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CAPITOLO UNO
“Stai bene?” chiese Owen con quel tipo di sorriso premuroso che a Leland Rowe faceva venire voglia di gemere e scomparire nel pavimento.
Ma considerando che il pavimento era coperto di bicchieri da bar in frantumi e di vomito, restare in piedi era l’opzione migliore. Lui odiava lavorare ai matrimoni. Almeno, quest’ultimo era finito e gli sposi erano in viaggio verso le Hawaii per una luna di miele lontano dalle loro folli famiglie.
Avrebbe voluto poter unirsi a loro.
“Sto bene,” disse Rowe, spazzando via un po’ di ghiaccio da una spalla. Aveva schivato la maggior parte dell’epica quantità di birra che si era rovesciata, ma la puzza gli ottundeva i sensi.
Owen canticchiava e Rowe si preparò ad affrontare qualsiasi cosa stesse per dirgli il suo compagno di squadra e collega licantropo: definirlo compagno di branco era ancora stranissimo. Quell’uomo era troppo dannatamente ottimista e premuroso per i suoi gusti. Come aveva fatto a sopravvivere nell’esercito senza che gli venisse sottratto quel buonumore?
Allegro bastardo.
“Stasia sta andando a prendere la cena. Vuoi unirti a noi? Abbiamo sempre da mangiare in abbondanza.” Si sistemò la giacca e allungò una mano in tasca per prendere il telefono. “Aggiorno Gibson sul lavoro.”
“Grazie per l’invito, ma credo che andrò a casa. Buona cena.”
Rowe aveva passato gli ultimi quattro giorni con Owen e c’era una minima ma non trascurabile possibilità che lo avrebbe ucciso se avesse dovuto passare solo qualche altra ora insieme a lui.
Owen scrollò le spalle. “D’accordo, ci vediamo più tardi.”
Rowe non sapeva se sentirsi o meno offeso per il fatto che Owen non avesse cercato di trattenerlo. Probabilmente aveva bisogno di una visita psichiatrica. Un’altra cosa incasinata della sua incasinata esistenza.
Uscì dall’edificio il più velocemente possibile, grato di non dover più respirare in quella disgustosa puzza di vomito. Il marciapiede era un po’ meno affollato del solito. La folla dell’ora di punta non era ancora arrivata, ma Rowe allungò il passo comunque. I pendolari sarebbero arrivati in fretta e lui voleva raggiungere il treno prima di loro.
Camminava solo da pochi minuti quando il suo telefono squillò. Avrebbe ignorato chiunque, tranne l’uomo che lo stava chiamando.
“Salve, maggiore.” Era ormai vicinissimo alla metropolitana. Sperava solo di non essere rispedito subito ad occuparsi di un altro lavoro a base di vomito.
“Owen mi ha comunicato che il lavoro è terminato,” disse Jericho Gibson, il capo di Rowe, al comando della loro piccola e strana banda di licantropi.
“Sì, è tutto a posto.” Cercò di tenere un tono di voce neutro. Voleva solo che quella giornata finisse.
“Stai bene?” Gibson sembrava preoccupato.
Cazzo. Rowe prese un profondo respiro, e fu un errore. Le strade di New York non avevano esattamente un odore gradevole. Ma passò oltre. Aveva sperimentato di peggio. “È tutto a posto. Non vedo l’ora di farmi una bella dormita.” Suonava bene, no?
“Nessun incubo?” insisté il maggiore.
“Non ne faccio da un po’. Le farò sapere se ci saranno cambiamenti.” Non sentiva il bisogno di qualcuno che scavasse nella sua testa, e rassicurazioni di quel tipo erano il modo più veloce per togliersi Gibson di torno.
“Assicurati di farlo. Dormi bene. E stai lontano dai guai.” Chiuse la comunicazione e Rowe rimase a fissare il telefono con aria torva.
Che problema avevano tutti quanti? Rowe faceva il suo lavoro. Si presentava per ogni incarico e nessuno si lamentava di lui. Che importanza aveva se usciva nel tempo libero? Non poteva nemmeno ubriacarsi.
Che problemi avrebbe mai potuto creare?
Si infilò il telefono in tasca, con la tentazione di spegnerlo. Ma ogni volta che lo faceva c’era qualche emergenza e lui non aveva intenzione di sfidare la sorte.
Il destino l’aveva già fottuto a sufficienza, grazie mille.
Arrivò il treno e lui salì, lanciando un’occhiataccia a un passeggero che gli aveva dato uno spintone per passare.
Stronzo.
