III. Pranzo a casa di Swithin
Erano dodici i coperti sulla tavola della sala da pranzo di Swithin, decorata in azzurro pallido e arancio, con vista sul parco.
Un lampadario di cristallo lavorato, con tutte le candele accese, che faceva l'effetto di una gigantesca stalattite appesa sopra il tavolo, illuminava grandi specchi incorniciati d'oro, mensole di marmo, sedie massicce dorate, arazzi.
In questa stanza tutto raccontava di quella frenesia di bellezza lussuosa così profondamente radicata in ogni famiglia che, da un'origine umile, abbia dovuto faticare molto per arrivare a quella che si dice “società”.
Swithin non sopportava le cose semplici: fra i suoi simili era sempre stato considerato come un uomo di gusti perfetti, anche se fastosi, per la sua esemplare mania dell'oro lavorato. E la felicità più solida e durevole che avesse provato nella vita, era la certezza che non si potesse entrare in casa sua senza rendersi conto che era ricco. Era stato un agente, secondo lui una deplorevole professione. Dal giorno che aveva smesso, si era abbandonato naturalmente a gusti aristocratici: si era quasi nascosto, come una mosca nello zucchero, nel compiuto lusso del quale circondava il proprio invecchiare. Il suo spirito, nel quale pochissime cose trascorrevano nel giro di giorni, ospitava contemporaneamente due sentimenti in stridente contraddizione: una permanente e solida soddisfazione per avere fatto strada e messo insieme un patrimonio e l'intima convinzione che un uomo “distinto” come lui non avrebbe mai dovuto essere coinvolto nel suo lavoro in vicende disdicevoli. Stava in piedi di fronte alla credenza, con il panciotto bianco con i grandi bottoni d'onice e d'oro, e guardava il domestico sistemare con la massima precisione tre bottiglie di champagne nei secchi ghiacciati. Fra le altissime punte del colletto, che non avrebbe voluto cambiare per nessuna cosa al mondo nonostante gli rendessero faticoso ogni movimento, la pelle candida del suo doppio mento rimaneva immobile. I suoi occhi viaggiavano di bottiglia in bottiglia, mentre fra sé rifletteva: «Jolyon beve un bicchiere, forse due, non di più, è così attento alla sua salute... James come bevitore non esiste. Nicholas e Fanny annegheranno nell'acqua, come al solito. Soames anche lui non esiste: questi giovani nipoti (Soames aveva trentotto anni) sono di una razza che non sa cosa vuol dire bere. Ma Bosinney?».
Swithin si bloccò, perché il nome di questo estraneo lo faceva pensare a qualcosa che usciva dagli schemi della sua filosofia di vita. Dubbi e diffidenze.
«È impossibile sapere quello che potrà bere Bosinney! June è una bambina, e innamorata! Emily (la signora James) sa apprezzare un buon bicchiere di champagne. Ma lo champagne è troppo secco per Juley: povera cara, lei non lo sa gustare. Quando ad Hetty Chessmann...».
Quando pensò a questa vecchia amica una nuvola di pensieri prese a oscurare il vetro trasparente dei suoi occhi: «quella è capace di bere mezza bottiglia».
Ma quando gli venne in mente l'ultima invitata, il suo vecchio viso diventò colmo di un'espressione insinuante, come quella di un gatto che stia per fare le fusa. La signora Soames. Non berrà molto, ma certo saprà apprezzare il vino che le verrà offerto. Era un piacere offrire del buon vino a lei! Una donna bellissima, che dimostrava, a lui, simpatia. Solo al pensiero di quella donna il sangue si scaldava come a bere champagne. Era un piacere dare del buon vino a una donna così bella, capace di vestirsi, che aveva modi affascinanti e così distinti! Era un piacere spendere soldi per lei. Fra le punte di quel colletto scomodo la sua testa fece per la prima volta un piccolo movimento.
«Adolf, una bottiglia di più nel ghiaccio».
Del resto, lui stesso avrebbe bevuto abbastanza, perché, grazie a quella prescrizione di Blight, si sentiva molto bene e aveva avuto cura di non fare colazione. Da molte settimane non stava così bene come quel giorno: protendendo il labbro inferiore, diede le ultime disposizioni.
«Adolf, un dito di vino delle Antille, quando saremo al prosciutto».
