.
Sentivo che se fosse potuta tornare dai suoi simili con la storia delle sue avventure, la posizione della razza umana all’interno di Pellucidar sarebbe progredita immensamente con un solo passo, perché subito l’uomo avrebbe preso il suo giusto posto nelle considerazioni dei rettili.
Sul bordo del mare la creatura si fermò e mi guardò di nuovo. Poi scivolò sinuosamente nella risacca.
Per diversi minuti non la vidi mentre si godeva le fresche profondità.
Poi a un centinaio di metri dalla riva emerse e lì per un altro breve periodo galleggiò sulla superficie.
Alla fine spiegò le sue ali giganti, le sbatté vigorosamente una ventina di volte e si alzò sopra il mare blu. Una sola volta virò molto in alto e poi, dritta come una freccia, sfrecciò via.
La fissai finché la foschia lontana la avvolse e lei scomparve. Ero solo.
La mia prima preoccupazione fu quella di scoprire dove potevo trovarmi all’interno di Pellucidar e in quale direzione si trovava la terra dei Sariani dove regnava Ghak il Peloso.
Ma come potevo indovinare in quale direzione si trovava Sari?
E se mi fossi spostato per la ricerca, cosa avrei fatto?
Avrei poi potuto ritrovare la strada per lo scavatore con il suo inestimabile carico di libri, armi da fuoco, munizioni, strumenti scientifici e ancora altri libri, una enorme biblioteca di opere di riferimento su ogni possibile ramo delle scienze applicate?
E se non ce l’avessi fatta, che valore avrebbe avuto tutto questo vasto magazzino di potenziale civiltà e progresso per il mio mondo di adozione?
D’altra parte, se fossi rimasto lì da solo con esso, cosa avrei potuto fare?
Niente.
Ma dove non c’era né est, né ovest, né nord, né sud, né stelle, né luna, e solo un sole immobile a mezzogiorno, come potevo ritrovare la strada verso questo posto se mai mi fossi allontanato troppo?
Non lo sapevo.
Per molto tempo rimasi assorto in profondi pensieri, quando mi venne in mente di provare una delle bussole che avevo portato e verificare se rimaneva fissa su un punto invariabile. Rientrai nello scavatore e andai a prendere una bussola.
Spostandomi a una distanza considerevole dallo scavatore affinché l’ago non fosse influenzato dalla grande massa di ferro e acciaio, girai il delicato strumento in ogni direzione.
Sempre e costantemente l’ago rimase rigidamente fissato su un punto dritto verso il mare, apparentemente verso una grande isola distante circa dieci o venti miglia. Quello doveva essere il nord.
Tirai fuori dalla tasca il mio taccuino e feci un accurato schizzo topografico del luogo per quanto era visibile. Verso nord si trovava l’isola, lontano sul mare scintillante.
Il punto che avevo scelto per le mie osservazioni era la cima di un grande masso piatto che si alzava sei o otto piedi sopra il manto erboso. Questo punto lo chiamai Greenwich. Il masso era il “Royal Observatory”.
Avevo trovato un punto di partenza! Non so dirvi che senso di sollievo mi diede il semplice fatto che ci fosse almeno un punto a Pellucidar con un nome familiare e un posto su una mappa.
Fu con una gioia quasi infantile che feci un piccolo cerchio nel mio taccuino e vi tracciai accanto la parola Greenwich.
Ora sentivo che avrei potuto iniziare la mia ricerca con una certa sicurezza di ritrovare la strada verso lo scavatore.
Decisi che all’inizio avrei viaggiato verso sud nella speranza di trovare in quella direzione qualche punto di riferimento familiare. Era una direzione come un’altra. Si può dire almeno questo.
Tra le molte altre cose che avevo portato dal mondo esterno c’erano alcuni contapassi. Me ne infilai tre in tasca con l’idea di poter arrivare a una media più o meno precisa dalle registrazioni di tutti e tre messi insieme.
Sulla mia mappa registravo quanti passi verso sud, quanti verso est, quanti verso ovest, e così via. Quando ero pronto a ritornare, potevo così scegliere la strada che volevo.
Mi portai anche una quantità considerevole di munizioni sulle spalle, mi misi in tasca alcuni fiammiferi e agganciai alla cintura una padella di alluminio e un piccolo bollitore dello stesso metallo.
