Un reperto del Pliocene
Io mi lavo le mani di lui fin d’ora. E non posso far mie le sue storie né voglio assumerne la responsabilità. Faccio queste riserve preliminari, notate, per salvare la mia integrità. Perché io ho la mia posizione stabilita, nel mio piccolo, e ho pure moglie, e per il buon nome della comunità che mi onora della sua approvazione, e per amore della sua discendenza e della mia, io non posso prendere le cose alla ventura, come ho fatto in altri tempi, né favorire apparenze di verità con la trascurata imprudenza della gioventù. Così, ripeto, io mi lavo le mani di questo Nimrod, di questo potente cacciatore, di quest’uomo rozzo dagli occhi azzurri e dal viso lentigginoso, di Thomas Stevens.
Essendo stato onesto con me stesso, e convinto che mia moglie si compiacerà di offrirmi un ramo d’ulivo, posso ora concedermi di essere generoso.
Io non giudicherò le storie che mi ha raccontato Thomas Stevens, e, inoltre, eviterò di esprimere la mia opinione. Se mi si domanderà perché, io dirò che non mi sono formato alcun giudizio. Per lungo tempo ho ponderato, pesato, bilanciato, ma le mie conclusioni non sono state due volte le stesse. In verità! Ed è per questo che Thomas Stevens è un uomo più grande di me. Se egli ha detto la verità, molto bene; se è stato menzognero, ancora molto bene. Perché, chi può dare delle prove o confutare i suoi argomenti ? Io mi astengo dal giudicare, e gli uomini di poca fede possono fare come io ho fatto – possono andar a trovare Thomas Stevens e discutere davanti a lui le varie cose che, se la sorte mi assiste, io narrerò. Come e dove lo si può trovare? Le indicazioni sono semplici: a ogni modo, al 58° di latitudine Nord, da una parte, o, dall’altra, secondo ogni apparenza, sul terreno di caccia che giace fra la costa orientale della Siberia e il più lontano limite del Labrador. Ch’egli sia là, in qualche parte, entro questo territorio così nettamente stabilito, io impegno la mia parola d’uomo onorato il cui scopo è di parlare il vero e di vivere rettamente.
Thomas Stevens può essersi trastullato prodigiosamente con la verità; ma quando noi c’incontrammo la prima volta (è bene notiate questo punto), egli se ne veniva errando nel mio accampamento, quand’io pensavo essere mille miglia oltre l’estremo posto civilizzato. Alla vista della sua faccia d’uomo, la prima dopo lunghi e tediosi mesi, io sarei balzato avanti e l’avrei stretto fra le mie braccia (e io non sono un uomo espansivo); ma a lui la sua visita parve il fatto più casuale del mondo. Egli entrò nella cerchia illuminata del mio accampamento, passò la giornata secondo l’usanza degli uomini che battono il solco; gettò le mie scarpe da neve da un lato, cacciò un paio di cani dall’altro e fece così spazio per sé davanti al fuoco. Disse che era proprio capitato lì per chiedere in prestito un pizzico di soda e per vedere se avessi un po’ di buon tabacco. Egli cavò di tasca una vecchia pipa, la caricò con cura minuziosa, e senza neanche chiedere permesso, versò metà del tabacco della mia borsa nella sua. Sì, e lo calcò bene, anche. Poi sospirò con la soddisfazione del giusto e si assorbì letteralmente nella contemplazione delle gialle volute, mentre il mio cuore di fumatore si rallegrava nel contemplarlo.
«Siete cacciatore? Tendete il laccio ? Siete cercatore di metalli preziosi?» Egli si scrollava nelle spalle. «No; faccio un colpo qua e là». Era venuto da Great Have, qualche tempo prima, e pensava ora di andare nello Yukon. L’agente di Koshim gli aveva parlato delle scoperte d’oro nel Klondike, ed egli aveva l’idea di fare una corsa sin là per darvi un’occhiata. Io notai che parlava del Klondike in un vernacolo arcaico, chiamandolo il Reindeer River – un bizzarro modo usato dagli anziani verso i cha-cha-quas e tutti i novizi in generale. Ma lo faceva con un tono così ingenuo e naturale che non poteva racchiudere offesa e io lo perdonai. Egli aveva anche in vista, – disse – prima di attraversare il versante che conduceva allo Yukon, di fare una piccola corsa a Port o’ Good Hope.
