Prologo
PrologoDiversi anni erano trascorsi dall’ultima volta che avevo avuto l’opportunità di fare una battuta di caccia grossa; finalmente avevo quasi perfezionato il progetto di un ritorno ai miei vecchi terreni di caccia nell’Africa settentrionale, dove in altri tempi avevo conseguito un eccellente risultato all’inseguimento del re delle bestie.
La data della mia partenza era stata fissata; sarei partito tra due settimane. Nessuno studente che conta le ore che mancano prima che l’inizio delle vacanze lo consegni alle gioie deliranti dell'estate avrebbe potuto essere più colmo di impazienza o enormi aspettative.
E poi arrivò una lettera che mi fece partire per l’Africa dodici giorni prima del previsto.
Spesso ricevo lettere di sconosciuti che hanno trovato in una mia storia qualcosa da lodare o da criticare. Il mio interesse in questo settore della mia corrispondenza è sempre acuto. Aprii questa particolare lettera con tutto il gusto della piacevole attesa con cui ne avevo aperto tante altre. Il timbro postale (Algeri) aveva suscitato il mio interesse e la mia curiosità, specialmente in questo momento, poiché era Algeri che doveva essere testimone della conclusione del mio prossimo viaggio in mare in cerca di sport e di avventura.
Prima che la lettura di quella lettera fosse completata, i leoni e la caccia al leone erano fuggiti dai miei pensieri, ed ero in uno stato di eccitazione che rasentava la frenesia.
Ebbene, leggetela voi stessi e vedete se anche voi non trovate cibo per congetture frenetiche, per dubbi allettanti e per una grande speranza.
Ecco qui:
Caro signore: credo di essermi imbattuto in una delle coincidenze più notevoli della letteratura moderna. Ma lasciatemi cominciare dall’inizio.
Sono, per professione, un vagabondo sulla faccia della terra. Non ho un mestiere, né un’altra occupazione.
Mio padre mi ha lasciato in eredità una competenza; alcuni antenati più remoti desideravano vagare. Ho combinato le due cose e le ho investite con cura e senza stravaganze.
Mi sono interessato alla vostra storia, Al centro della Terra, non tanto per la verosimiglianza del racconto, quanto per una grande e costante meraviglia che la gente venga pagata con soldi veri per scrivere una tale assurda spazzatura. Perdonerete la mia franchezza, ma è necessario che comprendiate il mio atteggiamento mentale verso questa particolare storia, affinché possiate dare credito a ciò che segue.
Poco dopo sono partito per il Sahara alla ricerca di una specie piuttosto rara di antilope che si trova solo occasionalmente in una zona specifica in una certa stagione dell’anno. La mia caccia mi portò lontano dai luoghi frequentati dall’uomo.
Fu una ricerca infruttuosa, tuttavia, per quanto riguarda le antilopi; ma una notte, mentre ero sdraiato ad aspettare il sonno ai margini di un piccolo gruppo di palme da dattero che circondano un antico pozzo in mezzo alle sabbie aride e mutevoli, improvvisamente mi resi conto di uno strano suono proveniente apparentemente dalla terra sotto la mia testa.
Era un ticchettio intermittente!
Nessun rettile o insetto con cui ho familiarità riproduce tali note. Rimasi per un’ora ad ascoltare intensamente.
Alla fine la mia curiosità ebbe la meglio. Mi alzai, accesi la lampada e cominciai a indagare.
Le lenzuola giacevano su un tappeto steso direttamente sulla sabbia calda. Il rumore sembrava provenire da sotto il tappeto. Lo sollevai, ma non trovai nulla, eppure, a intervalli, il suono continuava.
Scavai nella sabbia con la punta del mio coltello da caccia. A pochi centimetri sotto la superficie della sabbia incontrai una sostanza solida che sembrava legno sotto l’acciaio affilato.
Scavando, trovai una piccola scatola di legno. Da questo recipiente usciva lo strano suono che avevo sentito.
Come era arrivato lì? Cosa conteneva?
Nel tentativo di sollevarlo dal suo luogo di sepoltura, scoprii che sembrava tenuto fermo per mezzo di un piccolissimo cavo isolante che correva in profondità nella sabbia sotto di esso.
Il mio primo impulso fu quello di trascinare la cosa di forza; ma fortunatamente ci pensai meglio e mi misi a esaminare la scatola. Vidi subito che era chiusa da un coperchio incernierato, tenuto fermo da un semplice gancio a vite e un occhiello.
Ci volle solo un attimo per allentare quest’ultimo e sollevare il coperchio, quando, con mio grande stupore, scoprii un comune telegrafo che ticchettava all’interno.
