1.
L’umidità della sera si alzava dall’acqua in volute simili a vapore. Ma l’aspetto ingannava e quella nebbia biancastra non era calda per nulla. Ti entrava nelle ossa, facendoti rabbrividire fino al midollo.
Il mio barchino avanzava con il motore al minimo lungo il Rio degli Schiavi, lo stretto canale che da Maner portava fin quasi sul Canale dei Re. Davanti a me si apriva il largo braccio curvo del Lethe, la corrente che attraversava la laguna come un fiume tiepido. I palazzi sorgevano neri dalle acque, nella luce incerta della sera, simili a mausolei dallo splendore ormai perduto.
Il marmo che un tempo li rivestiva era da anni coperto di muschio scuro, dove le maree avevano lasciato il segno, e di rampicanti, sporco e crepe nella parte emersa. Le elaborate decorazioni, i bassorilievi, le cornici... ne restava giusto qualche rovina. Le nervature di bronzo che un tempo servivano a trasmettere il Segnale in tutta Lagoon erano a loro volta rotte, disconnesse, e ora disturbavano le comunicazioni, invece di condurle.
Non osai portare il mio barchino nella corrente del Lethe, è ovvio. Le acque relativamente più calde erano fin troppo gradite ai serpenti di mare. Invece scivolai sotto le fondamenta del Teatro Reale, tra le palafitte di metallo che emergevano con la bassa marea.
Il buio era totale, là sotto, ma mi bastava la lanterna di prua per evitare gli ostacoli. Ed era un buon bacino di pesca.
Attivai il sonar ed eseguii una frettolosa scansione della zona.
Quello che cercavo erano tre cose: i barchini di altri pescatori di frodo, banchi di pesce di grandi dimensioni, serpenti marini.
Con gli altri pescatori avrebbero potuto esserci dei conflitti, perché a Lagoon il cibo era scarso tutto l’anno e persino la fauna ittica inquinata e moribonda delle fondamenta poteva accendere la bramosia di qualcuno.
E a volte – sempre più di rado, in realtà – potevi essere fortunato e imbatterti in un banco proveniente dal mare aperto, filtrato chissà come attraverso la Cintura, la distesa di mine che circondava Lagoon.
I serpenti marini, invece, nelle acque limacciose della città prosperavano, e le possibilità di trovarne uno anche fuori dalla corrente del Lethe erano tutt’altro che scarse.
Per il mio barchino erano un pericolo relativo. Quei bestioni, di solito, non si innervosivano facilmente. Le Vele li facevano uscire di testa, ma i gusci di noce come il mio mezzo di trasporto erano troppo piccoli e superficiali.
La mia scansione diede un bel “nulla” su tutti i fronti.
Ero sola, là sotto.
Buttai in acqua una rete e iniziai a percorrere i passaggi tra i piloni. Non avrei raccolto molto, ma, speravo, abbastanza da preparare un paio di pasti a me, a mio marito Cave e a suo fratello Dean.
Non avevo idea di quello che mi aspettava.
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Ero appena riemersa nel Rio degli Schiavi quando sentii il rumore. Il caratteristico sibilo di una Vela che fendeva l’acqua.
Mi voltai a guardare.
Una Vela stava uscendo dal Canale del Re e sembrava intenzionata a infilarsi nel Lethe. A quell’ora di sera, quando i serpenti marini erano irritabili e attivi.
Pensai che fosse qualcuno dei piani alti che andava a caccia.
Al mondo c’è tanta gente che si inventa modi sempre nuovi di rischiare la buccia.
Staccai l’arpione dal suo supporto all’interno della mia barchetta, giusto per prudenza. Non si può mai sapere, giusto? I tizi sulla Vela avrebbero fatto incazzare i serpenti marini e una di quelle bestiacce avrebbe potuto arrivare fino al punto in cui ero io. Improbabile, ma non impossibile.
La Vela in questione, nel frattempo, attraversava il Lethe zigzagando, decisa a stanare un serpente. Era una strategia di caccia davvero stupida.
La peculiarità più saliente delle Vele, quella che gli dava il nome, era la membrana che le attraversava in verticale. La parte sott’acqua fungeva da deriva, quella emersa sembrava un ventaglio semicircolare. La propulsione era a idrogeno, ma la vela stabilizzava l’imbarcazione, consentendole di saettare sull’acqua tagliandola come un rasoio.
Era una cosa che i serpenti marini odiavano.
Nell’arco di pochi minuti, il primo saltò fuori dall’acqua, il lungo corpo scuro che emergeva dalla foschia come un incubo.
Erano grosse bestie, lunghe dieci o anche venti metri. Quello che stava per ingaggiare una lotta con la Vela alle mie spalle aveva la pinna dorsale tutta sfrangiata, come se avesse già combattuto molte volte e se la fosse sempre cavata. Era una grossa femmina, una quindicina di metri di lunghezza, le fauci irte di denti.