Ora, Fort o’ Good Hope è un lontano viaggio a Nord, sopra e oltre il Circolo, in un punto dove i piedi di pochi uomini si sono posati, e quando uno strano pezzente viene avanti nella notte da un luogo non determinato, siede presso il vostro fuoco e discorre di tali argomenti nei termini di “andar a dare un’occhiata” e di “piccole corse” è ben tempo di alzarsi e scuotere il sogno. Così io mi guardai attorno: vidi le mosche, vidi i grossi rami di pino distesi a terra per ricevere le nostre pellicce per la notte; vidi i sacchi di viveri, la macchina fotografica, l’alito gelato dei cani distesi in circolo al margine della luce; e al disopra il fascio luminoso dell’aurora boreale che gettava un ponte di luce allo zenit, da sud-est a nord-ovest. Io rabbrividii. C’è come una magia, nella Notte Nordica, che afferra l’uomo e lo soggioga come la febbre delle paludi. Voi siete preso e abbattuto prima di esserne conscio. Poi guardai le mie scarpe da neve ch’erano a terra e addossate, come le aveva gettate. E diedi pure uno sguardo alla mia borsa del tabacco. Metà almeno della riserva del mio eccellente tabacco era svanita. Questo stabiliva ogni cosa. La fantasia, dopo tutto, non mi aveva ingannato.
Impazzito dalla sofferenza, io pensavo, guardando fissamente l’uomo – uno di quegli sconsiderati e sperduti vagabondi che abbandonata la loro situazione vanno errando come anime perse attraverso vastità immense e sconosciute regioni, Oh! bene, lasciamo che la sua fantasia gli passi; può darsi che in seguito si riprenda. Chi può sapere ? Il semplice suono di una voce umana può ridare l’equilibrio alla sua mente.
Così io lo incitai a parlare, e presto fui pieno di meraviglia perché parlava ancora di cacce e di viaggi, come aveva fatto prima. Egli aveva ucciso il lupo della Siberia nella più remota parte dell’Alaska, e il camoscio nei recessi delle montagne Rocciose. Egli affermava in modo positivo di conoscere i terreni di caccia dove gli ultimi bisonti ancora vagavano e di avere attaccato i fianchi dei caribù quando correvano a centinaia di migliaia, e di aver dormito sopra il Great Barrens, sul solco invernale tracciato dalle mandrie dei buoi muschiati.
E io cambiai il mio giudizio in conseguenza (questa era la prima revisione), e venni alla conclusione ch’egli fosse una monumentale immagine della verità. Ora, non so per quale ragione, il mio spirito m’incitava a ripetere una storia raccontata a me da un uomo che aveva dimorato a lungo in quelle contrade, troppo a lungo per non conoscerle perfettamente. Si trattava del grande orso che calca gli scoscesi pendii di St. Elias, mai scendendo al livello di più dolci declivi. Ora, Dio ha così conformato questi animali, per la loro dimora sulle falde delle colline, che le due gambe di uno dei lati sono di un piede più lunghe delle gambe del lato opposto. Questo è estremamente conveniente, e sarà prontamente ammesso. Così io cacciai questo raro animale in mio proprio nome, vale a dire in prima persona, tempo presente, dipingendo le condizioni locali con abbellimenti e colori e tocchi di verosimiglianza, e guardai l’uomo in viso per vederlo sbalordito al mio racconto.
Ma no. S’egli avesse dubitato, io gli avrei perdonato. Se avesse obiettato o negato i pericoli di tale caccia per l’inabilità dell’animale a girarsi attorno e a camminare in altra maniera – avesse fatto questo, dico, io gli avrei preso le mani, salutandolo per il vero sportsman ch’egli era. Ma niente affatto, egli soffiò, mi guardò, soffiò ancora, poi vantò il mio tabacco calorosamente e mi ficcò un piede in grembo dicendomi di esaminare la sua calzatura. Era un mucluc di modello Inuit, cucito assieme con cordicelle fatte di nervi d’animale, senza alcun ornamento di perline o frange. Ma ciò che era singolarmente notevole era la pelle. Era spessa mezzo pollice in ogni punto e mi ricordava per questo la pelle del cavallo marino. Ma qui ogni somiglianza cessava perché nessun cavallo marino aveva mai posseduto una simile ricchezza di pelo. Sui lati e alle caviglie questi peli erano quasi stati portati via dallo sfregamento contro gli arbusti e sulla neve; ma alla sommità e verso la parte posteriore, più riparata, era ruvido, di un nero sporco e molto spesso. Io lo separai con difficoltà e guardai sotto per vedere la fine peluria che è comune agli animali del Nord; ma trovai che questa volta mancava. Questo tuttavia era compensato dalla lunghezza del pelo. Invero, i ciuffi che ancora rimanevano, consumati e strappati, misuravano da sette a otto pollici.
