2.
La sala riunioni dell’Edgar J. Hoover Building, a Quantico, era piena per metà. La maggior parte delle persone che stavano prendendo posto sulle poltroncine erano uomini in borghese, ma c’erano alcune donne e un paio di sceriffi in uniforme.
A occhio e croce Smith stimò che fossero una trentina.
La dottoressa Holt era seduta in prima fila, accanto a un signore sulla cinquantina, col quale stava sussurrando fittamente.
Del capo-sezione Mitchell e dell’agente speciale Jenkins non c’era ancora traccia.
La cartelletta sotto braccio, Smith osservò i suoi colleghi. Gli sembravano troppi per sei cadaveri in tutto.
Varie persone lanciavano rapidi sguardi alla dottoressa Holt, che sembrava non accorgersene e continuava il suo fitto scambio con il vicino di posto. Lui aveva l’aspetto di un ex-marine.
Ora che la vedeva alla luce fin troppo chiara dei neon, Smith si rendeva conto di quanto lei somigliasse al padre. Il fatto che fosse sua figlia l’aveva sconvolto. Non ricordava nemmeno che Chris Holt avesse avuto una figlia. Ricordava che era stato sposato, naturalmente. Ricordava la donna, anche se non ne ricordava il nome. La dottoressa somigliava di più a lui. Aveva lo stesso profilo regolare e la stessa bocca rossa. Holt era stato piuttosto bello – uno dei motivi della sua fama imperitura – ma lei era soltanto graziosa, niente di più. Smith credeva di ricordare che anche la madre era piuttosto bella. Decisamente la dottoressa aveva preso le sue gambe (al processo le telecamere le avevano riprese più di una volta) ma per il resto era sputata al padre.
Smith si chiedeva come poteva essere stata la sua infanzia. Viveva con la madre o era stata adottata da qualcuno?
Mitchell, Jenkins e il vice-direttore Bell entrarono da una delle porte della sala. Il brusio degli intervenuti si alzò e si riabbassò fin quasi a spegnersi. La Holt smise di sussurrare con il suo vicino.
Mitchell salì sulla pedana, dietro al leggio, mentre Bell si sedeva in prima fila. Jenkins andò dal proiettore e collegò un computer portatile.
«Buongiorno a tutti e grazie di essere venuti» disse Mitchell, nel microfono.
«Per alcuni di voi oggi diremo delle grosse novità. Lasciate che mi scusi anticipatamente per avervi tenuti all’oscuro di fatti così importanti, ma pensavamo che separare le due linee di indagine fosse per il meglio. Ormai ci siamo resi conto che è per il peggio, ma abbiamo tenuto il segreto ancora per un po’ per non correre rischi che arrivassealla stampa».
Ci fu un innalzarsi del mormorio, che poi si spense lentamente.
«Ora ripercorreremo brevemente i fatti.» Fece un cenno verso Jenkins, che accese il proiettore e andò ad abbassare le luci.
Sullo schermo dietro Mitchell comparve la fotografia di un uomo appeso per i piedi a testa in giù. Sotto di lui c’era un bacile di metallo su cui erano posate molte mosche. L’uomo era color gesso, con il viso quasi viola, gonfio, le braccia che penzolavano oltre la testa, rigate di sangue a partire dall’incavo dei gomiti. Il sangue evidentemente aveva gocciolato nel bacile dalle sue dita.
«Il 15 marzo 1994, nel magazzino abbandonato di una ditta di biscotti in scatola, nella periferia est di Detroit, fu trovato il corpo nudo, appeso per i piedi e dissanguato di Neil Osvald, cinquantuno anni, originario di Detroit e con un precedente per molestie su un minore».
Trenta paia d’occhi seguirono la curva flaccida del ventre di Osvald fin dove era visibile il minuscolo pene color gesso e poi su per le gambe, fino ai piedi legati strettamente con una corda da nave.
«Come saprete, questo è il primo crimine a noi noto dell’assassino seriale conosciuto come il Vampiro».