“Che cosa mai ci fa questa cosa qui?”, pensai.
La mia prima ipotesi fu che fosse uno strumento militare francese; ma in realtà non sembrava molto probabile che questa fosse la spiegazione corretta, tenendo conto della solitudine e della lontananza del luogo.
Mentre ero seduto a guardare la mia notevole scoperta, che ticchettava e scattava nel silenzio della notte del deserto, cercando di trasmettere qualche messaggio che non ero in grado di decifrare, i miei occhi caddero su un pezzo di carta che giaceva sul fondo della scatola accanto allo strumento. Lo raccolsi e lo esaminai. C’erano scritte solo due lettere: D. I.
Allora non significavano nulla per me. Ero sconcertato.
Una volta, in un intervallo di silenzio da parte dello strumento ricevente, mossi il tasto di invio su e giù alcune volte. Immediatamente il meccanismo di ricezione cominciò a lavorare freneticamente.
Cercai di ricordare qualcosa del Codice Morse, con il quale avevo giocato da bambino, ma il tempo lo aveva cancellato dalla mia memoria. Mi sembrava di impazzire mentre lasciavo che la mia immaginazione si scatenasse tra le ipotesi che questo strumento poteva suscitare.
Qualche povero diavolo all’altro capo sconosciuto poteva avere un disperato bisogno di aiuto. La frenesia stessa dello stridere selvaggio dello strumento lasciava presagire qualcosa del genere.
E io ero lì, impossibilitato a interpretare, e quindi impossibilitato ad aiutare!
Fu allora che mi venne l’ispirazione. In un lampo mi balzarono alla mente i paragrafi finali del racconto che avevo letto nel club di Algeri:
“La risposta si trova da qualche parte nel cuore dell’ampio Sahara, all’estremità di due minuscoli fili, nascosta sotto un tumulo scomparso”.
L’idea sembrava assurda. L’esperienza e l’intelligenza si combinarono per assicurarmi che non poteva esserci il minimo granello di verità o di possibilità nel vostro racconto assurdo – era finzione pura e semplice.
Eppure dove erano le altre estremità di quei fili?
Cos’era questo strumento, che ticchettava qui nel grande Sahara, se non una parodia del possibile!
Ci avrei creduto se non l’avessi visto con i miei occhi?
E le iniziali D. I. sul foglio di carta!
Le iniziali di David erano queste: David Innes.
Sorridevo alle mie fantasie. Ridevo all’ipotesi che ci fosse un mondo interno e che questi fili conducessero attraverso la crosta terrestre fino alla superficie di Pellucidar. Eppure...
Bene, rimasi seduto lì tutta la notte, ascoltando quell’allettante ticchettio, muovendo di tanto in tanto la chiave di invio solo per far sapere all’altro capo che lo strumento era stato scoperto. La mattina, dopo aver rimesso con cura la scatola nel suo buco e averla ricoperta di sabbia, chiamai i miei servitori, feci una colazione frettolosa, montai a cavallo e partii a tappe forzate per Algeri.
Sono arrivato qui oggi. Scrivendovi questa lettera sento che mi sto rendendo ridicolo.
Non c’è nessun David Innes.
Non c’è nessuna Dian la Bella.
Non c’è un mondo dentro un mondo.
Pellucidar non è che un regno della vostra immaginazione, niente di più.
Ma…
L’incidente del ritrovamento di quello strumento telegrafico sepolto nel solitario Sahara è poco meno che inquietante, alla luce del vostro racconto delle avventure di David Innes.
L’ho chiamata una delle coincidenze più notevoli della narrativa moderna. Prima l’ho chiamata letteratura, ma – scusate ancora il mio candore – la vostra storia non lo è.
E allora – perché vi sto scrivendo?
Lo sa il cielo, a meno che il persistente ticchettio di quell’insondabile enigma là fuori nei vasti silenzi del Sahara non abbia talmente sconvolto i miei nervi che la ragione si rifiuta di funzionare in modo corretto.
Ora non posso sentirlo, ma so che lontano, a sud, tutto solo sotto le sabbie, sta ancora battendo il suo vano, frenetico appello.
È esasperante.
È colpa vostra, e voglio che me ne liberiate.
Informatemi subito, a mie spese, che non c’è nessun fondo di realtà nella vostra storia, Al centro della Terra.
Molto rispettosamente vostro,
COGDON NESTOR,
… e … Club,
Algeri.
1 giugno, …
Dieci minuti dopo aver letto questa lettera avevo cablato al signor Nestor quanto segue:
Tutto vero. Aspettatemi ad Algeri.
