2.
La situazione mi piaceva sempre meno. La ragazzina si era ripresa, ma era ancora intontita quando arrivarono i primi soccorsi.
Era logico. Non fosse bastata la Vela che pilotava, sarebbe bastato guardare i suoi vestiti per rendersi conto della sua classe sociale. Portava una tuta di materiale idrorepellente nero, con dei fregi dorati sulle spalle e sul collo. Gli stivali erano tecnici, il sistema di comunicazione di ottima qualità. Sulla Vela distrutta doveva esserci un cosiddetto DSL, “distress signal laucher”, un meccanismo a impulsi che segnalava l’avaria della barca attraverso l’acqua, invece che attraverso l’aria, dove le frequenze erano troppo disturbate per trasmettere.
Quella era una ragazzina ricca, forse figlia di uno dei luogotenenti dei Signori di Lagoon.
Aveva una struttura sottile, troppo ossuta. Alla luce incerta della mia torcia la pelle sembrava olivastra o forse anche più scura. I capelli erano corti e riccioli, ramati. Gli occhi, quando alla fine li aprì, si rivelarono di un verde quasi trasparente.
Ebbi una brutta sensazione e pensai di svignarmela, ma ormai i soccorsi erano arrivati.
E poi non avrei saputo come andarmene. Il mio barchino – e il pesce che avevo pescato – non esisteva più. Non avevo la minima intenzione di tornare verso Maner passando per le vie di terra, se potevo evitarlo.
Ma quegli occhi trasparenti avrebbero dovuto mettermi in guardia.
Quando arrivarono i soccorsi, avevano sul petto le insegne di Argent Sephiran.
+++
Il palazzo dei Sephiran sorgeva dalle acque nel quadrante est di Lagoon, dove il Canal Bianco confluiva nel Canale del Re. L’esterno era consunto e sciupato quanto quello di ogni altro palazzo della città, forse appena un filo meno, ma l’interno era splendido.
Argent Sephiran, d’altronde, era uno dei tre signori che si contendevano da anni il possesso di Lagoon. La sua famiglia comandava da generazioni su quella parte di città e anni addietro, quando ancora i commerci prosperavano un minimo, aveva accumulato l’enorme ricchezza che la sosteneva tutt’ora.
Fui caricata su una lancia dai suoi uomini e portata via.
Non avevo capito se dovevo considerarmi una prigioniera o solo un’ospite forzata, ma non c’era una grande differenza, vero? Non mi avrebbero permesso di andarmene finché non avessero capito che cosa era successo alla ragazzina.
Fui fatta scendere al molo posteriore del palazzo dei Sephiran. La ragazzina fu portata via su una barella, io fui accompagnata lungo un corridoio laterale, un corridoio usato dalla servitù.
Al contrario della giovane Sephiran, non avevo una bella tutina idrorepellente. I miei abiti di cotone grigiastro e sottile erano intrisi di acqua gelida, i miei capelli gocciolavano sui pavimenti di marmo.
«Aspetta qua, Lontra» mi disse uno dei miliziani che mi avevano scortata.
Era una stanza spoglia, con un sedile di pietra che correva lungo tutte le pareti. Mi sedetti e mi abbracciai il corpo. Ero scossa dai brividi, il freddo era sempre più intenso, ma non osai lamentarmi.
Quella era Lagoon. Se hai la sfortuna di finire nelle mani di una delle famiglie della Faida, puoi solo stare in silenzio e sperare di cavartela.
In realtà non dovetti aspettare molto, solo una ventina di minuti. Fui prelevata da un altro uomo con le insegne dei Sephiran sul petto e scortata su per una scala di servizio. Sbucammo in quella che, chiaramente, era la parte nobile della casa. I pavimenti erano di lucido marmo bianco, gli ambienti illuminati da una luce calda, le pareti coperte da una tappezzeria nuova ed elegante. Ma la cosa che saltava più agli occhi era la temperatura: l’aria era tiepida.
Mi portarono verso una sala dalla porta aperta.
