CAPITOLO IV

2540 Words
CAPITOLO IV La signora Ludlow, che era la maggiore delle tre sorelle, era anche ritenuta la più assennata, poiché la gente di solito le classificava così: Lilian il buon senso, Edith la bellezza, Isabel l’intelligenza della famiglia. La signora Keyes, la seconda del gruppo, sposata a un ufficiale del genio, non interessa la nostra storia; basterà dire di lei che era veramente molto bellina e che aveva formato l’ornamento delle varie guarnigioni, specialmente di quelle dell’inelegante West, nelle quali suo marito, con gran disappunto di lei, fu a più riprese relegato. Lilian aveva sposato un avvocato di New York, un giovane con una gran voce, infatuato della sua professione. Il partito non era stato più brillante di quello di Edith, e di Lilian si era detto spesso che poteva ringraziare Dio se era riuscita a trovarsi un marito, tanto era bruttina e insignificante. Era però molto felice e ora, come madre di due superbi bambini e padrona di un pezzo di casa incuneato nella Cinquantatreesima Strada, sembrava gioire della sua posizione come si gioisce di una fuga miracolosa. Piccola e ben piantata, le sue pretese alla linea erano assai discutibili, ma le era stata concessa una certa qual presenza che, senza arrivare a essere maestà, riusciva a far dire alla gente che Lilian aveva migliorato col matrimonio. Di due cose nella vita era nettamente convinta: la forza degli argomenti di suo marito e l’originalità di Isabel. «Non ho mai sorvegliato Isabel, perché immagino che mi avrebbe preso tutto il mio tempo.» diceva spesso. Ma a dispetto di questa asserzione l’aveva poi sempre tenuta d’occhio, vigilandola come un materno spaniel può vigilare un libero levriero. «Desidererei vederla ben accasata; questo desidererei.» diceva sovente al marito. «Bene, ma per conto mio debbo dire che non avrei proprio nessun desiderio di sposarla.» rispondeva Edmund Ludlow, che era avvezzo a ribattere sempre in un tono piuttosto sostenuto. «Dici così per contraddire, lo so. Tu sei felice quando puoi contraddire. Non vedo cosa puoi trovare da ridire su Isabel, tranne che è un po’ originale.» «Questo: che non mi piacciono gli originali, preferisco le traduzioni.» aveva risposto Ludlow. «Isabel è scritta in una lingua affatto straniera: non riesco a capirla. Dovrebbe sposare un armeno o un portoghese.» finì di dire Ludlow. «È quello che io temo che farà!» esclamava Lilian, che reputava Isabel capace d’ogni cosa. Quel giorno Lilian ascoltò con grande interesse il racconto di Isabel, intorno al suo incontro con la signora Touchett, e si dispose per quella sera a ubbidire al comando della zia. Non ci è noto quanto Isabel avesse riferito, ma le sue parole senza dubbio dovettero ispirare questa osservazione che Lilian fece al marito, mentre si stava preparando alla visita. «Spero con tutta l’anima che essa faccia qualcosa di buono per Isabel. Evidentemente l’ha presa subito in simpatia.» «E cosa vorresti che facesse per lei? - chiese Edmund Ludlow - Un bel regalo?» «No, niente regali, ma interessarsi di lei, volerle bene. È senza dubbio il tipo di persona adatta per apprezzarla. Ha vissuto a lungo nella società forestiera, almeno a quanto Isabel mi ha riferito, e se debbo stare al tuo giudizio, Isabel è veramente un po’ strana, un po’ straniera.» «E tu desideri che essa si faccia delle amicizie forestiere? Non ti pare che ne trovi già abbastanza a casa?» «Che c’entra? Isabel deve andare un po’ all’estero. Lei è fatta per viaggiare.» «E ti piacerebbe che la vecchia zia la portasse con sé, non è così?» «Gliel’ha già offerto: muore dal desiderio di portarsela via. Ma vorrei poi, che una volta che l’avesse condotta in Europa, le offrisse tutti i vantaggi del caso.» «Vantaggi per che cosa?» «Per svilupparsi.» «Santo Cielo! - esclamò Edmund Ludlow - Spero non si sviluppi ancora di più.» «Se non fossi certa che lo dici per contraddirmi, mi offenderei. - ribatté la moglie - Ma se in fondo tu stesso senti di volerle bene...» Più tardi, mentre spazzolava il suo cappello, il giovane disse a Isabel ridendo: «Tu senti che ti voglio bene, Isabel?» «Quello che so è che a