Io guardai l’uomo in viso e questi mise a terra il suo piede e domandò: «Trovaste della pelle come questa sul vostro orso a St. Elias?»
Io scossi la testa. «No, e in nessun altro animale di terra o di mare» risposi candidamente. «Lo spessore della pelle e la lunghezza del pelo mi rendono perplesso».
«Questo» egli disse senza aver affatto l’aria di dire una cosa sensazionale «questo viene da un mammut».
«Andiamo!» esclamai, non potendo trattenermi dal manifestare la mia incredulità. «Il mammut, caro signore, da molto tempo è scomparso dalla terra. Sappiamo che ha vissuto un tempo, dagli avanzi fossili che sono stati scavati e da una carcassa gelata che il sole della Siberia ha messo a nudo dal seno di un ghiacciaio e che si è poi dissolta; ma sappiamo pure che non esiste nessun esemplare vivente. I nostri esploratori…»
A queste parole egli interruppe con impazienza:
«I vostri esploratori? Bah! Una debole razza. Non parlatemi più di loro. Ma ditemi, o uomo, quello che conoscete del mammut e delle sue abitudini».
Oltre a una opposizione, questa domanda conduceva a una lunga storia. Così io misi l’esca all’amo per rovistare nella mia memoria e cercar di rintracciare tutti gli elementi e le cognizioni che possedevo a tale soggetto. Cominciai col dichiarare solennemente che il mammut è un animale preistorico, e schierai tutti i dati che possedevo a sostegno della mia dichiarazione. Accennai alle nude sabbie della Siberia nelle quali abbondano le ossa degli antichi mammut, parlai della grande quantità di avorio fossile trovato dagli Inuit e ceduto alla Compagnia Commerciale dell’Alaska, e dissi che io stesso, esplorando, avevo trovato delle zanne d’avorio lunghe da sei a otto piedi nel terreno sabbioso del Klondike Creek. «Tutti fossili» conclusi «trovati fra i resti depositati attraverso incalcolabili età».
«Ricordo che quando ero un ragazzo» soffiò Stevens (egli aveva una maledetta maniera di soffiare) «io vidi una volta un melone d’acqua pietrificato. Sebbene molte persone, vedendolo, cadano in errore, pensando di aver trovato qualche cosa da mangiare, in verità non esistono meloni d’acqua commestibili».
«Ma la questione del cibo» io obiettai, ignorando il senso del suo discorso, che appariva puerile e senza alcuna connessione. «Il terreno deve produrre una vegetazione prodigiosamente abbondante per poter alimentare tali mostruosi animali. In nessun luogo, nel Nord, il suolo è così fertile. E poi il mammut non può esistere».
«Io perdono la vostra ignoranza riguardo molte cose della terra nordica perché siete giovane e avete viaggiato poco, tuttavia sono disposto a concordare con voi su di un punto. Il mammut non esiste più. E come lo so? Per il fatto che io stesso ho ucciso l’ultimo esemplare col mio braccio».
Così parlò Nimrod, il potente cacciatore. Io presi un tizzone acceso e lo gettai ai cani gridando di smettere quel loro lamentoso mugolio. Indubbiamente questo bugiardo singolarmente abile avrebbe ora aperto la bocca per ribattere la mia storia dell’orso di St. Elias.
«Fu così» egli cominciò, dopo l’intervallo di un calcolato silenzio. «Io ero nel mio accampamento un giorno...»
«Dove?» Lo interruppi.
Egli agitò la mano vagamente in direzione di nord est dove si stendeva un’area sconosciuta entro la cui vastità pochi uomini si erano avventurati e dove la febbre imperava.