Mentre ci avvicinavamo sentii due voci che discutevano, quella di un uomo e quella di una donna.
«...Stavolta ha davvero esagerato...» diceva la voce femminile.
«Ha quindici anni, è irrequieta» rispondeva quella maschile.
«Non puoi fargliele passare tutte lisce, ormai è fuori controllo...»
Il tono della donna era duro, irritato, quello dell’uomo noncurante.
Quando fui spinta nella stanza la loro conversazione si interruppe.
«Ecco la Lontra, mio signore».
Sbattei le palpebre. Tremavo, ero preoccupata, ma ero anche affascinata da tutto quello che vedevo. La ricca tavola imbandita per due, i candelabri dalle luci a led, le sedie imbottite, le tende di pesante velluto cremisi...
«Ari, è disgustoso!» esclamò la donna, guardandomi. «Chi è questa stracciona?».
«La persona che ha salvato Jayde, Theda» rispose l’uomo, tranquillo.
Il miliziano dietro di me mi premette le mani sulle spalle, spingendomi verso il basso. «Inginocchiati, Lontra!».
Caddi a terra. Non avevo più forze, tremavo. Gli stracci fradici che ancora avevo addosso erano incollati alle mie membra. I capelli mi coprirono la faccia, mentre mi prostravo sul pavimento di marmo.
«È disgustoso. Perché hai voluto vederla, Ari? Non hai abbastanza cagne con cui intrattenerti?».
«Spogliatela. Portatele degli abiti asciutti».
La donna emise una risata sgradevole. «Stavo scherzando, Ari, non pensavo che davvero...»
L’uomo si scocciò. La frase seguente fu pronunciata in tono sprezzante.
«Non scherzare, non ti conviene. Persino questo ammasso di cenci è più stuzzicante dei tuoi seni avvizziti. Vattene».
Non guardai.
Preferii non incrociare gli occhi con quelli della signora che era appena stata insultata, ma entrando avevo visto una donna bionda e molto bella, di neppure quarant’anni, vestita come una regina in bianco e oro.
Fui solleva senza cerimonie. I miei vestiti furono strappati via, fui avvolta in un drappo morbido e caldo, asciutto, di un rosso sbiadito.
Mi lasciarono andare buttandomi dove mi avevano presa: sul pavimento.
«Alza la testa, Lontra. Guardami» disse la voce dell’uomo.
Ma non era un uomo qualunque, lo sapevo. Era Argent Sephiran in persona.
Sollevai lo sguardo su di lui.
Era in piedi accanto al tavolo, ora. Della sua compagna non c’era più traccia.
Per qualche secondo lo fissai in silenzio. Non l’avevo mai visto così da vicino.
Era alto, slanciato. Le spalle larghe erano avvolte in un drappo candido, il resto del corpo era fasciato in abiti di pelle di serpente marino, nera. Anche la sua pelle era nera, del colore della terra fertile. Sul collo aveva dei tatuaggi bianchi, che spiccavano sulla carnagione scura come simboli di un alfabeto segreto. Osai guardarlo in viso. La mascella decisa, le labbra carnose e il naso sottile, dalla forma delicata e quasi fragile, affilato, dalle narici un po’ rialzate. Ma erano gli occhi a colpire, gli occhi di acqua trasparente per i quali era famoso. Gli stessi occhi di sua figlia.
«Come ti chiami, Lontra?».
«Raina, signore. Raina Greyshore» risposi io, cercando di impedire alla mia voce di tremare.
«Che cosa è successo? Mia figlia dice che le hai salvato la vita».
Già, e guarda che bel ringraziamento, pensai. Ma ormai ero lì, davanti (ai piedi) di uno degli individui più spregevoli di Lagoon e dovevo solo cercare di andarmene sana e salva. Anche a nuoto, se necessario.
«Ehm, non so se le ho salvato la vita, signore. Ho visto una persona in difficoltà e l’ho portata a riva, nient’altro».
Sephiran socchiuse gli occhi.
