«Io mi trovavo al campo, un giorno, con Klooch. Klooch era una graziosa cagnetta Kamooks, come ancora non se n’erano udite guaire tra le guide né viste col muso presso una marmitta da campo. Suo padre era un puro sangue Malamute di Pastilik di Russia, sul Mare di Bering, e sua madre era una cagna dalle membra ben proporzionate, di Hudson Bay. Io vi dico, o uomo, ch’essa era un incrocio perfetto. E ora, in questo giorno che sto ricordando, essa aveva messo alla luce sette cuccioli, avuti da un selvaggio lupo dei boschi – grigio, lungo di membra e forte di petto, d’indomata energia. Dico! Sarebbe stato sempre così? Era una nuova razza di cani che io avevo ottenuto e potevo sperare grandi cose per l’avvenire. Come ho detto essa portò perfettamente a termine la sua gestazione e si sgravò felicemente. Io ero accoccolato davanti la cuccia – sette piccoli nudi ciechi e robusti – quando dietro a me giunse uno strepito di trombe e un fracasso di ottoni. Ci fu una corsa, come la folata di vento che precorre la pioggia, e ancora non mi ero drizzato che fui colpito in pieno. Nello stesso istante udii Klooch sospirare, proprio come fa un uomo quando gli piantate un pugno nella pancia. Voi potete scommettere la vostra borsa ch’io stetti quieto; solo girai la testa e vidi una enorme massa agitarsi sopra di me. Poi l’azzurro del cielo tornò a balenare al mio sguardo e mi drizzai. Una pelosa montagna di carne scompariva in quel momento fra gli arbusti al margine dello spazio aperto. Io ebbi un’ultima visione di questo strano essere, dalla coda rigida e grossa come il giro della mia vita, che si teneva diritta e tesa. L’istante seguente non rimaneva che una enorme spaccatura aperta fra gli arbusti, sebbene ancora io potessi udire come il suono di un turbine che va spegnendosi lontano e un rumore di arbusti spezzati e d’alberi stroncati e fracassati.
Io cercai attorno il mio fucile. L’avevo appoggiato a terra con la bocca contro un ceppo, ma lo trovai spezzato, con la canna contorta, e anche i miei arnesi da lavoro erano ridotti in un ammasso di frantumi. Allora cercai Klooch, e – e che cosa supponete?»
Io scossi il capo.
«Possa la mia anima bruciare fra i mille fuochi dell’inferno se là rimaneva qualche cosa di lei! Klooch, i sette piccoli cuccioli ciechi e robusti – andati, tutti andati! Dov’era stata la sua cuccia non si vedeva che una fangosa depressione rossa di sangue, per una jarda in diametro, e attorno pochi ciuffi di peli sparsi».
Io misurai tre piedi sulla neve, tracciai un circolo attorno, poi detti uno sguardo a Nimrod.
«La bestia era lunga trenta piedi e alta venti» egli rispose «e le sue zanne avran misurato circa sei volte tre piedi. Io non potevo credere a me stesso allora, perché tutto era accaduto in maniera fulminea, ma se i miei sensi mi avevano ingannato restava il fucile a testimoniare, il fucile fracassato e la grande apertura fra i cespugli. E là c’erano, o meglio, là non c’erano più né Klooch né i suoi cuccioli. O, Uomo, mi sento ribollire il sangue quando ci penso! Klooch! Un’altra Eva! La madre di una nuova razza! E un vecchio mammut violento e selvaggio come un secondo diluvio, aveva spazzato radice e rami dalla faccia della terra! Non mi domandate se la terra inzuppata di sangue non gridasse con tutte le sue forze verso Dio? 0 s’io non stringessi l’ascia e mi mettessi per il solco?»
«L’ascia?» io esclamai allarmato alla visione del quadro – l’ascia e un grosso mammut lungo trenta piedi e alto venti.
Nimrod vide con me il lato comico e rise allegramente. «Non avreste cercato di ucciderlo, voi?» egli gridò. «Non è un vaneggiamento, sapete; molte volte, dopo, io ho riso di questo; ma in quel momento non ridevo, ero pazzo infuriato per via del fucile e di Klooch. Pensate a questo, o Uomo! Una nuova specie non ancora classificata, una razza di cui avrei avuto l’esclusivo diritto, soffiata via prima che avesse potuto aprire gli occhi e richiamar l’attenzione della stampa. Bene, così è! La vita è piena di contrarietà, ed è giusto che sia così. Il cibo è migliore dopo che si è provata la fame e un letto è più dolce dopo una dura fatica sopra il solco.
