Capitolo secondo
Da quell’episodio erano trascorsi quindici anni di felice tranquillità. L’orfanello viveva ancora nella casa del guardaboschi, convinto di essere il figlio di Gilbert e Margaret Head.
Una bella mattina di giugno, un uomo d’età matura, vestito come un agiato agricoltore, in sella a un cavallo vigoroso, avanzava lungo la strada che dalla foresta di Sherwood conduceva al grazioso villaggio di Mansfield.
Il cielo era terso; il sole iniziava a posarsi su queste lande solitarie e il vento diffondeva nell’aria l’odore acre e penetrante delle foglie di quercia e i mille profumi dei fiori selvatici. Le gocce di rugiada brillavano sul muschio e sui fili d’erba come tanti piccoli diamanti; ai piedi degli alberi gli uccellini volteggiavano cantando e i daini bramivano. Dovunque la natura si ridestava e le ultime nebbie della notte fuggivano lontano.
Il viso del nostro viaggiatore s’illuminava di fronte a una giornata cosí bella; il petto si gonfiava, mentre l’uomo respirava a pieni polmoni e con voce forte e sonora lanciava al vento il ritornello di una vecchia canzone sassone, un inno alla morte dei tiranni.
D’un tratto una freccia gli sfiorò l’orecchio fischiando e andò a conficcarsi nel tronco di una quercia al lato della strada.
Il contadino, piú sorpreso che spaventato, saltò giú da cavallo, si nascose dietro un albero, tese l’arco e si mise in guardia. Tuttavia, per quanto passasse in rassegna ogni albero e tendesse l’orecchio a ogni minimo rumore, non riuscí a vedere né a sentire nulla.
Non sapeva che cosa pensare di quell’improvvisa aggressione. Forse si era semplicemente imbattuto in un cacciatore un po’ maldestro. In questo caso però avrebbe dovuto sentire il rumore dei suoi passi, l’abbaiare dei cani e magari persino vedere il daino in fuga che attraversava il sentiero.
Forse si trattava di un fuorilegge, uno dei tanti proscritti della contea che vivevano di assassini e rapine e trascorrevano le loro giornate ad assalire i viaggiatori? Eppure tutti questi vagabondi lo conoscevano. Sapevano che, pur non essendo ricco, non avrebbe mai negato un pezzo di pane e un bicchiere di birra a chi bussava alla sua porta.
Aveva forse offeso qualcuno che ora cercava di vendicarsi? No. Sapeva di non aver nemici in un raggio di venti miglia. Quale mano invisibile aveva voluto colpirlo a morte? A morte, già, perché la freccia gli aveva sfiorato la tempia tanto vicino da far svolazzare i capelli.
Immerso in simili pensieri, il nostro uomo diceva tra sé e sé:
– Non credo ci sia un pericolo imminente, altrimenti il mio cavallo lo sentirebbe. E invece se ne sta lí tranquillo a mangiare come se fosse nella stalla. Tuttavia se resta qui rischia di rivelare al mio assalitore dove mi nascondo. Ohi! Cavallo, al trotto!
Diede il comando con un fischio trattenuto e la docile bestia, abituata a questa manovra tipica del cacciatore che vuole isolarsi, drizzò le orecchie, gettò uno sguardo di fuoco in direzione dell’albero che proteggeva il suo padrone, gli rispose con un piccolo nitrito e si allontanò al trotto.
Inutilmente, per piú di un quarto d’ora, il contadino attese, vigile, un nuovo assalto.
– Orsú, – disse finalmente, – con la pazienza non si ottiene nulla: proviamo a giocare d’astuzia.
E cercando di immaginare dove potesse trovarsi il nemico in base alla direzione della freccia, ne tirò una a sua volta verso quel punto, nella speranza di spaventare il malfattore o di costringerlo allo scoperto. La freccia andò a conficcarsi in un albero; ma nessuno rispose alla sua provocazione. Allora ne lanciò una seconda; ma questa fu fermata in volo da un’altra freccia tirata da un arco invisibile, che la incrociò quasi ad angolo retto sopra il sentiero e la fece cadere piroettando a terra. Il colpo era stato cosí rapido e inatteso, e rivelava tanta destrezza di mano e d’occhio, che l’uomo, stupito, dimenticando il pericolo, saltò fuori dal suo nascondiglio.