Il caos di odori e corpi mescolati fece venire voglia di ringhiare al lupo interiore di Rowe. Odiava sentirsi in gabbia e a New York non c’era posto peggiore della metropolitana. Era affollata, stretta e puzzolente.
Lui era fatto per la foresta.
Fece dei respiri superficiali e intimò al suo lupo di chiudere la bocca. Lui era un uomo normale e poteva viaggiare in una cazzo di normale metropolitana senza fottuti attacchi di panico.
Ma quando arrivò alla sua fermata, fu lui lo stronzo a farsi largo per scendere dal treno il più velocemente possibile e sfrecciare su per le scale fino ad arrivare in strada. Aveva bisogno di aria fresca e di spazio, o della migliore approssimazione possibile.
Perché cazzo viveva a New York?
Gibson voleva che riposasse. La squadra si aspettava che facesse casino. Rowe sapeva che avrebbe dovuto tornare in quella scatola da scarpe del suo appartamento e restarci finché non fosse stato il momento di tornare al lavoro. Questo forse avrebbe rassicurato i suoi compagni sul fatto che non stesse per dare di matto.
Prese seriamente la cosa in considerazione. Voleva fare gioco di squadra, qualunque cosa significasse. Non voleva che i suoi amici si preoccupassero per lui.
Ma se quella notte si fosse chiuso in casa, sarebbe impazzito. Semplicemente.
Così, invece di dirigersi verso il suo appartamento, giunto all’ingresso dell’edificio svoltò verso il garage che aveva pagato un occhio della testa e anche qualche arto. La sua moto era esattamente dove l’aveva lasciata, lucida e rossa, pronta a rombare. Era una debolezza, e per giunta stupida. Se fosse stato ancora un umano normale…
Ma si era lasciato l’umanità alle spalle molto tempo prima.
Ora poteva cavalcare la sua moto quanto voleva, senza rischi.
Non che i licantropi fossero immuni alle ferite. I tagli sanguinavano anche per loro. I lividi dolevano. Ma guarivano in fretta. Tranne che in presenza di argento, ma quello non sarebbe stato un problema in sella alla moto.
Salì e ascoltò le fusa del motore.
Oh, sì, era proprio ciò di cui aveva bisogno.
Uscì dal garage e si avviò nelle strade affollate di New York. Non sapeva come facesse la gente a muoversi in auto. Lui si irritava ogni volta che rimaneva bloccato dietro a qualcuno e cercava di resistere alla tentazione di tamponarlo.
Ma i premi assicurativi erano già una rogna e lui non aveva intenzione di accollarsene altre.
Si infilò tra le auto e si lasciò andare a una risata trionfante mentre gli automobilisti furiosi gli suonavano il clacson. Era bello quasi quanto correre nella sua altra forma. Ma non era abbastanza pazzo da fare una muta in città. Almeno non nell’ora di punta.
L’autostrada era ugualmente trafficata, ma Rowe riuscì a passare tra le auto e a percorrere la corsia d’emergenza con facilità. Sapeva che era illegale, ma non gli importava.
Almeno non fino a quando delle luci lampeggianti dietro di sé non lo avvertirono di guai in arrivo.
Non quel giorno.
Invece di fare la cosa sensata e accostare, Rowe accelerò. Gli sembrava già di sentire Gibson che gli faceva una sfuriata, ma non aveva importanza. Avrebbe pensato alle conseguenze un’altra volta.
Imboccò un’uscita e sterzò a caso. Superò diversi incroci prima di rendersi conto che la polizia non lo stava seguendo.
Ah. Aveva funzionato davvero?
Continuò a guidare, su strade ora un po’ meno trafficate. Ci volle un minuto per orientarsi, ma alla fine si rese conto di essere vicino a uno dei suoi bar preferiti.
Era destino, se mai ci avesse creduto.
Rowe parcheggiò la moto ed entrò con un po’ più di spavalderia del necessario. Il locale puzzava di birra versata e di rimpianto, e la cosa avrebbe dovuto suggerirgli di girarsi e di tornare a casa. Non poteva ubriacarsi. Quella era una cosa che la licantropia gli aveva sottratto.
Qualcuno avrebbe potuto dire che Rowe amasse un po’ troppo i suoi drink. In ogni caso lui avrebbe preferito scegliere di smettere alle sue condizioni.
Non che avesse smesso davvero. Continuava a buttare via il suo denaro, era solo uno spreco peggiore di prima.
“Se Matty ti vede andrà su tutte le furie.” Selma, la sua barista preferita, gli sorrise mentre versava due drink e li faceva scivolare verso un paio di avventori. Indossava una maglietta attillata e aveva striature rosa tra i capelli. Rowe aveva provato a portarsela a casa più di una volta, ma aveva sempre fallito.