«Jayde dice che hai accoppato un serpente. Che l’hai centrato in un occhio con un lancio perfetto dell’arpione e che ti sei immersa per recuperarla e l’hai trasportata incosciente fino alla banchina, dove l’hai rianimata. Mente?».
Come me la cavavo, a quel punto?
«Forse esagera un po’, signore. Il serpente non so nemmeno se l’ho ucciso. Ha rovesciato la mia barca con un colpo di coda. Ma che ho rianimato la ragazza è vero. Mi sembra normale, aveva bevuto».
Sephiran sospirò.
«Ha senso. D’altronde sei una Lontra, non credo che tu sia una valente cacciatrice». Un altro sospiro. «Nemmeno mia figlia, comunque. Tieni».
Prese qualcosa da una tasca e, un istante dopo, per terra davanti al mio naso cadeva una moneta d’argento.
«Grazie per il salvataggio. Procuratele dei vestiti e mandatela via. Dove vivi?».
«A M-Maner, signore».
«Datele un barchino o qualcosa per tornare a casa».
Detto questo, tornò a sedersi al tavolo e fece un gesto con la mano come a indicare di togliermi di torno.
Non aspettavo altro.
+++
La via più breve per tornare a Maner era risalire il Canal Bianco, prendere il Rio dei Traditori e attraversare la Confluenza Maggiore. Non amavo quel percorso, per ovvi motivi, ma quella sera, con il sole ormai calato e le vie d’acqua brumose e deserte, era il percorso più sicuro, anche se non il più edificante.
La Confluenza, quando ci passai, era illuminata dai riflettori. In quel punto la laguna formava una sorta di grande piazza acquatica tra i palazzi del Consiglio, della Magistratura e il Tempio Grande. Dall’acqua sorgevano decine di pali a torma di T, da ogni palo pendevano i corpi di due impiccati, lasciati lì in balia degli uccelli e delle intemperie. E su ogni palo, intenti al loro triste banchetto, diversi corvi impegnati a beccare in silenzio.
Attraversai la selva dei pali cercando di non guardare in alto e di ignorare l’odore, anche se l’odore non era poi così terribile, data la temperatura ancora fresca per la stagione.
Mentre cercavo di lasciarmi alle spalle quel posto il più velocemente possibile, pensai che era ironico: il barchino che guidavo era un regalo dello stesso uomo che aveva fatto appendere la maggior parte di quelle persone.
I miliziani di Sephiran mi avevano procurato dei vestiti asciutti e puliti, anche se un po’ lisi, e mi avevano caricata su un barchino simile a quello che avevo prima di tutta quella faccenda. Non era un gran barchino, ma il motore sembrava più nuovo del mio. Inoltre, avevo avuto una moneta d’argento. Era una ricompensa generosa, di cui non intendevo parlare a mio marito, né a suo fratello. L’avrei nascosto insieme ai miei altri risparmi.
Dalla Confluenza Maggiore a Maner mi servì un’altra quindicina di minuti. I canali si fecero più stretti, invasi di detriti e di banchi di alghe. I palazzi che li fiancheggiavano erano nella rovina più completa, controllati dalle vedette delle g**g. Ma mi conoscevano, quindi non ebbi problemi ad arrivare fino all’ex-capannone dove vivevo.
A Lagoon gli alloggi non erano più un problema da decenni. Quelli che non erano morti per la guerra con l’Alleanza erano morti negli scontri tra bande o nell’interminabile Faida che avevano visto impegnati i signori della nostra città. O anche solo di stenti, malattie o nella bocca di un serpente marino.
Quando arrivai a casa, Cave era sul piede di guerra. Lo definivo mio marito, ma tra noi non c’era nulla di ufficiale. Ci eravamo messi insieme quattro anni prima, e all’inizio mi era sembrato un brav’uomo. Forse un tempo lo era stato.
«Si può sapere dov’eri finita?» furono le sue prime parole. «Hai detto che saresti andata a pescare qualcosa per cena. Contavamo su di te».
Gli spiegai che cosa era successo. Non avevo la minima voglia di parlarne ma dovevo giustificare l’assenza della cena, oltre al fatto di avere un barchino diverso da quello con cui ero partita.