Ero pronto a partire ed esplorare un mondo!
Pronto a perlustrare un territorio di 124.110.000 miglia quadrate in cerca dei miei amici, della mia incomparabile compagna e del buon vecchio Perry!
E così, dopo aver chiuso la portiera del guscio esterno dello scavatore, partii alla ricerca. Ho viaggiato verso sud, attraverso belle valli fitte di mandrie al pascolo.
Mi sono fatto strada a forza attraverso dense foreste primordiali e su per i pendii di possenti montagne alla ricerca di un passaggio verso i loro lati più lontani.
Stambecchi e capre muschiate cadevano davanti al mio buon vecchio revolver, così che non mi mancava il cibo alle alte quote. Le foreste e le pianure procuravano abbondantemente frutti e uccelli selvatici, antilopi, uri e alci.
Occasionalmente, per gli animali più grandi e le gigantesche bestie da preda, usai il fucile express, ma per la maggior parte di loro il revolver fu più che sufficiente.
Ci sono stati anche momenti in cui di fronte a un possente orso delle caverne, una tigre dai denti a sciabola o un enorme felis spelaea, dal mantello nero e terribile, anche il mio potente fucile sembrava pietosamente inadeguato, ma la fortuna è stata sempre dalla mia parte, così che sono passato indenne attraverso avventure il cui semplice ricordo mi fa drizzare i capelli sulla testa.
Non so per quanto tempo vagai verso sud, perché poco dopo aver lasciato lo scavatore qualcosa andò storto con il mio orologio, e fui di nuovo in balia della sconcertante atemporalità di Pellucidar, andando sempre avanti sotto il grande sole immobile che pende eternamente a mezzogiorno.
Mangiai molte volte, tuttavia, così che devono essere trascorsi giorni, forse mesi, senza che nessun paesaggio familiare premiasse i miei occhi avidi.
Non ho visto uomini né tracce di uomini. Ma questo non è strano, perché Pellucidar, nella sua superficie, è immensa, mentre la razza umana è molto giovane e quindi tutt’altro che numerosa.
Senza dubbio in quella lunga ricerca il mio fu il primo piede umano a toccare il suolo in molti luoghi, il mio fu il primo occhio umano a posarsi sulle splendide meraviglie del paesaggio.
Era un pensiero sconcertante. Non potevo non soffermarmi spesso su di esso mentre percorrevo la mia strada solitaria attraverso questo mondo vergine. Poi, all’improvviso, un giorno passai dalla pace dell’era primitiva senza uomo alla presenza dell’uomo – e la pace finì.
Accadde così.
Stavo seguendo un precipizio che scendeva da una catena di alte colline e mi ero fermato alla sua imboccatura per vedere la bella vallata che si stendeva davanti a me. Da un lato c’era un bosco fitto, mentre davanti a me un fiume scorreva tranquillo parallelamente alle rupi in cui le colline terminavano al bordo della valle.
Più tardi, mentre mi godevo la bella scena, insaziabile delle meraviglie della natura come se non avessi visto innumerevoli volte paesaggi simili, un suono di grida irruppe dalla direzione del bosco. Che le note aspre e discordanti provenissero da gola umana non potevo dubitare.
Mi infilai dietro un grosso masso vicino all’imboccatura del precipizio e aspettai. Potevo sentire il frantumarsi del sottobosco nella foresta, e immaginai che chiunque stesse arrivando lo avrebbe fatto in fretta – inseguiti e inseguitori, senza dubbio.
In breve tempo qualche animale da preda irruppe alla vista, e un attimo dopo una ventina di selvaggi seminudi gli balzarono dietro con lance, mazze o grandi coltelli di pietra.
Avevo visto la stessa scena così tante volte durante la mia vita a Pellucidar che sentivo di poter anticipare con precisione ciò a cui stavo per assistere. Speravo che i cacciatori si dimostrassero amichevoli e potessero indirizzarmi verso Sari.
Mentre stavo pensando così, la preda emerse dalla foresta. Ma non era una bestia a quattro zampe terrorizzata. Invece, quello che vidi fu un vecchio, un vecchio terrorizzato!
Barcollando debolmente e senza speranza verso quello che doveva essere un destino terribile, a giudicare dalle espressioni di orrore che gettava continuamente dietro di sé verso il bosco, venne incespicando nella mia direzione.