Una seconda immagine sostituì la prima. Si trattava di un ingrandimento della bacinella, dalla quale le mosche erano state allontanate.
«Il modus operandi del cosiddetto Vampiro nel corso degli anni è cambiato poco. Incide la vena mediana all’altezza dei gomiti e aspetta la morte per dissanguamento della vittima».
L’immagine cambiò, mostrando un dettaglio delle mani del cadavere.
«Come potete vedere alcuni segni di legatura suggeriscono che nelle prime fasi del dissanguamento le mani delle vittime sono legate, successivamente, quando sono ormai troppo deboli per fermare l’emorragia, vengono sciolte. Questo ci dice che il Vampiro sta lì a guardare almeno fino a quel momento».
La successiva immagine mostrava un cadavere molto simile al primo. L’uomo nella fotografia era più magro e più giovane del precedente, ma la posizione era la stessa.
«8 settembre 1995» disse Mitchell. «Stuart Hopkins, trentatré anni, pregiudicato per atti osceni in luogo pubblico – si trattava del cortile di una scuola elementare – viene ritrovato in un deposito per oggetti alla periferia di Chicago. Il guardiano lo trova poche ore dopo la morte, perché lo sportello del box era stato lasciato socchiuso. Come notate il modus operandi è identico a quello del caso precedente. Avete ulteriori dettagli sulle vittime nel fascicolo che Ally sta distribuendo».
Comparve un ingrandimento dell’argano a cui era legata la corda e al punto in cui era assicurato al soffitto di lamiera del box.
«In questo caso mancava un gancio a cui appendere la carrucola sul soffitto. Il Vampiro ha forato la lamiera del box per attaccarne uno. I nostri esperti hanno calcolato che se Hopkins fosse stato più pesante di cinque chili il soffitto non avrebbe retto. Questo è anche il momento in cui l’FBI è stato consultato per la prima volta. La relazione con il caso precedente è venuta fuori circa due settimane dopo il ritrovamento grazie al Vicap».
Comparve un’altra immagine di un cadavere. Si trattava di un uomo piuttosto grasso, calvo, dall’età indefinibile.
«15 dicembre 1996. Notate che tra il secondo e il terzo omicidio passa meno tempo che tra il primo e il secondo, anche se di poco. Yang Miong, di origine coreana, quarantuno anni, condannato a dieci anni per violenza sessuale su una bambina di dieci, in semi-libertà dopo sette anni e ucciso un anno dopo. Siamo in un capannone alla periferia di Baltimora. Notate che si tratta sempre di città di una certa importanza. La corda è stata fissata alla struttura superiore di un muletto. Il fatto interessante è che manca la carrucola, quindi la vittima, che pesava centoventi chili, è stata issata a forza di braccia, facendo scorrere la corda attorno alla sbarra del muletto. In questa occasione troviamo tracce di sangue diverso da quello della vittima sopra la corda. Il Vampiro probabilmente si è fatto male mentre tirava. Visto che in nessun altro caso si è trovata traccia di sue cellule epiteliali sulla corda ipotizziamo che questa volta gli si sia rotto un guanto. Sul sangue reperito sono state fatte delle analisi: quella per il gruppo sanguigno, che è zero negativo, e quella del DNA».
Altra immagine, ed era un altro uomo appeso per le caviglie. Magro, apparentemente sulla quarantina.
«10 gennaio 1998. In un magazzino di una cartiera in periferia di Boston. Mark Nancy, quarantatré anni, uscito da trentacinque giorni di prigione dopo aver scontato diciotto anni per aver violentato tre bambini. Osservate le mutilazioni genitali. È la prima volta che compaiono».
Un ingrandimento sulla zona pelvica del cadavere. «L’arma usata è un coltello dalla lama affilata, il momento, secondo il patologo, è prima che venissero praticati i fori sulle braccia, quando la vittima era ancora ben cosciente».