«È migliore, almeno?» inquisì Cave.
«Forse un pochino. Ma ho perso l’arpione e l’attrezzatura da pesca».
«Merda».
Per qualche secondo si aggirò per la cucina come un lupo in gabbia. Anche se non era una vera cucina. Era uno stanzone dai muri scrostati, con un fornello antidiluviano su un lato e un tavolo dalle sedie scompagnate sull’altro. Dean era chiuso nel suo covo, oltre il corridoio, ma non aveva importanza. Dean non contribuiva mai alle discussioni, ma era sempre d’accordo con suo fratello.
«Che cosa ti sarà venuto in mente di aiutare la figlia di quello schifoso, poi».
Sospirai. «Non sapevo che fosse sua figlia».
E se l’avessi saputo l’avrei aiutata lo stesso, perché era solo una ragazzina, ma quello non lo dissi.
«Va be’, poteva anche venirtene del buono, questo è vero. Certo, se avessi insistito per farti rimborsare l’arpione... O farti dare qualcosa da mangiare».
«Non è tanto facile insistere con le guardie di Sephiran senza trovarsi appesi alla Confluenza Maggiore».
Cave grugnì. Neanche lui poteva negarlo.
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Mi diedi una lavata e mi buttai sul materasso che mi faceva da letto. Nuda, perché non c’era motivo di sporcare vestiti per dormire, quando a ripararti dall’umido bastava una coperta. E nuda perché comunque da vestita non avrei evitato il mio destino.
Cave non mi toccava quasi mai, non gli interessavo sotto quel profilo. Passava quasi tutto il tempo in giro a fare allacciamenti illegali alla rete elettrica e trovava fin troppe signore felici di pagare in natura, visto che era decente e aveva ancora tutti i denti. E al sesso preferiva ormai da un pezzo le droghe sintetiche.
Quindi, quando quella notte sentii il materasso che si incurvava e qualcuno che scivolava sotto la mia coperta, sapevo che non era Cave, ma Dean. Dean era sempre tappato nel suo laboratorio a riparare sistemi sonar e non aveva tutte le occasioni sociali di suo fratello. Inoltre gli ero sempre piaciuta, fin dall’inizio.
«Cave mi ha raccontato la tua disavventura» disse, passandomi un braccio attorno alla vita, da dietro. Non si metteva mai davanti a me, forse preoccupato che gli tirassi un calcio nelle palle.
Sarebbe stata fatica sprecata.
«È tutto incazzato, ma non crede che avresti potuto fare altro».
Era un po’ il ritornello della mia vita, non poter fare altro. La sua mano salì e si strinse attorno a uno dei miei seni. Sentii il suo corpo che aderiva alla mia schiena, il cazzo già duro.
«Già» sospirai.
Lo lasciai fare, come sempre. Contribuiva alla pace familiare. Lasciai che mi toccasse tutta e si strofinasse grugnendo al mio sedere. L’uccello me lo mise tra le cosce, anche quella era una costante, per fortuna. Non voleva correre il rischio di ingravidarmi.
Strinsi le cosce e aspettai che avesse finito. Non ci mise molto.
Dopo, mi toccò ancora, ma in modo più distratto. Aveva già sonno, e non aveva mangiato.
Se ne andò prima che io mi riaddormentassi.
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Pensavo che tutto sarebbe tornato come prima, che aver salvato quella ragazza non avrebbe cambiato nulla. Mi sbagliavo.
Quattro giorni più tardi, mentre avanzavo lungo uno dei rii senza nome di Maner sul mio barchino, alla ricerca di alghe commestibili e crostacei, sentii una voce che mi chiamava dall’alto.
«Raina!».
Era la voce femminile, giovane. Alzai lo sguardo e vidi una sagoma slanciata in piedi su una banchina, in controluce.
Un attimo dopo, la persona che mi aveva chiamato saltava giù e atterrava nel mio barchino con la grazia di un elefante, rischiando di farci rovesciare.
