In silenzio siamo tornati in biblioteca, e pochi istanti dopo mi sono chiuso in camera mia. L'ultima immagine del Conte è stata di lui che mi inviava un bacio sulla mano: con un rosso barbaglio di trionfo negli occhi, e con un sorriso da far invidia a Giuda giù all'inferno.
Una volta nella mia stanza, sul punto di coricarmi, ho avuto l'impressione di udire un bisbiglio all'uscio. Mi ci sono accostato in punta di piedi, tendendo l'orecchio. E, a meno che l'udito non m'abbia ingannato, ho sentito la voce del Conte:
“Indietro, indietro, al vostro posto! La vostra ora non è ancora suonata. Attendete! Abbiate pazienza. Questa notte è mio. Domani notte sarà vostro!” C'è stato un sommesso, dolce gorgoglio di risatine, e infuriato ho spalancato l'uscio, e lì stavano le tre terribili donne, a leccarsi le labbra. Al mio apparire, sono scrosciate in un'orribile sghignazzata, e via!
Sono tornato dentro, mi son gettato in ginocchio. È dunque così prossima la fine? Domani! Domani! Signore, soccorri me e coloro cui sono caro!
30 giugno, mattina. Queste sono forse le ultime parole che scrivo in questo diario. Ho dormito fino a un istante prima dell'alba, e svegliandomi mi sono gettato in ginocchio, poiché ho deciso che, se morte deve essere, deve trovarmi pronto.
Alla fine ho avvertito quell'infinitesimale mutamento nell'aria, e ho intuito che il mattino era giunto. Poi s'è fatto udire il benvenuto canto del gallo, e ho saputo di essere salvo. Col cuore traboccante di gioia, ho aperto l'uscio, mi sono precipitato giù, nell'atrio. Il portone, l'avevo visto, non era sbarrato, e ormai lo scampo m'era dinnanzi. Con mani tremanti di brama, ho sciolto le catene, ho sfilato i massicci chiavistelli.
Ma il battente non si è mosso. La disperazione mi ha colto. Ho tirato, tirato, l'ho scosso finché, pesante com'era, ha vibrato sui cardini. E allora mi sono accorto che la serratura era stata chiusa. Chiusa dopo che mi ero separato dal Conte!
E allora, un selvaggio desiderio mi ha preso di procurarmi la chiave a ogni costo, e seduta stante ho deciso di scalare nuovamente il muro e di raggiungere la camera del Conte. Poteva uccidermi, ma la morte adesso mi sembrava, tra i tutti i mali, la scelta migliore. Senza un attimo di sosta, mi sono precipitato alla finestra che dà a est, mi sono calato lungo la muraglia e, come la prima volta, rieccomi nella stanza del Conte. Vuota, ma era quanto m'aspettavo. Chiavi non se ne vedevano da nessuna parte, ma il mucchio d'oro sì. Ho infilato la porta di fronte, e giù per la spirale della scala e lungo il buio corridoio, alla vecchia cappella. Ora lo sapevo bene, dove trovare il mostro che cercavo.
La grande cassa era allo stesso punto, contro la parete, ma il coperchio era posato su di essa, non sigillato ma con i chiodi già al posto loro, pronti per esservi conficcati. Sapevo di dover frugare il corpo in cerca della chiave, per cui ho sollevato il coperchio, l'ho appoggiato alla parete: e allora ho visto qualcosa che mi ha riempito d'orrore sino in fondo all'anima. Lì giaceva il Conte, ma si sarebbe detto che la giovinezza in lui fosse rinata, ché i capelli e i baffi bianchi erano divenuti grigio ferro; le guance erano più piene, la pelle sembrava soffusa di rosa; più rossa che mai la bocca, poiché sulle labbra erano gocce di sangue fresco che ruscellavano dagli angoli, scivolando sul mento e il collo. Persino gli occhi incavati, ardenti, sembravano incastonati in turgida carne, ché le palpebre e le borse sotto di essi sembravano rigonfie. Si sarebbe detto che quell'immonda creatura fosse tutta repleta di sangue. Giaceva lì, come un'oscena sanguisuga, esausta per essersene ingozzata. Rabbrividendo mi sono chinato a toccarlo, e ogni mio senso si è rivoltato al contatto; ma cercare dovevo, o sarei stato perduto. La notte successiva avrebbe potuto vedere il mio proprio corpo oggetto di un simile banchetto per le tre orribili. L'ho frugato in tutto il corpo, ma non ho trovato traccia della chiave. Allora mi sono arrestato e ho guardato il conte. Sul suo volto congestionato aleggiava un sorriso beffardo che m'ha fatto quasi impazzire. Quello era l'essere cui davo una mano per