Comparve un’altra immagine. Questa mostrava un uomo legato a testa in giù con le gambe divaricate.
«Michael Gambon, trentadue anni, numerosi precedenti per molestie a bambini, due brevi condanne alle spalle. Trovato il 30 dicembre 1998 in un capannone abbandonato alla periferia di New York».
Un ingrandimento sulla zona pelvica.
«Il Vampiro cambia la posizione della vittima. Le mutilazioni genitali sono più estese. I fori sulle braccia sono successivi, come si può evincere dalla perdita ematica imponente nella zona pelvica. Probabilmente il Vampiro ha atteso che l’emorragia si riducesse prima di aprire i due fori all’interno degli avambracci».
Venne proiettata un’altra immagine. Questa volta si trattava di qualcosa di completamente diverso. Ritraeva una donna nuda stesa in posizione semi-supina su un terreno erboso. Il segno attorno alla gola, il gonfiore degli occhi e la bocca semi-aperta lasciavano intuire che era stata strangolata a mani nude. Il cadavere sembrava piuttosto recente. La pelle era chiara e pallida, priva di segni di decomposizione. I capelli erano scuri e arruffati.
Era una bella ragazza sui venticinque anni, con le unghie smaltate di nero.
Nella sala ci fu un forte mormorio. Mitchell attese che si placasse prima di continuare a parlare.
«Il 21 agosto 1999, sul ciglio della statale nove, nelle vicinanze di Sheffield, Massachusetts, viene ritrovato il corpo di Amy Lietchevska, impiegata presso un’assicurazione a Sheffield, ventiquattro anni, single. Poco prima della morte, pochi minuti prima della morte la Lietchevska aveva avuto un rapporto sessuale con una persona che indossava un preservativo. Le sue unghie sono state pulite attentamente, ma sul corpo è stata trovata una piccola fibra di tessuto sintetico, probabilmente proveniente da un rivestimento o da un copriletto».
Un ingrandimento sulla gola della vittima. «Dalle impronte delle mani è stato possibile desumere che dalla punta del medio al polso misuravano ventiquattro centimetri, il che lascia pensare che l’assassino sia abbastanza alto, anche se non è sicuro. Amy Lietchevska è la prima vittima riconosciuta dell’assassino seriale noto come lo Strangolatore».
Comparve un’altra immagine. Si trattava di un uomo appeso per i piedi. C’erano mutilazioni ai genitali e alla pancia, molto estese.
«Questo è Robert Kovach, di cinquantun anni, precedenti per diffusione di materiale pedo-pornografico, come è stato ritrovato il 4 settembre 1999 in un capannone abbandonato alla periferia di Northampton, Massachusetts».
Il brusio si riaccese, più alto di qualche tono. Mitchell picchiettò sul microfono per chiedere il silenzio.
«Il Vampiro sembra arrabbiato» commentò.
L’immagine cambiò è comparve la fotografia di una seconda donna riversa in un fosso. Era nuda come la precedente, in stato di putrefazione più avanzato, con le parti molli mancanti. I capelli erano castano-ramati, altri dettagli erano impossibili da rilevare.
«Questa è quella che definiamo Vittima Numero Due dello Strangolatore. A oggi non siamo riusciti a identificarla. L’età approssimativa è di venticinque anni, la razza caucasica. Causa della morte asfissia. È rimasta esposta agli animali per almeno cinque giorni, con i risultati che potete vedere. Prima della morte ha consumato un rapporto con qualcuno che usava un preservativo. È stata ritrovata accanto alla statale 564 in prossimità di Denton, North Carolina, il 6 marzo 2000».
L’immagine successiva era quella di un’altra ragazza. Caschetto scuro e occhi azzurri, fisico da modella, giaceva nell’erba, abbandonata come un giocattolo rotto. Il collo mostrava evidenti segni di strangolamento.
«9 dicembre 2000. Nei pressi di Holy Creek, Arkansas, viene ritrovata Mary Reed, venticinque anni. Come le altre due è stata strangolata durante o immediatamente dopo un rapporto sessuale consumato con un preservativo, apparentemente consensuale».