– Che colpo! che colpo meraviglioso! – gridò correndo verso il margine del bosco per scoprire il misterioso arciere.
Gli rispose un’allegra risata, e non lontano una voce argentina e dolce quasi come quella di una donna intonò una canzone:
Ci son daini nella foresta, e fiori ai margini del bosco,
ma lascia il daino alla sua vita selvaggia,
lascia che il fiore cresca sul suo gambo flessibile
e vieni con me, amor mio, mio caro Robin Hood;
so che ami i daini che pascolano nella radura
e i fiori che incorniciano la mia fronte;
ma oggi abbandona la caccia e la raccolta
e vieni con me, amor mio caro Robin Hood.
– È Robin, quello sfacciato di Robin che canta, – disse l’uomo. – Vieni qua, ragazzo. Come? Osi tirare d’arco su tuo padre? Per san Cristoforo! Ho creduto che i banditi volessero farmi la pelle! Che figlio ingrato che prende a bersaglio la mia testa grigia! Ah! eccolo, – aggiunse il vecchio, – eccolo qua, il furfante: canta la canzone che ho composto per mio fratello Robin, quando il poveretto era fidanzato con la bella May.
– Come, mio buon padre! La mia freccia vi ha forse ferito solleticandovi l’orecchio? – rispose da dietro la boscaglia la voce di un ragazzo, che subito ricominciò a cantare.
Non ci sono nuvole sull’oro pallido della luna,
né rumori nella valle,
non ci sono altri suoni nell’aria,
se non la dolce campana del convento.
Vieni con me, amor mio, vieni con me mio caro Robin Hood,
vieni con me nell’allegra foresta di Sherwood,
vieni con me sotto l’albero che è stato testimone
della nostra prima promessa,
vieni con me, amor mio, vieni con me mio caro Robin Hood.
Gli echi della foresta ripetevano ancora il grazioso ritornello, quando un giovane che dimostrava vent’anni, benché ne avesse soltanto sedici, uscí dal bosco e si fermò davanti al vecchio contadino, che altri non era che il coraggioso Gilbert Head del primo capitolo della nostra storia.
Il giovane sorrideva e teneva in mano, rispettosamente, un berretto verde con una piuma di airone. Una massa di capelli neri leggermente ondulati coronava una fronte larga e piú bianca dell’avorio. Tra le lunghe ciglia splendevano due pupille di un azzurro scuro. Lo sguardo e i tratti del viso di Robin rivelavano, insieme con i sentimenti di una candida adolescenza, coraggio ed energia. La sua fine bellezza non aveva niente di effeminato e il suo sorriso era quello di un uomo padrone di sé. Aveva le labbra rosse, il naso dritto e fino, i denti bianchissimi.
Il sole lo aveva abbronzato, ma il candore della carnagione traspariva all’inizio del collo e al di sopra dei polsi.
Portava un berretto verde con una penna di airone, una giubba attillata di panno verde, calzoni di pelle di daino, alti calzari all’uso sassone, legati sopra le caviglie con fibbie di cuoio, una tracolla con borchie di acciaio lucido, che sosteneva una faretra piena di frecce; alla cintura il corno e il coltello da caccia, in mano l’arco. L’insieme era piuttosto originale e non faceva che accrescere la bellezza dell’adolescente.
– E se mi avessi attraversato il cranio invece di sfiorarmi l’orecchio? – chiese il vecchio ripetendo le ultime parole del figlio con affettata severità.
– Perdonatemi, padre. Non avevo intenzione di farvi male.
– Lo credo, che diamine! Ma poteva succedere. Bastava uno scarto del cavallo, un passo in piú a destra o a sinistra, un movimento della testa, un tremito della tua mano, un errore dell’occhio; bastava un niente perché il tuo scherzo diventasse mortale.
– Ma la mano non ha tremato e il mio occhio è sempre sicuro. Ve ne supplico, padre, non rimproveratemi e perdonate la mia bravata.
– Ti perdono. Ma come dice Esopo, in una delle fiabe che ti ha senza dubbio raccontato il cappellano, può essere divertente per un uomo ciò che può ucciderne un altro?
– Avete ragione, padre. Vi chiedo perdono. È l’orgoglio che mi ha spinto a farlo.
– L’orgoglio?
