— Madre, siete voi? — domandò in russo.
— Grazie a Dio, eccovi! Qual è il vostro nome? — domandò Sophia quasi senza fiato.
— Boris Yakoff — fece l’altro — vi ho aspettato per un’ora, e fa freddo.
— Non sono riuscita a uscire prima — replicò lei, adeguando il suo passo a quello dell’uomo. — Il vecchio stava lavorando alle sue sciocchezze e non sono riuscita a farlo andare a dormire. Ho sbadigliato un paio di volte, ma non ci ha fatto caso.
— Perché è venuto a Londra? — domandò il suo compagno. — Deve avere qualche ragione importante per allontanarsi dai suoi sacchi pieni di monete.
La donna replicò. Poi chiese: — Andiamo a piedi? Non ci sono carrozzini o carrozze?
— Abbiate pazienza, siate paziente — ghignò l’uomo allegro. — A Londra facciamo le cose in grande. Ad aspettarvi c'è un automobile. Ma non era prudente farla venire troppo vicino alla vostra casa. Il vecchio...
— Oh, piantatela con il vecchio — ribatté lei seccata — non dimenticate che io passo con lui quasi tutto il giorno.
L’ostilità tra padre e figlia era troppo nota perché l’uomo si scusasse per averne parlato con tanta franchezza, del resto una caratteristica dei contadini russi. E Sophia Kensky non si offese per le domande di un estraneo, né esitò a lamentarsi.
L’“automobile” si rivelò un comune taxi, anche se per Yakoff restava un veicolo di un certo lusso.
— Si dice che lui pratichi le arti magiche — disse il loquace giovanotto, mentre il taxi si avviava — e anche che vi streghi.
— È una bugia — replicò lei indifferente. — A volte mi spaventa, ma è perché ho qui... — e si batté sulla fronte — un ricordo che non è un ricordo. Mi sembra che ci sia qualcosa alla fine del filo, ma quando ci arrivo... ecco che si dissolve!
— È una magia — fece Yakoff grave. — È evidente che pratica su di voi i suoi incantesimi. Ditemi, Sophia Kensky, è vero che voi ebrei usate il sangue dei bambini cristiani per celebrare i vostri riti bestiali?
La donna rise.
— Ma che genere d’uomo siete se credete a queste cose? — ribatté con disprezzo. — E io che pensavo che tutti i compagni londinesi avessero studiato!
Yakoff fece schioccare le labbra. Era seccato per il commento di lei sulla sua educazione. E aveva ragione, perché lui era laureato e aveva tradotto sei rivoluzionari romanzi russi in inglese e in francese. Glielo disse profondendosi in particolari, ma la ragazza lo ascoltò senza interesse. Non la sorprendeva il fatto che un uomo colto potesse credere alla favola dei sacrifici umani che in Russia aveva una certa eco. Solo le pareva un po’ bizzarro.
Il taxi uscì dalla semioscurità della strada laterale per immettersi nella grande arteria molto illuminata, rumorosa e piena di traffico. La pioggerellina aveva sporcato i vetri. Ma lei non avrebbe potuto identificare i luoghi anche con i finestrini abbassati.
— Dove mi portate? — domandò. — Dov’è la riunione? Yakoff abbassò la voce fino al sussurro. — Al caffè del Leone d’Argento, in un quartiere che si chiama Soho — disse. —
È lì che ci incontriamo ogni giorno per sognare di una libera madre Russia. E giochiamo a bagatelle. È un club e un ristorante. È necessario che questa sera ci siate anche voi, Sophia Kensky, per via di ciò che accadrà dopo.
Lei tacque per un po’, poi domandò se fosse un luogo sicuro. Lui rise.
— Sicuro! — fece in tono di scherzo. — A Londra non c’è la polizia segreta. Questo è un paese libero, dove si può fare quello che si vuole. No, no, Sophia Kensky, non dovete temere.
— Non ho paura — ribatté lei — ma ditemi, Yakoff, perché questa riunione? — Lo saprete, lo saprete, sorellina — fece Yakoff con un tono importante. Avrebbe dovuto aggiungere che anche lui lo avrebbe saputo, perché, al momento, neppure lui lo sapeva. Il taxi li condusse attraverso un labirinto di stradine e si fermò all’improvviso davanti a una porta. Nessuna traccia di ristorante, spiegò Yakoff prima che uscissero dal taxi, perché si trattava dell’ingresso posteriore del Leone d’Argento, utilizzato anche dagli altri confratelli che frequentavano il club.