Veloce quanto il treno e la barca mi avrebbero portato, sfrecciai verso la mia destinazione. Per tutti quei lunghi giorni la mia mente fu un vortice di folli congetture, di speranza frenetica, di paura paralizzante.
Il ritrovamento dello strumento telegrafico mi assicurò che David Innes aveva guidato la talpa di ferro di Perry attraverso la crosta terrestre fino al mondo sepolto di Pellucidar; ma quali avventure gli erano capitate dal suo ritorno?
Aveva trovato Dian la Bella, la sua compagna mezza selvaggia, al sicuro tra i suoi amici, o Hooja il Furbo era riuscito nei suoi nefasti piani per rapirla?
Abner Perry, l’amabile vecchio inventore e paleontologo, era ancora vivo?
Le tribù federate di Pellucidar erano riuscite a rovesciare i potenti Mahar, la razza dominante di mostri rettiliani, e la loro feroce soldataglia simile a gorilla, i selvaggi Sagoth?
Devo ammettere che ero in uno stato che rasentava la prostrazione nervosa quando entrai al …e… Club, ad Algeri, e chiesi del signor Nestor. Un momento dopo fui condotto alla sua presenza, e mi trovai a stringere la mano a quel tipo di persona come al mondo ce ne sono troppo poche.
Era un uomo alto, con la faccia liscia, sulla trentina, elegante, dritto e forte, e abbronzato come un arabo del deserto. Mi piacque immensamente dal primo momento, e spero che dopo i nostri tre mesi insieme nel deserto – tre mesi non del tutto privi di avventura – abbia scoperto che un uomo può essere uno scrittore di “spazzatura assurda” e tuttavia avere alcune qualità positive.
Il giorno successivo il mio arrivo ad Algeri partimmo per il sud, Nestor aveva fatto tutti i preparativi in anticipo, indovinando, come naturalmente fece, che potevo venire in Africa per un solo scopo: andare subito a trovare lo strumento telegrafico sepolto e strappargli il suo segreto.
Oltre ai nostri servi indigeni, portammo con noi un operatore telegrafico inglese di nome Frank Downes. Niente di interessante accadde durante il nostro viaggio in treno e in carovana fino al nostro arrivo al gruppo di palme da dattero intorno all’antico pozzo ai margini del Sahara.
Era proprio il punto in cui avevo visto per la prima volta David Innes. Se mai aveva alzato un tumulo sopra lo strumento telegrafico, ora non ne rimaneva traccia. Se non fosse stato per il caso che aveva fatto sì che Cogdon Nestor gettasse il suo tappeto per dormire proprio sopra lo strumento nascosto, potrebbe essere ancora lì a ticchettare inascoltato e questa storia rimarrebbe ancora non scritta.
Quando raggiungemmo il luogo e dissotterrammo la piccola scatola, lo strumento era silenzioso, né i ripetuti tentativi del nostro telegrafista riuscirono a ottenere una risposta dall’altro capo della linea. Dopo diversi giorni di inutili tentativi di contattare Pellucidar, avevamo cominciato a disperare. Ero sicuro che l’altro capo di quel piccolo cavo sporgesse attraverso la superficie del mondo interno, come lo sono del fatto che oggi siedo qui nel mio studio – e verso la mezzanotte del quarto giorno fui svegliato dal suono dello strumento.
Saltando in piedi, afferrai Downes per il collo e lo trascinai fuori dalle coperte. Non c’era bisogno di dirgli cosa aveva causato la mia eccitazione, perché nell’istante in cui si svegliò, anche lui sentì il tanto sperato clic e con un urlo di gioia si avventò sullo strumento.
Nestor si alzò quasi in contemporanea. Ci stringemmo intorno a quella piccola scatola come se la nostra vita dipendesse dal messaggio che aveva per noi.
Downes interruppe il ticchettio con la sua chiave di invio. Il rumore del ricevitore si fermò all’istante.
— Chiedi chi è, Downes — ordinai.
Lo fece, e mentre aspettavamo la traduzione della risposta dell’inglese, dubito che Nestor o io respirassimo.
— Dice di essere David Innes — disse Downes. — Vuole sapere chi siamo.
— Diglielo — dissi io — e digli che vogliamo sapere come sta e tutto quello che gli è successo dall’ultima volta che l’ho visto.
Per due mesi ho parlato con David Innes quasi ogni giorno, e mentre Downes traduceva, Nestor o io prendevamo appunti. Da questi, disposti in ordine cronologico, ho riportato il seguente resoconto delle ulteriori avventure di David Innes nel centro della terra, praticamente con le sue stesse parole.