– Sí, – rispose Robin con voce triste. – Ieri mi avete detto che non ero ancora un arciere cosí bravo da sfiorare l’orecchio di un capriolo per spaventarlo senza ferirlo, e io... io ho voluto dimostrarvi il contrario.
– Gran bella dimostrazione! Ma adesso basta, ragazzo mio. Ti perdono senza rancore, purché non ti venga piú l’idea di trattarmi come un capriolo.
– Non temete, padre, – gridò il ragazzo affettuosamente. – Per quanto io sia sbadato e irresponsabile, non dimenticherei mai il rispetto che vi devo, e non potrei farvi alcun male.
Il vecchio strinse affettuosamente le mani che Robin gli porgeva e disse:
– Dio benedica il tuo cuore eccellente e possa renderti saggio! – poi aggiunse con un orgoglio fino ad allora represso per ingenuità: – Pensare che è allievo mio. Sono io, Gilbert Head, che gli ho insegnato a tirar di arco. Se continui cosí, diventerai il piú abile arciere d’Inghilterra.
– Che il mio braccio destro perda ogni forza e nessuna delle mie frecce possa raggiungere il bersaglio, se dimenticherò mai il vostro amore, padre mio!
– Figlio mio, tu sai che io sono tuo padre soltanto di cuore.
– Non ditelo nemmeno: i diritti che la natura vi ha negato li avete guadagnati con l’amore che mi avete paternamente dispensato per quindici anni.
– Parliamone, invece, – disse Gilbert, riprendendo la strada a piedi e tirando il cavallo per la briglia. – Un presentimento mi dice che prossime sventure ci minacciano.
– Che folle idea, padre mio!
– Tu sei già grande e forte e pieno di energie, grazie a Dio; ma l’avvenire che ti si prepara non è quello che io prevedevo quando ti guardavo crescere sulle ginocchia di Margaret.
– Che importa? Io non faccio che un voto, ed è che l’avvenire somigli al passato e al presente.
– Noi invecchieremmo senza rimpianto se il mistero della tua nascita fosse infine svelato.
– Non avete mai piú rivisto il soldato che mi consegnò a voi?
– No, né mi ha piú dato sue notizie.
– Forse è morto in guerra.
– Forse. Un anno dopo il tuo arrivo, ricevetti da un messaggero sconosciuto un sacco di monete e una lettera sigillata che feci leggere al mio confessore: «Gilbert Head, – diceva, – da dodici mesi ho posto sotto la tua protezione un bambino e mi sono impegnato a passarti una rendita annuale. Eccola. Lascio l’Inghilterra e non so quando tornerò. Di conseguenza ho fatto in modo che ogni anno tu possa ricevere la somma pattuita. A ogni scadenza non avrai che da presentarti allo sceriffo di Nottingham e sarai pagato. Alleva il fanciullo come fosse tuo figlio; al mio ritorno verrò a riprenderlo». Non vi era né firma né data. Da dove veniva la lettera? Lo ignoro. Il messaggero ripartí senza dir nulla. Ti ho raccontato piú volte ciò che lo sconosciuto ci aveva riferito circa la tua nascita e la morte dei tuoi genitori. Non so niente di piú. Quanto allo sceriffo, ogni volta che lo interrogo, risponde che non sa né il nome né la dimora del gentiluomo per conto del quale mi paga. Se ora il tuo protettore ti reclamasse, Margaret e io ci consoleremmo pensando che ritroverai le ricchezze e gli onori che ti spettano, ma se dovessimo morire prima che questo accadesse, le nostre ultime ore sarebbero avvelenate da un grande dolore.
– Di che dolore state parlando?
– Del dolore che proveremmo a saperti solo e abbandonato a te stesso quando ancora non sei diventato un uomo.
– Voi vivrete ancora a lungo, – replicò Robin.
– Lo sa Dio!
– Dio lo concederà.
– Sia fatta la sua volontà. A ogni modo, sappi che se una morte imminente dovesse sopraggiungere, tu sarai il nostro solo erede: la casa, le terre dove sei cresciuto e il denaro accumulato da quindici anni ti metteranno al sicuro dalla miseria. I tuoi genitori adottivi hanno fatto tutto ciò che era in loro potere per compensarti della sventura che ti ha colpito fin dalla nascita...