me importa un bel niente, se mi vuoi bene o no.» ribatté la ragazza con un tono e un sorriso molto meno deciso delle sue parole. «Oh, oh, guarda un po’ che arie si dà dopo la visita della zia Touchett!» osservò la sorella. «Non devi dire questo, Lily. - replicò Isabel con molta serietà - Non mi do arie affatto.» «Non voglio rimproverarti.» disse Lily conciliante. «Non c’era niente di strano nella visita della signora Touchett, perché una si possa sentire importante.» «Oh, - esclamò Ludlow - guardatela: si sente più importante che mai.» «Se un giorno o l’altro insuperbirò, vi assicuro che sarà per una ragione un po’ migliore.» Si sentisse sì o no più importante, in ogni modo si sentiva diversa: qualcosa le era capitato. Rimasta sola per tutta la sera, stette seduta un po’ sotto la lampada, a mani vuote, trascurando le solite occupazioni. Poi si levò e si mise a camminare su e giù per la stanza, quindi andò da una stanza all’altra, preferendo quelle in cui la luce della lampada fosse più bassa. Era inquieta, agitata; a tratti si accorgeva di tremare. Erano avvenute cose per lei più grandi di quanto potesse parere: c’era stato realmente un cambiamento nella sua vita, e quel che avrebbe portato con sé ancora non sapeva, ma la sua disposizione d’animo dava valore a ogni piccolo cambiamento. Era in uno di quei momenti in cui si desidera di gettare il passato alle proprie spalle, di ricominciare. Desiderio non suscitato in lei precisamente dai recenti avvenimenti, ma che le era già familiare come il suono della pioggia contro le finestre, e che sempre l’aveva portata a quella conclusione, che bisognava ricominciare da capo. Sedette in uno degli angoli più bui del tranquillo salotto e chiuse gli occhi, ma non per il desiderio di assopirsi e di cercare l’oblio. Al contrario, sentiva gli occhi ben aperti e desiderava frenare in qualche modo la sensazione bramosa di vedere troppe cose in una volta. La sua immaginazione era di solito laboriosa fino al comico: quando la porta non era spalancata, lei saltava dalla finestra. Non l’aveva mai tenuta sotto chiave, la sua immaginazione, e così nelle situazioni più gravi, quando avrebbe avuto bisogno di usare soltanto la sua ragione, doveva pagare il prezzo di aver sempre data via libera alla facoltà di vedere senza giudicare. Ora, con le sensazioni che la prospettiva del cambiamento aveva risvegliate, si faceva gradualmente innanzi l’esercito delle immagini che essa stava per lasciare dietro di sé. Gli anni e le ore della sua vita le tornavano davanti, e per lungo tempo, nel silenzio rotto solo dal tic-tac del grande orologio di bronzo, li passò in rassegna. Era stata una vita felice, proprio di una ragazza fortunata; questa era la verità più evidente. Aveva sempre avuto il meglio di ogni cosa e, in un mondo nel quale le circostanze rendono le condizioni di tanta gente così poco invidiabili, era già un bel vantaggio il non aver mai provato nulla di particolarmente spiacevole. Anzi, adesso le sembrava che lo spiacevole fosse sempre stato fin troppo assente dalla sua esperienza, poiché dalle sue scorrerie per la letteratura, lei aveva intuito che esso è fonte d’interesse e perfino d’istruzione. Dapprima era stato suo padre a tenerglielo lontano; il suo bello e amatissimo padre che aveva sempre avuto un’indicibile avversione per lo spiacevole. Gran fortuna essere nata sua figlia e Isabel se ne sentiva infinitamente orgogliosa. Da quando era morto lo vedeva come uno che aveva sempre cercato di mostrare ai figli il suo viso più coraggioso e che il male era riuscito a ignorarlo, piuttosto nel desiderio che in pratica. Questo accresceva la tenerezza che essa provava per lui; le faceva fin pena il pensarlo troppo generoso, troppo buono, troppo superiore a basse considerazioni. Molta gente aveva osservato perfino che egli aveva spinto fin troppo oltre questa sua superiore indifferenza, specialmente nel riguardo dei molti a cui doveva del denaro. Ma se di ciò Isabel non fu mai molto bene informata, può tuttavia interessare il lettore sapere che questa gente, pur riconoscendo al defunto signor Archer una gran bella testa