Così, almeno, lui le piaceva ancora.
“Matty può camminare scalzo sui vetri per quel che mi interessa,” rispose accigliandosi. Lui e il buttafuori non andavano d’accordo, e durante il loro ultimo diverbio erano quasi venuti alle mani. Matty era alto più di due metri e più largo di un difensore di football. Rowe non era certo che i superpoteri da licantropo sarebbero stati sufficienti ad avere ragione di lui.
Selma si mise a ridere. “Non parleresti così, se fosse di turno stasera.”
Lui sorrise. “No, non lo farei.”
“Il solito?”
“Lo sai.” Tirò fuori il portafoglio e piazzò qualche banconota sul bancone. Un minuto più tardi lei gli servì il suo scotch e soda.
Rowe la lasciò tornare al lavoro mentre sorseggiava il suo drink. Era ancora presto e non c’era molta gente. Il bar poteva farsi affollato e soffocante nel fine settimana, ma in un’altra serata non ne era affatto sicuro. Quello non era un posto dove la gente con abiti eleganti si fermava per un drink dopo il lavoro. La sua non era l’unica moto nel parcheggio.
Una donna in jeans attillati e canottiera giocava a freccette sul retro. Rowe osservò il modo in cui il suo corpo si muoveva per alcuni istanti, prima di prendere il bicchiere e dirigersi verso di lei. Magari quella serata non sarebbe stata del tutto inutile.
La ragazza mancò di poco il centro del bersaglio e Rowe emise un fischio di apprezzamento. Lei gli lanciò un’occhiata e sorrise. Poi gli fece l’occhiolino e lanciò un’altra freccetta, che stavolta andò a segno.
“Pensi di poter fare meglio?” gli chiese lei, dopo aver recuperato le freccette dal bersaglio.
Rowe alzò le mani. “Riconosco una professionista quando la vedo.”
La donna si mise a ridere. “Mi crederesti se ti dicessi che è la prima volta che ci provo?”
“Assolutamente no. Riconosco anche un tentativo di raggiro, quando mi capita.” Si appoggiò a un tavolo alto e sorseggiò il suo drink. “Credo che tu voglia approfittarti di me.”
Lei lo squadrò da capo a piedi, valutandolo. Poi fece ruotare le freccette tra le dita. “Dai, nessuna scommessa. Solo una prova di abilità.”
Rowe non riuscì a resistere. Tese la mano. “Non farmene pentire.” Lanciò una freccetta e fu già felice di aver colpito il bersaglio.
“Ecco fatto!” La donna gli batté una mano sulla spalla. “Guarda, prova così.” Gli diede una dimostrazione con il proprio braccio prima di guidarlo nel movimento.
Oh, sì, la serata cominciava a promettere bene.
“Ehi!”
Rowe gemette. Aveva subito riconosciuto quel richiamo. Era Matty, ma poteva semplicemente ignorarlo. Non c’era bisogno di violenza.
Lanciò un’altra freccetta, che rimbalzò sul bersaglio e finì a terra.
“Guardami.” La voce di Matty era piena di rabbia.
Rowe non gli rivolse lo sguardo. Non aveva intenzione di farlo. Non c’era bisogno che le cose finissero male.
“Dai, piccola. Dobbiamo parlare. Non capisci…”
Piccola? Oh, merda. Matty non si stava rivolgendo a lui.
E la sua compagna di freccette non era entusiasta. “Capisco perfettamente,” disse, e Rowe non poté più ignorare il nuovo arrivato. Guardò alternativamente la donna e il buttafuori, e la consapevolezza gli mandò una scossa nelle vene.
Aleggiava un’aria di violenza, e Rowe doveva resistere. Non si sarebbe messo nei guai, quella sera.
Ma Matty allungò una mano e afferrò saldamente la donna per un braccio. “Andiamo,” disse, cercando di portarla via. “Solo un drink.”
La donna cercò di resistergli, ma Matty era forte e lei non riuscì a liberarsi. “Lasciami andare. Le cose tra noi sono finite.”
“Ti prego, piccola.” Matty sembrava sempre più disperato.
Non sarebbe finita bene.
Lei diede uno strattone e inciampò all’indietro. Matty scattò per prenderla al volo e fu allora che Rowe si fece avanti.
“L’hai sentita, Matty. Allontanati.” Cercò di mantenere un tono neutro. Non voleva litigare. La cosa poteva concludersi in modo pacifico.
A quel punto Matty gli rivolse uno sguardo torvo e serrò le mani a pugno.
Cazzo. La cosa sarebbe finita male.