«Ehi!» feci io.
Ma ero agghiacciata. Quella era la figlia di Argent Sephiran, impossibile sbagliarsi.
«Ciao. Ci ho messo un sacco a ritrovarti» disse lei, con un sorriso soddisfatto.
Chinai la testa, cauta. «Non riesco a immaginare perché mi ha cercato, signora».
Lei rise. «Signora? No, guarda, chiamami Jayde. Ti ho cercata perché non avevo mai visto nessuno arpionare come te. È stato un tiro cazzutissimo».
«È stato un caso» cercai di svicolare. Che cosa voleva quella mocciosa da me?
Lei rise di nuovo. «Seh, come no. Guarda, ero in acqua e tutto, ma ho visto benissimo». Si toccò una tempia. «Ho due protesi per la visione notturna. Hai mirato e hai lanciato, non è stato un caso. E anche dopo... mi hai recuperata dalla laguna. Eravamo nel Lethe, non vicino alla riva. Quindi mi hai trascinato per un bel pezzo e mi hai tirata su di peso. Nessuna Lontra ci sarebbe riuscita».
Iniziavo a irritarmi. «È quello che sono, mi dispiace».
«È quello che sei ora, forse. Ti ho detto che ti ho cercata. Hai lasciato il tuo vero nome a mio padre, ho fatto delle ricerche. C’era una Raina, nella casa dei Tempest».
Suppongo che a quel punto cambiai colore.
«La terza figlia di Grail Tempest, che guarda caso era un arpioniere. Cugino di Kragen Tempest, decimato con il resto della famiglia undici anni fa, durante la Prima Faida. È tutto scritto, sai. I Christanti hanno prosperato sulla vostra distruzione, fino a diventare la terza casa. Ai tempi dovevi avere suppergiù la mia età. Chi sarebbe Grayshore?».
Deglutii. «Mio marito».
Lei inarcò le sopracciglia, ma non fece commenti.
«Non ho capito perché mi hai cercata» osai chiedere.
Sul suo viso color bronzo tornò il sorriso. «Voglio che mi insegni ad arpionare. In casa mia nessuno mi prende sul serio. La donna di mio padre mi odia, non vede l’ora di spedirmi sulla terraferma. So di aver fatto una cazzata, con quel serpente».
«Ah, lo sai?».
E nonostante fosse la figlia di uno dei peggiori individui di Lagoon, c’era qualcosa di irresistibile, in quella ragazzina.
Lei fece un gesto scocciato. «Già. Dovevo tirarmelo dietro in un canale minore e poi sparargli un dardo».
«Sparar le» specificai io.
Jayde spalancò gli occhi. «Era una serpentessa?».
«Già. E credo che l’altro serpente fosse suo figlio».
«Oh, wow. Hai anche tu delle protesi alle retine?».
«No».
Se le avessi avute me le sarei già vendute.
«Visto? Sapevo che eri un’arpioniera cazzuta. Mi insegni?».
Scossi la testa. «Mi dispiace, non posso. Ho... delle cose da fare».
Lei rise ancora. «E che cosa? Raccogliere alghe? Pescare? Non sei una Lontra!».
« Sono una Lontra» la corressi.
Jayde ci pensò su per un paio di secondi. «Ti p**o. Dov’è il problema? Ti p**o, Santa Filippa! Non dirmi di no, ti prego!».
La cosa più saggia sarebbe stato trovare un modo di declinare, lo sapevo.
Ma Jayde era la figlia di un uomo potente e cattivo, il capo di una delle famiglie che stavano distruggendo sistematicamente la città, una persona senza scrupoli e senza codice... e sembrava che di sua figlia gli importasse. Dire di no a lei poteva far incazzare lui, e se Argent Sephiran si fosse incazzato con me non sarebbe stata una bella cosa.
Inoltre, mi servivano i soldi. Ancora di più ora che ero rimasta senza il sonar, la rete e le altre cose che mi servivano per pescare di frodo.
La mia risposta quindi fu: «Mi paghi quanto?».