Comparve un’altra immagine.
«Permettetemi di andare avanti. Avete tutto il materiale nella cartella. 13 gennaio 2001. Keith Ubermann, periferia di Seattle, una vittima del Vampiro». Un’altra foto. «7 febbraio 2002, periferia di Boston, Miles Deventport, quarantanove anni, uscito da tre dall’istituto psichiatrico criminale dove era stato rinchiuso per le sevizie inflitte a nove bambini tra i sei e i tredici anni. La sua diagnosi era disturbo paranoide delirante e disturbo schizoide di personalità. Mancano le mutilazioni genitali».
Sullo schermo bianco comparve il corpo nudo di una ragazza castana. Giaceva scompostamente sull’asfalto screpolato, illuminata da un riflettore.
«15 giugno 2003. Karen Hoffman viene ritrovata in una piazzola di sosta dell’interstatale 19, nei pressi di Troutdale, Virginia. Presenta segni di un rapporto anale, con preservativo, e di un rapporto vaginale, senza, con presenza di liquido seminale».
Mitchell fece una pausa per sottolineare l’importanza della questione.
«In questo modo siamo venuti a conoscenza del fatto che l’assassino noto come Strangolatore è un secretore, e abbiamo potuto confrontare il suo DNA con gli altri presenti nell’archivio. Abbiamo avuto una corrispondenza con quello ricavato dalle macchie di sangue sulla corda usata per sospendere Yang Miong».
Nella sala si diffuse un brusio il cui tono saliva e saliva. Mitchell rimase in silenzio fin quando lo ritenne necessario, poi fece cenno a Jenkins di passare la successiva fotografia.
Era una della serie del Vampiro. Un uomo piuttosto robusto era appeso a gambe divaricate al binario di ferro che correva su un soffitto. Il suo corpo candido aveva la parte anteriore coperta di rosso-bruno.
«24 giugno 2003. Siamo in un mattatoio in disuso alla periferia di Philadelphia. La vittima è Oreste Bianchi, trentacinque, precedenti per commercio on-line di materiale pedo-pornografico e per molestie sessuali nei confronti di una bambina di tre anni, mai provate. Le mutilazioni sono le medesime del caso Kovach.»
Smith conosceva già la fotografia successiva. Era quella della ragazza che aveva visto nel fango poche ore prima.
«Infine, questa mattina, 2 gennaio 2004, è stata trovata un’altra vittima che probabilmente può essere attribuibile allo Strangolatore, di nuovo qua in Virginia. Il suo nome ci è ancora sconosciuto, così come i dati autoptici. La sua età è stata stimata attorno ai trent’anni.»
Lo schermo si fece blu e poco dopo le luci al neon vennero ri-accese.
Mitchell guardò l’orologio.
«Ora faremo dieci minuti di pausa. Grazie.»
E Smith ebbe la soddisfazione di vedere Mitchell che se la dava a gambe.
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Si alzò e si avvicinò alla Holt, che era già circondata di persone.
«No che non ero d’accordo» la sentì dire, in tono spazientito, «ma mi è stato ordinato di starmene zitta, o pensi che possa permettermi di mandare a gambe all’aria un’indagine federale?».
Il suo interlocutore brontolò qualcosa di incomprensibile, visto il frastuono che c’era nella sala.
«Dottoressa Holt?» disse Smith.
Lei si voltò verso di lui, dando le spalle a qualcun altro.
«Potrei scambiare due parole con lei in privato, riguardo all’ultima vittima?».
Lei annuì seccamente, facendosi largo tra la gente e mormorando delle scuse. Lo precedette fuori dalla sala e poi lungo un basso corridoio.
«In un certo senso mi ha salvato. Sempre che anche lei non voglia rimproverarmi per aver retto il gioco all’FBI» disse, quando furono abbastanza distanti.