trasferirsi a Londra dove, forse per secoli e secoli, tra i milioni di abitanti della città brulicante, avrebbe saziato la sua brama di sangue e creato una nuova, sempre più vasta genia di mezzi demoni con cui dare addosso agli indifesi. Un pensiero che mi faceva salire le fiamme al cervello, e sono stato colto dal violento desiderio di liberare il mondo da siffatto mostro. Non avevo armi mortifere a portata di mano, ma ho dato di piglio a una vanga usata dagli operai per riempire le casse, e l'ho levata in alto, menandola, con la lama di taglio, verso il volto odioso. Ma, in quel mentre, la testa si è voltata, gli occhi mi si sono puntati addosso, quand'erano grandi, con il loro ardore di orribile basilisco. E quella vista mi ha paralizzato, la vanga mi si è girata in pugno e ha colpito di piatto, aprendo null'altro che uno squarcio sulla fronte. Poi l'arnese mi è caduto di mano, e, come ho fatto per riafferrarlo, l'orlo della lama si è impigliato in quello del coperchio che è ricaduto, nascondendo al mio sguardo quell'orribile cosa. L'ultima visione che ne ho avuto è stata del volto rigonfio, macchiato di sangue, immobilizzato in un sorriso maligno che avrebbe fatto la sua figura nel peggiore degli inferni.
A lungo, a lungo, ho riflettuto sulla mia prossima mossa, ma mi sembrava di avere il fuoco dentro il cranio, e attendevo, mentre un sentimento di disperazione si impadroniva di me. E mentre aspettavo, ho udito in distanza una canzone zingaresca intonata da voci allegre che andavano avvicinandosi e, tra le note, l'acciottolio di ruote pesanti e lo schiocco di fruste; gli Szgany e gli slovacchi di cui aveva parlato il Conte stavano giungendo. Con un'ultima occhiata attorno a me e alla cassa contenente l'immondo corpo, sono fuggito di corsa riguadagnando la stanza del Conte, deciso a precipitarmi fuori non appena il portone si fosse aperto. Ascoltavo, le orecchie tese, e di sotto ho udito la chiave cigolare nella gran toppa, ho udito spalancarsi il pesante battente. Dovevano esserci altre vie d'accesso, ovvero qualcuno era in possesso di un'altra chiave. Poi, il suono di molti piedi scalpiccianti e allontanantisi lungo un corridoio che ne rimandava una sonora eco. Ho fatto dietrofront, pronto a precipitarmi nuovamente verso il sotterraneo, nella speranza di trovare l'ingresso che prima non avevo notato; ma proprio in quella mi è parso di avvertire una violenta folata di vento, e la porta della scala a chiocciola si è richiusa con tonfo tale da levare la polvere da sugli stipiti. Sono corso a riaprirla, ma solo per avvedermi che era disperatamente serrata. Ero nuovamente prigioniero, e la rete della sorte mi stringeva sempre più dappresso.
Mentre scrivo, mi giunge dal corridoio sottostante il trepestio di molti piedi, e il tonfo di oggetti pesanti che vengono spostati a fatica, senza dubbio le casse con il loro carico di terra. C'è un suono di martelli; i coperchi vengono inchiodati. Ed ecco ora passi pesanti nell'atrio, seguiti da quelli di molti altri piedi strascicati.
Il portone si chiude; le catene tintinnano; la chiave cigola nella serratura; sento che la ritirano: poi, un'altra porta s'apre e si chiude, e ancora il cigolio del chiavistello.
Odi! Nel cortile e giù per il sentiero sassoso, il fragore di pesanti ruote, lo schiocco delle fruste, il coro degli Szgany che vanno e s'allontanano.
Sono solo nel castello con quelle atroci donne. Puah! Anche Mina è una donna, ma tra loro non c'è niente in comune. Quelle sono demoni dell'abisso!
Non resterò solo con loro; tenterò di calarmi lungo il muro del castello, spingendomi più in là di quanto non abbia fatto finora.
Prenderò con me un po' di quell'oro, forse ne avrò bisogno. Può darsi che riesca a trovare la via che conduce lontano da questo luogo spaventevole.
E poi, a casa! Verso il treno più vicino e più rapido! Via da questo posto maledetto, da questa terra dannata, dove il diavolo e i suoi rampolli ancora camminano con piedi umani!
Meglio comunque affidarsi alla misericordia di Dio che a quella di codesti mostri, e il precipizio è erto e profondo. Ai suoi piedi, un uomo può dormire - ed essere ancora uomo. Addio tutti! Mina!