Come stavo dicendo, io mi diedi a inseguire quel mostro con l’ascia, e gli stetti alle calcagna giù per la valle, ma quando si girò indietro e corse verso la sommità, io fui lasciato senza respiro nella parte più bassa. Parlando di cibo posso fermarmi un momento per chiarire un paio di punti. Lassù fra quelle montagne c’è una conformazione singolarissima, non ci sono sbocchi alle piccole valli, ma tutte le valli sono disposte come piselli in un baccello e tutte sono nettamente adagiate fra diritte muraglie di roccia che si alzano da ogni lato. E all’estremo più basso vi sono sempre unicamente delle piccole aperture fatte dallo scolo dei ghiacciai. La sola via passa attraverso queste bocche tutte piccole e alcune piccolissime. Quanto al cibo, molto verosimilmente voi sarete passato, viaggiando, sul terreno imbevuto d’acqua delle isole costiere dell’Alaska giù sino a Sitka; e là voi avrete visto con quale abbondanza si trovi il nutrimento, e ricco, vario, succoso. Bene, le condizioni di quelle valli erano le stesse. Il suolo è grasso, ricco di felci e d’erbe e la vegetazione è abbondante e cresce più alta della vostra testa. Piove tre giorni su quattro durante i mesi d’estate, e vi sarebbe cibo, là, per un migliaio di mammut, senza parlare della piccola selvaggina per l’uomo.
Ma torniamo indietro. Giù all’estremo limite della valle io ripresi fiato e mi fermai. I miei pensieri si fecero più ardenti e più animosi e capii che non avrei avuto pace finché non avessi pranzato con un arrosto di mammut. E io sapevo, anche, che questo avrebbe significato un “shookum mamook pukapuk” – scusate il chinook; voglio dire con questo che mi si prospettava una grande lotta. Ora, lo sbocco della mia valletta era molto stretto e i muri scoscesi. Da un lato si alzava una di quelle grosse rocce fatte a pernio, o rocce a bilico, come dicono alcuni, che avrà pesato duecento tonnellate circa. Era la cosa che ci voleva. Io tornai al campo, tenendo gli occhi aperti per vedere che il mammut non fuggisse, e andai in cerca delle mie munizioni. Non avrebbero più servito a nulla, col fucile rotto, così io apersi le cartucce, misi la polvere sotto la roccia e l’accesi con la miccia. Non era una carica forte, ma il vecchio masso si agitò pigramente e cadde sul posto, lasciando proprio soltanto lo spazio sufficiente per lo scolo del ruscello. Ora io lo tenevo!»
«Ma in che modo lo tenevate?» chiesi «Chi ha mai sentito di un uomo che abbia ucciso un mammut con un’ascia? E d’altra parte, con quale altra cosa?»
«O Uomo, non vi ho detto ch’io ero diventato pazzo?» replicò Nimrod con un leggero cenno di risentimento. «Completamente pazzo per la perdita del mio fucile e di Klooch? E ancora, non ero io un cacciatore? E non era questa una nuova e più insolita partita? E l’ascia? Bah! Io non ne avevo bisogno. Ascoltate, e voi udrete di una caccia tale come può essere accaduta nella gioventù del mondo, quando gli uomini delle caverne cacciavano e uccidevano con delle armi di pietra. Tale arma mi avrebbe servito ugualmente bene. Ora, non è un fatto che l’uomo può stancare la forza del cane e del cavallo ? Ch’egli può logorare la loro energia con la forza della sua intelligenza e della sua resistenza?»
Io assentii.
«Ebbene?»
La luce si fece a un tratto in me e io gli ingiunsi di continuare.
«La mia piccola valle sarà stata forse di cinque miglia in giro. Lo sbocco era ostruito. Non c’era via d’uscita. Ed era una timida bestia quel grosso mammut, ed io l’avevo in mio potere. Io mi misi alle sue calcagna, lo inseguii aprendo le ostilità, lo colpii a sassate e lo feci correre attorno alla valle per ben tre volte prima di sospendere la corsa per fare la mia cena. Non capite? Era una partita alle corse. Un uomo e un mammut! Era un ippodromo che aveva per spettatori il sole, la luna e le stelle!
Mi prese due mesi di tempo, questa caccia, ma infine riuscii. E questa non è la fantasia di un cacciatore. Io lo rincorrevo attorno attorno tenendomi nel circolo interno, mangiando carne seccata e bacche saporose che prendevo nella mia corsa, e a intervalli chiudevo gli occhi per un po’ di riposo. Naturalmente il mammut diveniva sempre più esasperato. Infine io mi diressi verso un terreno molle dove il torrente si allargava e scagliai la mia maledizione su di lui e sui suoi antenati e lo sfidai a farsi avanti. Ma era troppo saggio per avanzare in un pantano. Una volta egli m’inchiodò contro una roccia e io strisciai indietro dentro un profondo crepaccio e attesi. Ogni volta ch’egli cercava di raggiungermi con la proboscide io lo colpivo con l’ascia ed egli si tirava indietro barrendo così acutamente da rompermi i timpani delle orecchie. Pareva pazzo. Egli sapeva che mi teneva e pur non m’aveva, e questo lo inferociva. Ma non era la pazzia dell’uomo, la sua. Egli sapeva che ero salvo sino a che stavo in quel crepaccio e pensava di mantenermici imprigionato. E il suo pensiero era perfettamente giusto; solo non aveva considerato le necessità dello stomaco. Là in quello spazio, non c’era acqua né cibo, ed egli non poté sostenere a lungo l’assedio. Egli stette davanti l’apertura del crepaccio per delle ore tenendo un occhio sopra di me e agitando le sue enormi orecchie per allontanare le zanzare. Quand’era preso dalla sete girava attorno con possenti barriti finché la terra tremava, e mi scagliava tutti gli insulti che poteva mettere nel suo linguaggio. Questo m’impressionò, naturalmente, e quando egli pensò ch’io fossi sufficientemente intimorito si allontanò piano e tentò di arrivare al torrente. Qualche volta lo lasciavo avvicinare all’acqua – un duecento jarde lontano – poi a un tratto uscivo dal mio rifugio ed egli tornava indietro con un rombo come di frana. Dopo che io ebbi ripetuto questo gioco un po’ di volte, ed egli lo ebbe capito, cambiò tattica. Allora tentò di speculare sul tempo, capite? Senza un preavviso egli se ne andò alla ricerca dell’acqua, come un pazzo, progettando di ritornare prima che io fossi corso via. Finalmente dopo avermi scagliato le sue imprecazioni tolse l’assedio e si diresse verso lo stagno, deliberatamente.