Smith scrollò la testa con la sua perpetua aria torva.
«No. È che il capo-sezione Mitchell se l’è data a gambe e così…»
«Ha qualche novità?»
Lui annuì di nuovo. Diavolo se riusciva a metterti in soggezione, quella donna, pensò. «Me l’hanno detto poco prima dell’inizio della riunione. Hanno trovato delle lacrime. Forse è possibile ricavarne del DNA».
La Holt aggrottò la fronte.
«Lacrime» ripeté.
Smith la prese per una richiesta di chiarimenti. «Sì, dottoressa. Essiccate, sopra le guance e il petto della vittima».
Lei sorrise in modo distante. «Oh, sì. Lacrime. Ha mai sentito parlare del pianto del coccodrillo, tenente Smith?».
«Sì, certo. Intende dire che si pente, subito dopo averle uccise?».
La dottoressa ridacchiò. Non era uno spettacolo molto rassicurante. A Smith ricordò suo padre, che rideva durante uno dei suoi molti processi, mentre lo accusavano dei più atroci crimini.
«No, tenente. Non è pentito dopo aver ucciso una donna. È arrabbiato per non essere riuscito a controllarsi».
«Lacrime di rabbia?»
Lei scosse la testa. «Ancora no. Ha mai provato a stringere qualcosa con forza? Fino ad avere…»
«Le lacrime agli occhi!» esclamò lui.
La dottoressa Holt parve soddisfatta. «Sì, tenente. L’ha strangolata così forte da lacrimare per lo sforzo».
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Mitchell riprese posto dietro al leggio e invitò tutti a sedersi. Il vice-direttore Bell riuscì finalmente a liberarsi del gruppo di persone che volevano crocifiggerlo.
«Che cosa sappiamo dell’assassino noto sia come Vampiro che come Strangolatore, e che noi chiamiamo col nome in codice Henry?».
Henry Jenkins, che aveva trovato il suo nuovo posto già confezionato con questa bella sorpresa, grugnì ancora una volta, tra sé e sé, il suo disappunto. Mitchell gli aveva spiegato che il nome veniva da “Henry – pioggia di sangue” un film su un serial killer che aveva ispirato qualcuno della sua squadra. Jenkins aveva subito chiesto di essere chiamato solo per cognome.
«Ora vi dirò che cosa sappiamo di lui dal punto di vista delle evidenze fisiche. Sappiamo che il suo gruppo sanguigno è zero negativo e abbiamo il suo DNA. Un possibile testimone afferma di aver visto un uomo snello e con i capelli scuri, di cui non saprebbe definire l’età se non dicendo che non era ancora vecchio. Purtroppo questo non ci aiuta molto, anche perché non possiamo essere sicuri che il testimone abbia visto davvero Henry e non qualcun altro. Anche dandogli il massimo credito, quest’uomo non è in grado neanche di definire la razza della persona che ha visto».
Mitchell sfogliò i suoi appunti.
«Sappiamo che in un’occasione ha guidato un furgone Volkswagen color crema di targa sconosciuta, perché è stato visto mentre se ne andava dal custode del deposito oggetti dove ha ucciso Miong».
Continuò a enumerare, contando con le dita.
«Sappiamo che era già uscito una volta con Mary Reed prima di ucciderla, perché lei, la mattina prima di essere trovata morta, confidò a una sua amica di aver conosciuto un…» Mitchell si chinò sugli appunti «…Bel tizio e che sarebbe uscita con lui quella sera».
Mitchell, i gomiti appoggiati al leggio, sollevò la testa verso la sala.
«Dopo quattordici omicidi, forse di più, questo è più o meno quello che sappiamo di lui. Quindi bisogna ammettere che sappiamo anche un’altra cosa: è molto intelligente. Passo la parola alla dottoressa Almond Holt, consulente del Vicap e collaboratrice dell’Unità di Scienze Comportamentali, che segue con noi da tre anni i delitti del Vampiro e poi di Henry».