Non aveva percorso che una breve distanza dalla foresta, quando vidi il primo dei suoi inseguitori: un Sagoth, uno di quegli uomini-gorilla, cupi e terribili, che sorvegliano i potenti Mahar nelle loro città sepolte e che di tanto in tanto vanno in giro a razziare schiavi o a compiere spedizioni punitive contro la razza umana di Pellucidar, alla quale la razza dominante del mondo interno guarda come noi guardiamo i bisonti o le pecore selvatiche del nostro mondo.
Dietro al primo Sagoth ne giunsero altri, fino a che un’intera dozzina corse gridando all’inseguimento del vecchio terrorizzato. Gli sarebbero stati addosso a breve, questo era chiaro.
Uno di loro lo stava rapidamente superando, il suo braccio armato con la lancia in resta testimoniava il suo scopo.
E poi, con la subitaneità di un colpo inaspettato, mi resi conto di una certa familiarità nell’andatura e nel portamento del fuggitivo.
Simultaneamente mi travolse il fatto sconcertante che il vecchio era… Perry! Che stava per morire davanti ai miei occhi senza che io avessi alcuna speranza di poterlo raggiungere in tempo per evitare l’orribile catastrofe – perché per me significava una vera catastrofe!
Perry era il mio migliore amico.
Dian, naturalmente, la consideravo più che un’amica. Era la mia compagna, una parte di me.
Avevo completamente dimenticato il fucile che avevo in mano e le pistole alla cintura; non è facile sincronizzare i propri pensieri con l’età della pietra e il ventesimo secolo contemporaneamente.
Ora, per abitudine, pensavo ancora all’età della pietra, e nei miei pensieri dell’età della pietra non c’era posto per le armi da fuoco.
Il tipo era quasi addosso a Perry quando la sensazione del fucile nella mia mano mi risvegliò dal letargo in cui il terrore mi aveva gettato. Da dietro il masso sollevai il pesante fucile express, un potente motore di distruzione che avrebbe potuto abbattere un orso delle caverne o un mammut con un solo colpo, e mirai al petto largo e peloso del Sagoth.
Al suono dello sparo si fermò immobile. La lancia gli cadde di mano.
Poi cadde in avanti sulla faccia.
L’effetto sugli altri fu poco meno notevole. Solo Perry avrebbe potuto indovinare il significato del forte sparo o spiegarne il collegamento con l’improvviso crollo del Sagoth. Gli altri uomini-gorilla si fermarono solo per un istante. Poi, con nuove grida di rabbia, scattarono in avanti per finire Perry.
Allo stesso tempo uscii da dietro il mio nascondiglio, estraendo uno dei miei revolver per conservare le munizioni più preziose del fucile express. Rapidamente sparai di nuovo con l’arma più piccola.
Fu allora che tutti gli occhi si rivolsero verso di me. Un altro Sagoth cadde per il proiettile del revolver; ma ciò non fermò i suoi compagni. Ora erano in cerca di vendetta e di sangue, e intendevano averli entrambi.
Mentre correvo in avanti verso Perry sparai altri quattro colpi, facendo cadere tre dei nostri antagonisti. Poi, finalmente, gli altri sette esitarono. Era troppo per loro, questa morte ruggente che li aggrediva, invisibile, da una grande distanza.
Mentre esitavano, raggiunsi Perry. Non ho mai visto sul volto di un uomo un’espressione come quella di Perry quando mi ha riconobbe. Non ho parole per descriverla. Non c’era tempo per parlare allora, appena sufficiente per un saluto. Gli misi in mano il revolver carico, sparai l’ultimo colpo nel mio e ricaricai di nuovo. Erano rimasti solo sei Sagoth.
Ripartirono alla carica verso di noi ancora una volta, anche se potevo vedere che erano terrorizzati probabilmente tanto dal rumore delle armi quanto dai loro effetti. Non ci raggiunsero mai. A metà strada i tre rimasti si voltarono e fuggirono, e noi li lasciammo andare.
L’ultima volta che li vedemmo stavano scomparendo nell’intricato sottobosco della foresta. Poi Perry si voltò, mi gettò le braccia al collo e, nascondendo il suo vecchio viso sulla mia spalla, pianse come un bambino.