Questo fu il solo tempo in cui mi tenne prigioniero – tre giorni – e dopo questo la corsa non si fermò più. Noi corremmo attorno attorno, senza fermarci, – i miei abiti si laceravano e andavano a pezzi né io mi fermavo a rattopparli; infine io corsi nudo come un figlio della terra con null’altro che l’ascia in un mano e una pietra nell’altra. Infatti io non mi fermai più, eccetto che per qualche minuto di sonno in un crepaccio o sull’orlo di una rupe. Nel frattempo il mammut andava sensibilmente dimagrendo, doveva aver perduto parecchie tonnellate, ed era nervosa come una zitella a cui si parli di matrimonio. Quando io mi scagliavo contro di lui e urlavo, o lo colpivo con delle grosse pietre a lunga distanza, egli balzava come un puledro vivace e la terra tremava. Poi si dava a correre con la coda e la proboscide ondeggianti, irrigidite, la testa piegata da un lato e l’occhio acceso di una luce cattiva, e le sue imprecazioni contro di me erano qualche cosa di terribile. Era una bestia immorale, era un assassino, un bestemmiatore.
Ma sul finire egli abbandonò la sua tracotanza e si diede a lamentarsi e a piangere come un bambino. Il suo spirito s’infranse ed egli divenne una tremante montagna di miseria. Ebbe attacchi di palpitazione al cuore e andò barcollando come un uomo ubriaco, con dei barriti lamentosi.
E poi pianse, pur continuando a correre, O Uomo, gli stessi dei avrebbero pianto con lui, e voi stesso, e qualunque altra creatura. Io ero intenerito, e ce n’era ragione, ma cercavo d’indurire il mio cuore, e affrettavo il mio passo. Infine lo ridussi all’estremo, ed egli giacque quasi senza respiro, col cuore spezzato, affamato e assetato. Quando vidi che non avrebbe potuto più muoversi gli tagliai i tendini delle gambe posteriori e passai l’intera giornata a maneggiare l’ascia su di lui, allo scopo di finirlo. Egli era lungo trenta piedi e alto venti, e un uomo avrebbe potuto tendere un’amaca fra le sue zanne e dormirvi comodamente. Escludendo il fatto che nella corsa aveva consumato molto del suo grasso, trovai ch’era un eccellente alimento, e le sue quattro zampe sole, arrostite, sarebbero state sufficienti a un uomo per un anno. Io stesso passai là l’inverno».
«E dov’è questa vallata?»
Egli agitò la mano in direzione nord-est e disse: «Il vostro tabacco è molto buono; me ne porto con me una buona porzione, ma ne conserverò il ricordo finché vivo. In segno del mio apprezzamento, e in cambio delle scarpe da neve che portate ai piedi, io vi farò presente di questi muclucs. Essi ricordano la memoria di Klooch e dei sette ciechi piccoli cuccioli. Essi sono anche il ricordo di un evento unico nella storia, vale a dire la distruzione della più vecchia razza d’animali sopra la terra e della più giovane. E la loro principale virtù sta in questo, che non si logoreranno mai».
Avendo effettuato lo scambio fece cadere la cenere dalla sua pipa, mi strinse la mano dandomi la buona notte, e si allontanò fra la neve. Riguardo questa storia per la quale ho declinato ogni responsabilità, io vorrei consigliare agli uomini di poca fede di fare una visita allo Smithsonian Institute. Se essi presenteranno le credenziali richieste e non andranno in periodo di chiusura otterranno indubbiamente una udienza dal Professor Dolvidson. I muclucs appartengono ora all’Istituto, ed egli attesterà, non del come vi sono pervenuti, ma del materiale di cui sono composti. Quando egli dichiari che sono fatti con pelle di mammut, il mondo scientifico accetterà il suo giudizio.
Che cosa volete di più?