Il giovane sentiva salire le lacrime, ma dominò la sua emozione per non aumentare quella del padre. Voltò la testa, si asciugò gli occhi con il dorso della mano e gridò con tono quasi allegro:
– Non parlate mai piú di queste cose tristi, padre. Il pensiero che ci separeremo, presto o tardi, mi rende fragile come una femminuccia e la fragilità non si addice a un uomo. Senza dubbio un giorno scoprirò chi sono, ma il fatto che per ora lo ignori non mi impedisce di dormire sonni tranquilli. Perbacco, se io non conosco il mio vero nome, nobile o plebeo che sia, so perfettamente ciò che voglio essere: il piú abile arciere che abbia mai tirato frecce ai daini nella foresta di Sherwood.
– E lo sei già, sir Robin, – disse Gilbert con fierezza. – Non sono forse il tuo maestro?
Poi montò in sella.
– In marcia, Gip, bisogna che mi affretti a tornare a Mansfield se non voglio che Maggie si arrabbi. Intanto, figliolo, continua a esercitarti e la tua bravura eguaglierà presto quella di Gilbert ai suoi tempi d’oro. Arrivederci.
Robin si divertí per un po’ a staccare a colpi di freccia le foglie dalle cime degli alberi piú alti; poi, stanco del gioco, si stese sull’erba all’ombra, ripensando al colloquio avuto poco prima con il padre. Ancora ignaro del mondo, Robin non desiderava altro che continuare a vivere felice a casa del guardaboschi e cacciare in tutta libertà nella foresta di Sherwood. Che lo attendesse un futuro da nobile o da contadino era davvero una cosa che non lo interessava per niente.
Mentre fantasticava, a un tratto il nostro giovane arciere fu interrotto da un fruscio prolungato di foglie e da uno scricchiolio di rami: alzò la testa e vide un daino spaventato che, sbucato dalla boscaglia, attraversò la radura e sparí nella foresta.
Il primo istinto di Robin fu di tendere l’arco e mirare, ma, mentre era sul punto di tirare, vide per caso, a pochi metri di distanza, un uomo accovacciato dietro una collinetta che dominava la strada; cosí nascosto, l’uomo poteva vedere non visto tutto quanto passava per la strada, e, la freccia sulla corda e l’occhio alla mira, aspettava.
Dal vestito pareva un onesto boscaiolo alla posta della selvaggina. Ma se fosse stato davvero un cacciatore, soprattutto di daini, non avrebbe esitato a seguire l’animale. Perché allora quest’imboscata?
Robin presentí un delitto, e, sperando di impedirlo, si nascose dietro un gruppo di faggi, e si mise a sorvegliare lo sconosciuto il quale, sempre immobile, gli dava le spalle e si trovava tra lui e la strada.
D’improvviso lo vide tirare una freccia verso il sentiero e alzarsi come per lanciarsi nella direzione del tiro; ma si fermò, imprecando energicamente, e si rimise di nuovo in posizione di tiro.
La seconda freccia fu seguita da altre imprecazioni. Robin si domandava quale potesse essere il bersaglio dell’uomo che intanto stava preparando una terza freccia. Che volesse stuzzicare un amico come lui aveva fatto con Gilbert la mattina? Eppure non c’era niente in corrispondenza del potenziale bersaglio.
Robin stava per abbandonare il suo nascondiglio e presentarsi al tiratore sconosciuto, quando, scostati a caso alcuni rami, scorse in cima al sentiero al limitare di una curva un gentiluomo e una giovane dama che sembravano molto inquieti e incerti se volgere indietro i cavalli o sfidare il pericolo. I cavalli sbruffavano e il gentiluomo guardava in tutte le direzioni per individuare il nemico e affrontarlo e, al tempo stesso, cercava di calmare la sua compagna.
A un tratto la fanciulla lanciò un grido d’angoscia e cadde riversa: una freccia era andata a conficcarsi nel pomo della sua sella.
Non c’era piú alcun dubbio: l’uomo imboscato era un vile assassino. Robin, indignato, scelse una delle frecce piú appuntite, tese l’arco e mirò: la mano sinistra dell’assassino rimase inchiodata sul legno dell’arco che minacciava di nuovo il cavaliere e la sua compagna.
