Trascorso un paio d'ore, ho sentito qualcosa accadere nella camera del Conte, qualcosa di simile a un acuto gemito tosto represso. Poi, silenzio, profondo, spaventoso silenzio, e ne sono stato raggelato.
Con il cuore in tumulto ho tentato l'uscio, ma ero serrato nella mia prigione, nulla potevo fare. Mi sono seduto e mi sono messo a piangere, ecco tutto.
Mentre così me ne stavo, ho udito un suono fuori, nel cortile - il grido disperato di una donna. Mi sono precipitato alla finestra e, spalancatala, ho guardato di tra le sbarre. C'era sì una donna, i capelli scarmigliati, le mani strette al cuore, come esausta dopo una corsa. Si appoggiava a uno stipite del portale e, scorgendo il mio volto alla finestra, si è buttata in avanti urlando con voce gravida di minaccia:
“Mostro, ridammi mio figlio!”
Si è gettata in ginocchio, ha levato le braccia al cielo, ripetendo quelle stesse parole con tono tale da straziarmi il cuore. Poi si è strappata i capelli, si è battuta il petto, si è abbandonata a tutte le violenze di una disperazione senza limiti, e alla fine è corsa ai piedi del castello, dove più non potevo vederla, ancorché la sentissi picchiare con le mani nude contro il portone.
Da qualche punto, lassù in alto, probabilmente dalla torre, ho udito allora la voce del Conte, ed era un appello lanciato in un sussurro aspro, metallico: un richiamo che è sembrato trovare eco nel lontano, vasto ululare di lupi. E pochi istanti dopo, ecco una muta di belve riversarsi nel cortile, come acqua che erompa da una diga infranta, attraverso l'ampio portale.
Non ci sono state grida da parte della donna, e il latrare dei lupi è stato breve. E poco dopo sono scivolati via uno alla volta, leccandosi il muso.
Non provavo pietà per lei, perché ora sapevo che cosa ne era stato del suo bambino, ed era meglio per lei che fosse morta.
Che fare? Che cosa posso fare? Come sfuggire a questa cosa atroce, fatta di notte, tenebre e paura?
22 giugno, mattina. Nessuno, finché non abbia passato una notte di tormenti, può sapere quanto dolce, quanto caro al suo cuore e al suo occhio può essere il mattino. E stamane, quando il sole è salito tanto da toccare con i suoi raggi la cima del grande portale di fronte alla mia finestra, mi è parso quello il punto dove si era posata la colomba uscita dall'arca. La paura mi è caduta di dosso quasi fosse un vaporoso sudario dissoltosi al tepore del giorno. Devo agire, fare qualcosa finché ho dalla mia il coraggio che mi infonde la luce dell'astro diurno. Ieri sera una delle mie lettere postdatate è partita - la prima di quella serie fatale destinata a cancellare dalla faccia della terra fin l'ultima traccia della mia esistenza.
Non devo pensarci. Agire, devo!
È stato sempre nottetempo che mi sono toccati turbamenti o minacce, che in un modo o nell'altro mi son trovato in pericolo o in preda alla paura. Ancora non ho visto il Conte alla luce del giorno. Che dorma quando altri vegliano, e vegli quando gli altri dormono? Se solo potessi entrare nella sua stanza! Ma è impossibile. L'uscio è sempre serrato, per me non vi si dà accesso.
Pure, un modo c'è, ma bisogna osare. Dov'è passato il suo corpo, perché non dovrebbe passarne un altro? L'ho visto con questi occhi strisciare fuori dalla finestra. E perché non dovrei imitarlo, perché non dovrei entrare per la sua finestra? E un'impresa disperata, ma ancor più disperata è la mia situazione. Rischierò. Nella peggiore delle ipotesi, sarà la morte; e la morte di un uomo non è quella di un vitello, e può darsi che il temuto Aldilà sia per me una liberazione. Dio mi aiuti nel mio compito! Addio, Mina, se fallisco; addio, fedele amico e secondo padre; addio a tutti. e per ultimo a Mina!
Lo stesso giorno, più tardi. Ho compiuto il tentativo e, con l'aiuto di Dio, sono tornato sano e salvo in questa stanza. E adesso, devo trascrivere per ordine tutti i particolari. Prima che il coraggio mi abbandonasse, sono andato senz'altro alla finestra che dà a sud, subito uscendone per trovarmi sullo stesso cornicione di sasso che corre lungo l'edificio sul quel lato. Le pietre sono grosse e rozzamente tagliate, e con l'andar del tempo la malta tra esse è stata dilavata. Mi sono tolto le scarpe avventurandomi per quella disperata via. Una sola volta ho guardato in basso, per esser certo che un'improvvisa visione dello spaventoso abisso ai miei piedi non mi sopraffacesse, poi però non ho più volto gli occhi in giù. Conoscevo fin troppo bene direzione e distanza della finestra del Conte, e a quella volta ho proceduto come potevo, approfittando di ogni appiglio.