Passato in anticamera si mise a sedere sull'orlo di una sedia, a ginocchia allargate. Il suo corpo grande e massiccio s'immobilizzò subito in un atteggiamento di attesa che aveva qualche cosa di strano e di primitivo. Era pronto ad alzarsi da un momento all'altro. Da molti mesi non aveva invitato qualcuno a pranzo. E questo, in onore del fidanzamento di June, in principio gli era sembrato una fatica obbligatoria (l'uso di celebrare i fidanzamenti con solenni convivi era scrupolosamente osservato dai Forsyte). Ma una volta passato il fastidio di mandare gli inviti e di compilare la lista, aveva finito per trovarci una gradevole eccitazione.
Adesso, seduto, tra le mani l'orologio liscio compatto e dorato come una sfera di burro schiacciata, non pensava più a niente e aspettava. Un uomo alto, con le basette folte, che era già stato al servizio di Swithin e che ora faceva il fruttivendolo, entrò per dire: «La signora Chessmann, la signora Septimus Small».
Le due signore apparvero. La prima, tutta vestita di rosso, aveva dello stesso colore due macchie fisse sulle guance e uno sguardo duro e sveglio: si diresse verso Swithin tendendogli la mano chiusa in un guanto marroncino.
«Come va? Ma, amico mio, state ingrassando troppo».
La fissità dello sguardo tradì Swithin e rivelò che era corrucciato, ma una collera senza parole brontolava dentro di lui. Era una cosa volgare essere grassi e parlare di grasso. Lui era robusto: nient'altro.
Girandosi verso sua sorella, le strinse la mano e chiese con tono autoritario: «Allora, Juley?».
La signora Septimus Small era la maggiore delle quattro sorelle. Il suo viso rotondo da anziana benevola si era come inacidito: innumerevoli rughe lo solcavano, come se quella faccia fosse stata serrata fino ad allora in una maschera di ferro. Come una gabbia, che una volta levata, le avesse lasciato dappertutto piccoli cenci di pelle ribelle. Anche gli occhi tenevano il broncio nell'increspamento delle palpebre; era quello il suo modo di dimostrare il suo continuo e duraturo dispiacere per la morte di Septimus Small. Era nota per le sue uscite fuori luogo, tenace come tutti quelli come lei, quando ne aveva fatta una ci si attaccava e ne aggiungeva subito dopo un'altra.
Dopo la morte del marito, la caratteristica ostinazione e il senso pratico della famiglia erano in lei come insteriliti. Logorroica, era capace, se la si lasciava fare, di parlare per ore e ore senza cambiare minimamente il tono di voce, esponendo con epica monotonia gli innumerevoli dispetti del destino nei suoi riguardo. E non si rendeva conto che i suoi ascoltatori simpatizzavano tutti invece con il destino, che in fin dei conti era buono. La poverina, avendo per un molto lungo vegliato al capezzale di Small (un uomo di salute precaria), si era abituata a tali comportamenti, e, anche dopo, molte volte, aveva fatto compagnia per periodi lunghissimi a malati, bambini e invalidi in genere. Né riuscì mai ad allontanare da sé l'idea che questo mondo era proprio il posto più zeppo di ingratitudine fra quanti ne potessero esistere.
Domenica dopo domenica andava a inginocchiarsi davanti a un predicatore molto originale, tale reverendo Thomas Scoles, che aveva su lei un grande ascendente. Lei riusciva poi a convincere tutti che anche questo fatto costituiva una sua nuova disgrazia. Nella famiglia era diventata così un mito, che per definire qualche essere particolarmente demoralizzato bastava aggiungere: una vera Juley.
Un carattere del genere, un profilo psicologico simile, sarebbero stati fatali già prima dei quarant'anni a qualsiasi donna che non fosse una Forsyte, ma Juley ne aveva settantaquattro e non era mai stata bene come adesso: si percepiva anche che c'erano in lei appetiti che avrebbero ancora potuto trovare la loro strada.
Aveva tre canarini, il gatto Tommy e mezzo pappagallo, in comproprietà con la sorella Hester. Quelle povere creature (tenute con molta cura lontane da Timothy che non poteva sopportare gli animali), erano trattate con un senso di giustizia raro fra gli uomini. E sapendo che Juley non aveva nessuna colpa nell'essere triste e ripiegata su se stessa, erano molto attaccate a lei.