L’idiota sulla Vela, di cui scorgevo a stento la sagoma, le sparò un dardo elettrificante. Sarebbe stata una buona strategia se alle spalle avesse avuto una squadra di arpionieri. Ma era da solo.
L’elettricità avvolse l’epidermide scura del serpente marino, facendolo contorcere e saltare. Quando si esaurì la bestia era furibonda.
Si diresse contro la Vela, caricando in modo diretto. Non era la classica tecnica di caccia dei serpenti, che preferivano attaccare ai fianchi le proprie prede, ma questa qua era davvero furiosa. Si scagliò sul “nemico” e sfondò la membrana con una testata, per poi passar sopra al “corpo” dell’avversario, cercando di portarlo a fondo.
Il cacciatore fu sbalzato in acqua.
Avrebbe potuto nuotare via, lasciando la serpentessa a infierire contro la sua imbarcazione, se il parapiglia non avesse attirato un altro serpente marino.
Era un maschio, più piccolo e più giovane, forse il figlio della femmina furiosa.
Iniziò a girare lentamente attorno al luogo dello scontro, perché era così che quegli animali cacciavano: mentre uno combatteva, l’altro sorvegliava.
Erano intelligenti, oltre che letali.
Sentii la voce del cacciatore che gridava aiuto.
Non mi aveva notata, il suo era il grido generico di chi vede la morte in faccia e non sa che altro fare.
Sospirai.
La situazione non mi piaceva per nulla, ma non potevo voltare le spalle e basta.
Oh, un sacco di gente l’avrebbe fatto, lo so. A Lagoon diventavamo sempre più barbari, sempre meno umani di giorno in giorno. La guerra, gli stenti e le lotte tra fazioni ci avevano trasformati in un branco di animali peggiori dei serpenti marini.
Ma io non ero ancora così. Non mi consideravo così.
Diedi gas e portai il mio barchino fino ai confini della corrente del Lethe. L’acqua ribolliva sotto lo scafo sottile, a quel punto, agitata dalle lunghe code dei serpenti.
La madre, così avevo deciso di considerarla, stava finendo di distruggere la Vela e i cerchi del figlio si facevano sempre più stretti.
Avevo una sola possibilità per salvare la vita al cacciatore, e non mi piaceva per niente. Era rischioso e probabilmente mi avrebbe fatto perdere la barca. Ma non vedevo altre opzioni.
Guidai il mio guscio di noce su una rotta concentrica a quella del maschio, ma in direzione opposta. Con l’arpione in mano, mi preparai a lanciare bilanciando il mio peso. Il serpente mi vide arrivare e sollevò la testa fuori dall’acqua.
Lanciai l’arpione con tutta la forza e la precisione che avevo.
Odiavo quel momento, lo odiavo. Solo i ricchi idioti trovavano eccitante rischiare la vita.
Il mio arpione si conficcò in uno degli occhi del serpente. Il cavo che lo alimentava trasmise una scarica elettrica ad alto voltaggio, friggendogli il cervello.
Era stato un gran bel colpo, un colpo da maestra, ma non avevo nessun motivo di compiacermi. Né il tempo.
Avvenne quello che succedeva sempre in questi casi. Il corpo del serpente iniziò a dimenarsi, in parte per gli spasmi della morte, in parte per la stessa scarica che gli aveva fritto il cervello.
Ero troppo vicina. Lo sapevo e non c’era altro modo, quindi quello che avvenne dopo non mi colse alla sprovvista.
La sua lunga coda fendette l’acqua, colpendo il mio barchino e rovesciandolo.
La madre si voltò come una furia e attaccò quello che percepiva come un secondo nemico.
Io mi immersi nell’acqua scura della laguna. La poca luce che illuminava la fine del giorno ormai era quasi del tutto svanita.
Quando riemersi, a quasi sette metri di distanza, vidi la coda della madre che scagliava lontano il corpo del cacciatore, facendolo volare fuori dall’acqua. Probabilmente non l’aveva neppure colpito di proposito, il suo obbiettivo era il mio barchino rovesciato.
Mi immersi di nuovo e agguantai il cacciatore per il collo della giubba prima che affondasse.
Eravamo nel Lethe, in quel momento, l’acqua era dolce o quasi, tiepida e pesante.
Trascinai il corpo privo di conoscenza del cacciatore verso il Rio degli Schiavi. L’acqua si fece fredda e salata, sostenne con più facilità il suo corpo.
Nuotai fino alle palafitte, tirandomi dietro l’idiota.
Dov’era una scaletta? La marea era ancora troppo bassa per permettermi di arrampicarmi fino alla banchina.
Alla fine la trovai.
Non so come riuscii a tirare su con me il cacciatore. Per fortuna non era troppo pesante.
Capii il perché del suo scarso peso quando lo rivoltai per praticargli un massaggio cardiaco.
Era una ragazzina di forse quindici anni.