Pagò il taxi e suonò il campanello alla porta. Questa venne subito aperta ed entrarono indisturbati. Si ritrovarono in un piccolo atrio illuminato da una fiamma a gas. C’era una scala che portava alla parte superiore e un’altra scala più stretta, illuminata a gas, che conduceva in cantina. Fu in direzione di quest’ultima che si diresse Yakoff, subito seguito dalla giovane.
Si ritrovarono in un altro passaggio, imbiancato con semplicità e molto pulito. In fondo al passaggio, illuminata da un’altra lampada a gas, Sophia vide una comune porta di legno alla quale Yakoff si accostò e bussò. Uno sportello, inserito in uno dei pannelli, venne spostato. Dopo che l’uomo di guardia all’ingresso ebbe esaminato i nuovi venuti, la porta si aprì e i due entrarono senza altre formalità.
Entrarono in una vasta sala sotterranea, quel tipo di ristorante seminterrato che si trova in certi caffè di Soho, con l'arredamento solido e comodo. C'erano già circa dodici uomini quando la ragazza entrò. Chiacchieravano tra di loro a piccoli gruppi, o sedevano ai tavoli da gioco. L’aria era azzurrina a causa del fumo.
Il loro arrivo era il segnale dell’inizio della conferenza. Vennero riuniti quattro piccoli tavoli e in pochi secondi la donna si ritrovò ad essere una dei dodici cospiratori.
Non conosceva l’uomo che sembrava incaricato di dirigere l’assemblea. Era russo, grosso e senza barba, dai gesti tranquilli e persino ben vestito, con i capelli fiammanti e il naso storto. Fu il naso a suggerirle la sua identità. Si ricordava che a Kiev molti parlavano di un “naso storto”, lì le particolarità fisiche non sfuggono all’attenzione, e si setacciò là memoria nello sforzo di ricordare il nome di quel personaggio. Che lui la conoscesse fu chiaro da subito.
— Sophia Kensky — disse — vi abbiamo fatta chiamare per chiedervi la ragione della presenza di vostro padre a Londra.
— Se conoscete mio padre — replicò lei — saprete anche che io, sua figlia, non godo della sua confidenza.
L’uomo annuì.
— Lo conosco — disse cupo — e conosco anche voi, Sophia. Vi ho notata spesso alle riunioni della società a Kiev.
Lei aggrottò ancora la fronte cercando di ricordare chi fosse l’uomo e dove lo avesse incontrato. Non certo alle riunioni della società segreta, di questo era certa. Sembrò che lui le leggesse il pensiero, perché scoppiò a ridere, una risata profonda, risonante, che riempì di echi la cantina.
— È strano che non mi conosciate — fece lui — perché io vi ho vista centinaia di volte, e anche voi mi avete visto.
All’improvviso lei si rese conto.
— Boolba, il maggiordomo del granduca! — esclamò lei. Lui annuì, come soddisfatto del riconoscimento.
— Non partecipo alle riunioni di Kiev, sorellina, per le ragioni che facilmente comprenderete. Ma qui a Londra, dove sono arrivato prima degli Yaroslav, posso farlo. Ora, Sophia Kensky, siete un'amica fidata del movimento?
Lei annuì, dato che l’affermazione era stata posta come una domanda.
— Sapete, lo sappiamo tutti, che vostro padre, Israel Kensky, è amico della granduchessa.
Boolba, il presidente, notò l’espressione contrariata sul viso di lei e trasse le proprie conclusioni prima ancora che la donna spiegasse la sua antipatia per la fanciulla che si trovava in una posizione così elevata.
— È un mistero per me, Boolba — replicò lei. — Non capisco quale sia l’interesse che una signora provi nei confronti di un vecchio ebreo.