Quella sera Juley era vestita con oscura magnificenza, in nero e malva, sul petto era timidamente scollata a triangolo. Un nastro di velluto nero le stringeva l'attaccatura scarna del collo. Nei vestiti da sera il nero con qualche tinta di malva era considerato di una sobria distinzione da quasi tutti i Forsyte. A Swithin disse con una smorfia: «Ann ha chiesto di te, sono secoli che non ti fai vivo». Swithin si mise i due pollici nelle asole del panciotto e rispose: «Ann comincia a indebolirsi e dovrebbe proprio chiamare un dottore».
«Il signore e la signora Nicholas Forsyte».
Nicholas Forsyte, rialzando le sopracciglia rettangolari, sfoggiava il suo sorriso soddisfatto. Durante il giorno era riuscito a portare a termine un progetto per l'uso di una tribù del nord dell'India nelle miniere d'oro di Ceylon. Un progetto voluto a lungo e portato a buon fine, superando mille difficoltà. Poteva ben essere soddisfatto. Quell'operazione avrebbe raddoppiato la produzione delle sue miniere e d'altra parte, come lui spesso aveva dimostrato con decisione, l'esperienza universale prova che ogni uomo deve morire: che muoia di miserabile vecchiaia nel suo paese, o prematuramente ucciso dall'umidità in fondo a qualche miniera sperduta ha poca importanza, purché questa differenza di condizione possa portare benessere all'Impero Britannico. Del resto i suoi meriti erano riconosciuti.
Sollevando quel suo naso debole verso chi lo ascoltava, aggiungeva volentieri: «per la mancanza di qualche centinaio di quei “cosi”, da molti anni non abbiamo più pagato un dividendo. E guardate un po' come vanno le azioni. Sotto i dieci scellini».
Era stato a Yarmouth ed era ritornato con la sensazione di avere aggiunto almeno dieci anni alla propria vita. Così, prese la mano di Swithin gridando con una voce gioviale: «bene, eccoci ancora qui!».
Sua moglie, una donna sfiorita, abbozzava un sorriso dietro a lui con un fare brioso forzato quanto sgomento.
«Il signore e la signora James Forsyte».
«Il signore e la signora Soames Forsyte».
Swithin unì i tacchi, sempre con ammirevole contegno: «Bene, James! Bene, Emily! Come va, Soames? Come state?».
La sua mano si fermò su quella di Irene e gli occhi gli si protesero. Che donna splendida. Un po' troppo pallida, ma che corpo, che capelli, che denti. Veramente troppa bellezza per quel nano di Soames! Gli dei avevano regalato a Irene pupille profondamente scure e capelli biondissimi, una singolare commistione che richiama gli sguardi degli uomini e passa per un sintomo di debolezza di carattere.
Il pallore dolce e pieno del collo e delle spalle, sopra il colore d'oro del vestito, dava alla sua persona un'attrattiva strana.
Soames stava diritto dietro a lei, con gli occhi inchiodati sulla sua nuca. Swithin teneva ancora in mano l'orologio che segnava le otto passate. Dato che aveva l'abitudine di pranzare mezz'ora più presto, e quel giorno non aveva fatto colazione, una violenta e strana impazienza gli risaliva dalle più primitive profondità del suo corpo.
«Non è nello stile di Jolyon ritardare così» disse a Irene senza nascondere il suo cattivo umore.
«Penso che sia responsabilità di June». «Gli innamorati ritardano sempre» gli rispose Irene.
Swithin sgranò gli occhi e un fiotto di sangue venne a rendere più caldo il tono giallo bilioso delle sue guance.
«Non capisco il perché. Per me è una posa!».
Con questo scatto sembrava mormorare e brontolare profondamente con l'inarticolata violenza delle umili e semplici generazioni passate.
«Ditemi che cosa ne pensate della mia nuova stella di brillanti, zio Swithin», disse dolcemente Irene.
Sul petto, fra le trine, brillava una stella a cinque punte formata da undici diamanti. Swithin guardò la stella. Era conoscitore di pietre preziose e nessun argomento poteva essere meglio scelto per attirare la sua attenzione.
«Chi ve l'ha regalata?». chiese.
«Soames».
La giovane pronunciò il nome senza cambiare espressione del viso, ma gli occhi pallidi di Swithin si allargarono come se un'incredibile intuizione lo avesse colpito.
«Dovete annoiarvi molto a casa...» disse. «Se il cuore qualche giorno vi consigliasse di venire a pranzo da me, vi servirò una bottiglia di vino come a Londra non ce ne sono quasi più».