Non ho provato vertigini - forse perché ero troppo teso - e mi è parso che sia trascorso un tempo ridicolmente breve tra l'inizio del percorso, e il momento in cui mi sono trovato in piedi sul davanzale della finestra, a cercare di sollevare l'impennata. Tuttavia, ero in preda a una grande agitazione quando, abbassandomi, ho infilato i piedi all'interno. Mi sono guardato intorno, alla ricerca del Conte ma, con grande sorpresa e gioia, ho scoperto che la stanza era vuota!
Era spartanamente ammobiliata con vecchi arredi, che avevano l'aria di non essere mai stati usati: suppergiù dello stesso tipo di quelli delle camere che danno a sud, e del pari coperti di polvere. Ho cercato la chiave, ma non era nella serratura, né sono riuscito a trovarla in nessun posto. L'unica cosa che ho scovato è stato un gran mucchio d'oro in un angolo - conii di tutte le specie, romani e britannici, austriaci e ungheresi, greci e turchi, ricoperti di una patina di sudiciume, come se a lungo fossero stati sotterra. Nessuno di quelli che ho esaminato contava meno di trecent'anni. C'erano anche catene e gioielli, alcuni tempestati di pietre preziose, tutti però antichi e opachi.
Dall'altra parte della stanza, un uscio pesante. L'ho tentato poiché, non riuscendo a trovare la chiave di quella stanza né del portone, che costituiva l'oggetto principale delle mie ricerche, non mi restava che compierne altre, pena sennò di vanificare tutti i miei sforzi. L'uscio era aperto e, per un corridoio di pietra, dava adito a una scala a chiocciola che scendeva ripida. L'ho seguita, facendo bene attenzione a dove mettevo i piedi, poiché la scala era buia, illuminata solo da feritoie praticate nella spessa muraglia. In fondo, un corridoio buio, simile a una galleria, dal quale emanava un lezzo mortifero, vomitevole, di vecchia terra rivoltata di fresco. E, mentre mi addentravo nel corridoio, sempre più vicino e più pesante si faceva il puzzo. Alla fine, ho spalancato un'altra, pesante porta che ho trovato socchiusa, ed eccomi in una vecchia cappella diroccata, che evidentemente era stata usata come sepolcreto. Il tetto era crollato, e in due punti v'erano gradini che conducevano a cripte, ma il suolo era stato di recente sconvolto, e la terra deposta nelle grandi casse di legno portate dagli slovacchi. Non si vedeva nessuno, e ho cercato un'altra uscita, ma invano. Allora ho esaminato pollice per pollice il terreno, onde non lasciarmi sfuggire nessuna possibilità. Sono sceso persino nelle cripte, là dove la luce fioca giungeva a stento, sebbene questo abbia significato far violenza all'anima mia. In due delle cripte, sono penetrato, ma nulla vi ho visto se non frammenti di vecchie bare e cumuli di polvere; nella terza, invece, una scoperta.
Perché lì, in una delle grandi casse, ed erano cinquanta in tutto, sopra uno strato della terra di recente scavata, giaceva il conte!
Morto o dormiente, impossibile dirlo - ché gli occhi erano spalancati e impietriti, non però vitrei come quelli dei cadaveri -, e le guance, nonostante il pallore, conservavano il calore della vita; e le labbra, rosse come sempre. Ma non c'era traccia di movimento: né polso, né respiro, né battito del cuore. Mi sono chinato su di lui, ho cercato qualche segno di vita, ma invano. Non poteva essere lì disteso da molto, perché l'odore di terra smossa è solito attenuarsi in poche ore. Accanto alla cassa, il coperchio, qua e là trapassato da fori. Ho pensato che avesse su di sé le chiavi, e stavo per frugarlo, quando ho scorto gli occhi morti, e in essi, per quanto morti, ho visto uno sguardo di odio tale, sebbene non fosse consapevole di me o della mia presenza, che da quel luogo sono fuggito e, uscendo dalla stanza del Conte per la finestra, mi sono riarrampicato lungo il muro del castello. Riguadagnata la mia stanza, ansimando mi sono gettato sul letto, sforzandomi di riflettere.