— Il vecchio ebreo è ricco — fece lui in un tono carico di significato. — Anche Irene Yaroslav — ribatté lei. — Non è per i soldi che viene. — Non è per i soldi — assentì l’altro — è per qualcos’altro. Quando la granduchessa Irene era una bambina, si trovò nelle strade di Kiev con la sua nurse. Alcuni soldati caucasici di stanza in città lanciarono un pogrom contro gli ebrei. I soldati erano ubriachi fradici e sfrecciavano nelle strade coi loro cavalli. La nurse si spaventò e abbandonò la piccola. Vostro padre si era nascosto perché i soldati lo cercavano; eppure, quando vide il pericolo che correva la granduchessa, uscì dal suo nascondiglio, la strappò da sotto gli zoccoli dei cavalli, e la portò a casa.
— Non lo sapevo — disse Sophia, rimasta a bocca aperta. Suo padre non le aveva mai parlato dell’incidente e l’affetto che la nobildonna portava al vecchio usuraio di Kiev era sempre stato per lei una fonte di stupore.
Ora sapete perché — disse Boolba. — Il granduca ha dimenticato da tempo il suo debito con Israel Kensky ma la granduchessa no. Lui è il suo confidente, ed è per questo, Sophia Kensky, che vi abbiamo chiamata. Vi fu un momento di silenzio.
— Capisco — disse lei alla fine — volete che spii mio padre e che vi dica tutto quanto accade.
— Voglio sapere cosa si dicono lui e la granduchessa — spiegò Boolba. — Arriverà domani a Londra con suo padre e non c’è dubbio che cercherà Israel Kensky. Ogni lettera che i due si scambieranno deve essere aperta e letta.
Ma... — incominciò lei.
— Non ci sono ma — reagì Boolba. — Ascoltate e obbedite: è un ordine!
Poi si voltò bruscamente verso l’uomo alla sua sinistra. — Hai capito che Yaroslav arriverà a Londra domani? Sarebbe opportuno che non ripartisse.
— Ma, eccellenza — sospirò l’uomo — a Londra noi siamo al sicuro; è il solo rifugio che i nostri amici possono trovare. Se dovesse accadere una cosa simile, quale sarà il nostro destino? Non potremo più riunirci. Verremmo ricercati giorno e notte dalla polizia, saremo espulsi.... la fine per il nostro grande movimento.
— Ripeto, è un ordine — confermò Boolba ostinato, — è una questione che va oltre la causa. Ci procurerà protettori potenti a corte, e vi prometto che anche se ci sarà molta agitazione, questa non durerà a lungo e rimarrete indisturbati.
— Ma... — cominciò uno dei congiurati. Boolba lo fece tacere con un gesto.
— Vi prometto che nessuno di voi dovrà soffrirne le conseguenze, amici miei, e che nessuno verrà coinvolto nella vicenda.
— Ma, allora chi lo farà, eccellenza? — domandò un altro.
— È una decisione troppo importante perché la si prenda senza che alla riunione siano presenti tutti i confratelli. Da parte mia, non mi occuperei dell’esecuzione di quest’ordine senza ricevere istruzioni dal presidente.
— Vi prometto che nessuno di voi correrà rischi — ribatté Boolba con una smorfia di disprezzo. — Parlate, Yakoff.
L’uomo che aveva accompagnato Sophia sorrise con un'aria importante e si rivolse alla ragazza.
Devo parlare davanti a Sophia Kensky? — domandò.
— Parla — disse Boolba. — Siamo tutti fratelli e sorelle e nessuno ti tradirà. Yakoff si schiarì la gola. — Quando vostra eccellenza mi scrisse da Kiev, chiedendomi di trovare un uomo, ero disperato — cominciò. Aveva evidentemente fatto le prove del discorso. — Mi sono strappato i capelli, ho pianto...
Diteci cosa avete fatto — lo interruppe Boolba impaziente. — Che cosa volete ce ne importi, per tutti i santi e tutti i martiri... — e tutti nella sala, Boolba compreso, si fecero il segno della croce — se vi siete strappato i capelli o se avete sbattuto la testa.
— È stato un compito difficile, eccellenza — insistette Yakoff anche se con tono meno eccitato — ma la provvidenza mi ha aiutato. C’è un nostro buon compagno impegnato nella campagna di punizione della borghesia mediante la confisca dei beni...
— Sì, un ladro — commentò Boolba.
— Grazie a lui, ho saputo che una certa persona era arrivata in Inghilterra e si nascondeva. Un uomo che è un killer di professione.
Lo guardarono tutti come increduli, salvo Boolba che aveva già sentito la storia... — Un assassino? — domandò uno. — E di che nazionalità?