e dei modi che veramente affascinavano, aveva dichiarato che egli faceva cattivo uso della sua vita. Aveva dissipato una cospicua fortuna, si era dato al buontempo in modo deplorevole e aveva fama di giocatore arrabbiato. Qualche critico più rigoroso era arrivato persino ad affermare che non aveva saputo neanche allevare bene le figliole. Esse erano cresciute senza un’educazione regolare, senza una stabile dimora: ora viziate, ora dimenticate in un attimo. Erano state allevate tra bambinaie e governanti - la maggior parte poco raccomandabili - e mandate a scuole superficialissime, tenute da francesi, dalle quali alla fine del primo mese si erano dovute togliere in lacrime. Questo modo di giudicare avrebbe suscitato l’indignazione di Isabel poiché, a suo parere, le erano state offerte abbondanti possibilità di riuscita. Fin da quando suo padre le aveva lasciate, ancora bambine, per tre mesi a Neuchatel, in mano a una domestica francese che aveva finito per fuggire in compagnia di un nobile russo, il quale abitava nel medesimo albergo, Isabel, che aveva allora undici anni, non si era minimamente né impressionata né spaventata, ma aveva considerato l’incidente come un romantico episodio di un’educazione liberale. Per lei l’irrequietezza e perfino l’occasionale incoerenza della condotta paterna, non erano state che una prova del suo modo generoso di veder le cose. Voleva che le figliole conoscessero il mondo il più possibile, e per questo, prima che Isabel compisse i quattordici anni, le aveva già trasportate tre volte aldilà dell’Atlantico, però concedendo loro, ogni volta, soltanto pochi mesi di soggiorno per conoscere quei paesi. Metodo che aveva stuzzicato la curiosità della nostra eroina, senza permetterle di appagarla appieno. Isabel doveva parteggiare sinceramente per suo padre, poiché delle tre era quella che gli era più vicina e di conforto, per aiutarlo a superare le sgradevoli cose che egli non osava nominare. Negli ultimi giorni il naturale desiderio del padre di congedarsi da un mondo, nel quale la difficoltà di vivere come ci piace, sembra crescere con gli anni, era stato sensibilmente amareggiato dalla pena di doversi separare dalla sua intelligente, superiore, incomparabile figliola. E anche quando i viaggi in Europa erano cessati, il signor Archer aveva continuato a trattare le figlie con la solita indulgenza e liberalità, e se pure le questioni di denaro l’avevano inquietato, nulla aveva lasciato trapelare che potesse distruggere la loro ingenua fiducia in un’ipotetica ricchezza. Isabel, che sapeva ballare assai bene, non si ricordava però di essere stata a New York, uno dei membri più felici di quel circolo; sua sorella, a detta di tutti, aveva avuto un ben maggiore successo. Edith riusciva così brillantemente in tutto, che Isabel non poteva illudersi di superarla o di arrivare a emularla nell’abilità di guizzare, di saltellare o soprattutto di cantare col dovuto effetto. Diciannove persone su venti - compresa Isabel stessa - si sarebbero accordate nel dichiarare Edith, senza confronti, la più graziosa delle due; ma poi c’era sempre la ventesima che, rovesciando il giudizio, reputava questi giudici degli esteti senza gusto. Isabel nascondeva nell’intimità più riposta, un più intenso inestinguibile desiderio di riuscire piacente, che non Edith; ma questa intimità era un luogo assai fuori mano: tra esso e il mondo esterno le comunicazioni erano spesso interrotte da un’infinità d’influenze capricciose. I giovanotti che ronzavano intorno a sua sorella si sentivano per la maggior parte intimiditi da lei, e questo perché correva voce che per parlare con Isabel occorreva una preparazione speciale. La sua fama di accanita lettrice ondeggiava intorno a lei, come il nebuloso alone di una dea in un poema epico. Si temevano le sue domande e si temeva che essa volesse mantenere sempre la conversazione in un’atmosfera troppo fredda. Invece la povera ragazza, pur amando che la si considerasse istruita e intelligente, non poteva sopportare l’idea che la si reputasse pedante; leggeva di nascosto e, quantunque avesse una memoria eccellente, si