29 giugno. Oggi è la data della mia ultima lettera, e il Conte ha preso precauzioni atte a comprovare che è genuina, e infatti l'ho visto di nuovo lasciare il castello per la solita finestra, con indosso i miei abiti. Mentre calava lungo la muraglia a mo' di lucertola, ho desiderato di avere una pistola, un'arma letale qualsiasi, sì da poterlo distruggere; temo però che nessun'arma, brandita da mani semplicemente umane, avrebbe effetto su di lui. Non ho osato attenderne il ritorno, per tema di ritrovarmi di fronte a quelle tre parche. Sono tornato in biblioteca, e ci sono rimasto a leggere fino a cadervi addormentato.
A svegliarmi è stato il Conte, che mi è parso sinistro come nessun uomo non può sembrare, mentre diceva:
“Domani, amico mio, dobbiamo separarci. Voi tornerete alla vostra bella Inghilterra, io a incombenze tali che possono concludersi in modo da escludere che ci si incontri ancora. La vostra lettera a casa è stata spedita; domani non sarò qui, ma tutto sarà pronto per il vostro viaggio. Al mattino verranno gli Szgany, i quali hanno compiti da assolvere qui, e verranno anche alcuni slovacchi. Quando se ne saranno andati, la mia carrozza verrà a prendervi e vi porterà al Passo Borgo, dove prenderete la diligenza dalla Bucovina a Bistritz. Spero tuttavia che vi rivedrò a Castel Dracula.” Lo tenevo in gran sospetto, e ho deciso di mettere alla prova la sua sincerità.
Sincerità! Sembra di profanare questa parola, scrivendola a proposito di un siffatto mostro, ragion per cui gli ho domandato a bruciapelo:
“Perché non posso partire questa sera?”
“Perché, caro signore, il mio cocchiere e i miei cavalli sono via per un'incombenza.”
“Ma non mi dispiacerebbe camminare. Vorrei andarmene subito.” Ha sorriso: un sorriso così morbido, soave diabolico, da farmi intuire che dietro quella soavità s'annidava un inganno. Ha chiesto:
“E il vostro bagaglio?”
“Non me ne curo. Posso mandarlo a prendere successivamente.”
Il Conte si è levato in piedi e, con un'incredibile cortesia, tale che ho creduto di avere le traveggole, così vera sembrava, ha replicato:
“Voi inglesi avete un detto che mi è assai caro, poiché risponde allo stesso spirito che governa i nostri “boyar”: “Sia benvenuto all'arrivo chi si affretterà a partire.” Venite con me, mio caro, giovane amico. Neanche un'ora sosterrete in casa mia contro la vostra volontà, per quanto la vostra partenza mi addolori non meno del fatto che all'improvviso tanto la desideriate. Venite!” Con maestosa gravità, reggendo una lampada mi ha preceduto giù per la scala, lungo l'atrio.
Qui si è arrestato sui due piedi.
“Udite!”
Vicinissimo, sentivo l'ululare di molti lupi. Era come se il suono sgorgasse dal gesto della sua mano, così come la musica di una grande orchestra sembra fluire dalla bacchetta del direttore. Un attimo di pausa, poi, con quel suo incedere maestoso, è andato al portone, ha tirato i poderosi chiavistelli, ha sganciato le pesanti catene, ha cominciato a socchiuderlo.
Con mia immensa sorpresa, mi sono avveduto che chiuso non era.
Sospettoso, l'ho esaminato ben bene, ma non ho visto chiavi di sorta. Mentre il battente si apriva, l'ululato dei lupi lì fuori si è fatto più alto e rabbioso; rosse fauci armate di denti che sbattevano, zampe munite di artigli smussi sono comparse nello spiraglio. E mi sono reso conto che lottare allora con il Conte sarebbe stato vano. Con alleati simili ai suoi ordini, nulla io potevo. Ma la porta lentamente continuava ad aprirsi, e solo il corpo del Conte stava nel varco. E all'improvviso, mi è balenato che quello poteva essere il momento e il mezzo della mia fine: sarei stato consegnato ai lupi, e per mia stessa volontà. C'era una diabolica malvagità in quell'idea, grandiosa abbastanza da essere degna del Conte, e, ultima risorsa, ho gridato:
“Chiudete la porta; aspetterò sino a domattina!” E mi sono coperto il volto con le mani, a nascondere lacrime di amara delusione. Con un gesto solo del braccio possente, il Conte ha richiuso il portone, i grandi chiavistelli sferraglianti ed echeggianti nell'atrio mentre tornavano a scivolare nelle guide.