Ruggendo d’ira e di dolore, il bandito si voltò e cercò di scoprire da dove venisse quell’attacco improvviso, ma il nostro arciere rimase nascosto dietro il tronco del faggio.
Robin avrebbe potuto ucciderlo, ma si accontentò di spaventarlo dopo averlo punito e gli lanciò una nuova freccia che gli portò via il berretto.
Atterrito, il bandito si alzò e, tenendosi la mano ferita, girò su se stesso, si guardò intorno con occhi spaventati e fuggí inciampando e urlando:
– Il diavolo! Il diavolo! Il diavolo!
Robin salutò la fuga del bandito con un’allegra risata, e gli scoccò un’ultima freccia che se da un lato serví a spronarlo alla corsa, gli avrebbe impedito per molto tempo di sedersi.
Passato il pericolo, Robin uscí dal nascondiglio e andò ad appoggiarsi con aria noncurante al tronco di una quercia sul margine del sentiero. Si preparava cosí a dare il benvenuto ai viaggiatori; ma appena questi, che avanzavano al trotto, lo videro, la giovane dama lanciò un grido e il cavaliere gli corse incontro con la spada in mano.
– Olà, messere, – gridò Robin, – trattenete la vostra collera: le frecce che vi hanno tirato non erano mie.
– Eccoti dunque, miserabile! – ripeteva il cavaliere furibondo.
– Io non sono un assassino, anzi son io che vi ho salvato la vita.
– E l’assassino, allora dov’è? Parla!
– State a sentire e lo saprete, – rispose freddamente Robin. – Quanto a spaccarmi la testa, non ci pensate nemmeno: permettetemi di farvi osservare, messere, che questa freccia, puntata su di voi, giungerà al vostro cuore prima che la vostra spada mi sfiori la pelle. Ritenetevi pertanto avvertito e ascoltatemi. Dirò la verità.
– Ti ascolto, – replicò il cavaliere, quasi affascinato dal sangue freddo del giovane.
In poche parole Robin raccontò l’accaduto.
– Me ne stavo tranquillamente sdraiato sull’erba all’ombra di questi faggi, quando è passato un daino. Mi sono messo a rincorrerlo e ho intravisto un uomo che tirava delle frecce verso un bersaglio non meglio identificato. Allora ho lasciato perdere il daino e ho iniziato a osservarlo. Non mi ci è voluto molto per capire che la preda era questa graziosa dama. Si dice che io sia il piú abile arciere della foresta di Sherwood; ho approfittato dell’occasione per dimostrare a me stesso che è la verità. Con la prima freccia gli ho inchiodato insieme le mani, con la seconda gli ho levato il berretto, che non sarà difficile ritrovare; con la terza l’ho messo in fuga e credo che stia ancora correndo... Ecco.
Ma il cavaliere teneva sempre alta la spada, dubbioso.
– Guardatemi bene in faccia, – riprese Robin. – Ho forse l’aria di un bandito?
– No, ragazzo mio, devo ammetterlo: non hai l’aria di un assassino, – disse lo straniero dopo averlo osservato attentamente.
Il volto radioso e onesto, gli occhi ardenti di coraggio, le labbra socchiuse in un sorriso appena accennato di legittimo orgoglio. Tutto in quel nobile adolescente ispirava fiducia.
– Dimmi chi sei e guidaci, ti prego, in un posto dove i nostri cavalli possano rinfrescarsi.
– Con piacere; seguitemi.
– Ma prima accetta questa borsa...
– Serbate il vostro oro, messere. Non so che farmene. Mi chiamo Robin Hood e abito con mio padre e mia madre a due miglia da qui, sul margine della foresta. Venite: troverete nella nostra casetta una cordiale ospitalità.
La fanciulla, che fino ad allora si era tenuta in disparte, si fece avanti, e Robin vide risplendere due grandi occhi neri sotto il cappuccio di seta che proteggeva la testa della dama dal freddo mattutino: notò altresí la sua bellezza divina e la divorò con gli occhi, mentre s’inchinava cortesemente al suo cospetto.
– Dobbiamo credere alla parola di questo giovane? – chiese la dama al suo cavaliere.
Robin rialzò fieramente la testa e, senza dare al cavaliere il tempo di rispondere, dichiarò:
– A meno che non ci sia piú buona fede su questa terra.
I due stranieri sorrisero: non dubitavano piú.