asteneva il più possibile dal fare sfoggio della sua cultura. Aveva un desiderio sconfinato di sapere, ma in realtà avrebbe preferito qualsiasi fonte d’ispirazione, alla pagina stampata. Provava un’immensa curiosità di conoscere la vita e stava costantemente a guardarla, stupita e perplessa. Portava in sé una grande ricchezza di vita e il suo maggior godimento era di percepire la fusione fra i moti della sua anima e le agitazioni del mondo. Per questo le piacevano le grandi folle, le grandi distese di campagna, il leggere di rivoluzioni e di guerre, il contemplare quadri storici, ai quali perdonava sempre l’arte scadente con cui erano dipinti, in grazia del soggetto. Ai tempi della Guerra Civile, essa era ancora una ragazzina, ma ricordava d’aver passato mesi e mesi di quel periodo in uno stato di quasi appassionata eccitazione che la faceva fremere - con suo smarrimento - in egual modo, agli atti di valore dell’uno e dell’altro esercito. Tuttavia non è da credere che l’esitazione con cui le si accostavano i giovanotti, fosse riuscita a fare di lei una esiliata dalla società, poiché il numero di quelli il cui cuore, avvicinandola, batteva tanto pacatamente da ricordare loro che avevano pure una testa, l’aveva tenuta nell’ignoranza delle supreme arti del suo sesso e della sua età. Aveva avuto tutto ciò che una ragazza potesse desiderare: gentilezza, ammirazione, dolci, fiori e il senso di non aver precluso nessuno dei privilegi propri del mondo nel quale viveva. Aveva molte occasioni di ballare, abbondanza di abiti nuovi, l’abbonamento allo Spectator di Londra, le ultime pubblicazioni, la musica di Gounod, la poesia di Browning, la prosa di George Eliot. Tutte cose le quali, ora che la memoria le andava rivivendo, si risolvevano in una moltitudine di scene e di figure. Cose dimenticate le tornavano in mente e parecchie altre che essa aveva ritenute importanti, svanivano nel nulla. Il risultato era un vero caleidoscopio che venne interrotto dall’ingresso della domestica, che annunciava il nome di un signore. Questi era Caspar Goodwood, un distinto giovanotto di Boston, che conosceva la signorina Archer da un anno e che reputandola la più bella ragazza del suo tempo, aveva osato dichiarare, che l’epoca che aveva preceduto la loro conoscenza, non era che un insignificante periodo di storia. Di tanto in tanto le scriveva, e una o due settimane prima, lo aveva fatto da New York. Isabel pensava appunto che forse egli sarebbe venuto a trovarla in quei giorni, e durante tutta quella giornata piovosa, aveva una vaga idea che le potesse comparire davanti. Ma ora che lo sapeva a due passi da lei non provava, nonostante tutto, un gran desiderio di rivederlo. Era in realtà il più bel giovanotto che essa avesse mai conosciuto, e che le inspirava quasi una specie di alto e raro rispetto, come nessun altro mai. Nel mondo, Goodwood era reputato in generale un aspirante alla sua mano, ma senza dubbio questo riguardava soltanto i due interessati. In ogni modo, egli era venuto da New York ad Albany per vederla, perché a New York appunto, aveva saputo, durante i giorni che vi era rimasto con la segreta speranza d’incontrarla, che essa era ancora nella capitale dello Stato. Isabel indugiò qualche minuto prima di decidersi a raggiungerlo e camminò su e giù per la stanza un po’ confusa. Infine passò in quella adiacente, dove egli l’aspettava sotto la lampada. Era alto, forte e un po’ rigido, era anche snello e bruno. Non bello in modo romantico, ma in un suo modo misterioso. La sua fisionomia reclamava tutta l’attenzione, la quale era compensata dal fascino che egli emanava dai suoi occhi azzurri, occhi propri di un tipo assolutamente diverso dal suo, e dalla mascella angolare, piena di risolutezza. Isabel quella sera dovette convenire che egli aveva un’aria veramente risoluta. Malgrado questo, una mezz’ora dopo, però, Caspar Goodwood, che era arrivato così pieno di speranza e di decisione, riprendeva la via del suo albergo, con la sensazione di un uomo sconfitto. E non era, dopotutto, un uomo facile a darsi per vinto.
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