Qualcosa da fare
Era un uomo bianco molto malato. Era a cavalcioni sulla schiena di un indigeno di colore dai capelli folti, coi lobi delle orecchie bucati e così tesi che uno si era strappato, mentre l’altro conteneva un pezzo di legno scolpito del diametro di cinque centimetri. L’orecchio strappato era stato bucato di nuovo, ma questa volta non per scopi decorativi, perché nel foro c'era solo una pipa d’argilla. Il cavallo umano era sporco e sudato, completamente nudo, a eccezione di una fascia che gli circondava i fianchi, ma l'uomo bianco si aggrappava a lui quasi disperatamente. A volte, per la debolezza, la testa gli cadeva di lato. Altre volte la sollevava e guardava con occhi spauriti le palme di cocco che oscillavano appena in quel caldo soffocante. Era vestito con una camicia leggera e con una striscia di stoffa di cotone che gli avvolgeva i fianchi e arrivava fino alle ginocchia. Sulla testa aveva un cappello Stetson, consumato e malmesso - meglio conosciuto come Baden-Powell - e intorno alla vita aveva una cintura con una pistola automatica di grosso calibro e una serie di cartucce di riserva: era sempre carica e pronta a fare fuoco.
Poco più indietro seguiva un ragazzino di quattordici o quindici anni carico di medicine, con un secchio d’acqua calda e altri attrezzi da ospedale. I tre uscirono dal recinto superando una barriera chiusa da un cancello di tronchi inchiodati, e proseguirono sotto il sole cocente, vagando fra le piante di cocco che non facevano nessuna ombra. Non tirava un alito di vento e l’aria era stagnante, bollente, attraversata da odori insopportabili. Dalla direzione verso la quale andavano si sentirono urla selvagge, come di dannati che gemessero o di uomini sotto tortura. Davanti a loro una capanna lunga e bassa, con le pareti e il tetto d’erba secca e pressata. Le urla provenivano da lì. Ancora grida, urla, testimoni di dolore e di una sofferenza insostenibili. Avvicinandosi il bianco sentì la cantilena di un gemere sommesso. Al solo pensiero di dover entrare lì dentro rabbrividì. Per un attimo pensò addirittura di svenire. Perché la piantagione di Berande era vittima della piaga più terribile delle Salomon1, la dissenteria. Anche lui si era ammalato, e adesso era solo a combatterla.
Aggrappato ancora alle spalle dell’uomo, abbassando la testa, il bianco entrò dalla porta bassa. Prese una boccetta dalle mani del ragazzino e respirò ammoniaca per riprendere le forze. Poi urlò “State zitti!” e tutti fecero silenzio. Lungo la capanna, fiancheggiata da un corridoio largo un metro, si stendeva una piattaforma di tavole, sollevata da terra, larga circa due metri. Stretti gli uni contro gli altri erano distesi una ventina di uomini di colore. Fin dalla prima occhiata era chiaro che appartenevano al gradino più basso della civiltà degli uomini: cannibali. Avevano il viso asimmetrico, animale, e il corpo deforme, scimmiesco. Dai loro nasi pendevano anelli di conchiglie e di tartaruga, e dalla punta del naso, bucata, sporgevano corni di perline di vetro e di fili di ferro. Ai fori delle orecchie portavano pezzi di legno, pipe, e ogni altra specie di ornamento selvaggio. Il viso e il corpo erano tatuati con disegni orribili e attraversati da profonde cicatrici. Da malati non indossavano nulla, nemmeno la fascia alle reni, nonostante conservassero i braccialetti di conchiglie, le collane di perle di vetro e le cinture di cuoio, alle quali erano infilati, a contatto con la pelle, coltelli dalla lama nuda. Molti di loro avevano il corpo ricoperto di piaghe. Sciami di mosche si alzavano e si posavano senza mai fermarsi.
Il bianco seguì la fila, somministrando a ognuno la medicina. A qualcuno dava chlorodyna2. Era costretto a concentrarsi al massimo per ricordare chi fra loro era in grado di sopportare l’ipecacuana3, e chi era costituzionalmente incapace di resistere a quella droga così potente. Uno era morto: ordinò che fosse portato fuori. Parlava con un tono aspro e perentorio, era un uomo che non ammetteva esitazioni. Gli altri chiamati a eseguire i suoi ordini aggrottavano minacciosi le sopracciglia. Uno di loro brontolò sommessamente mentre afferrava il cadavere per i piedi. Il bianco cominciò a urlare e a muoversi a scatti. Con molta fatica il suo braccio colpì con un manrovescio il viso e la bocca del nero.
— Che cos'hai detto, Angara? — urlò — Ti permetti di aprire bocca? Ti faccio a pezzi! Avanti, fai presto!
Con il riflesso automatico di un animale selvaggio il nero sembrò sul punto di attaccare, nei suoi occhi c'era la rabbia della bestia ferita. Poi vide la mano del bianco correre alla cintura dove teneva la pistola e si fermò di colpo. Il corpo già teso si rilassò, e un attimo dopo, chinandosi sul cadavere prese a trasportarlo fuori. Questa volta senza fiatare.
— Maiali! — disse il bianco fra i denti, alludendo agli abitanti delle Salomone.
Era molto malato, malato quanto i neri che rimanevano impotenti attorno a lui, uomini che curava. Non sapeva mai, ogni volta che entrava in uno di quegli orribili postriboli, se sarebbe riuscito a uscirne vivo. Ma era sicuro, invece, che se fosse morto in mezzo a loro, qualcuno ancora sano lo avrebbe aggredito come un lupo affamato.
In fondo alla fila, fra gli ultimi, un uomo stava per morire. Ordinò che fosse rimosso appena avesse esalato l’ultimo respiro. Un nero passò la testa attraverso la porta della tettoia, e disse:
— Quattro fella4 troppo malati.
Erano nuovi casi. Ancora capaci di camminare, i quattro erano raggruppati intorno a colui che aveva parlato. Il bianco fece segno all’uomo che sembrava più debole, e lo fece accomodare nel posto lasciato libero dal cadavere. A un altro dei nuovi malati disse di aspettare fino alla morte dell’altro in fondo alla fila. Poi, dicendo a uno degli uomini sani di formare una squadra fra i lavoratori dei campi e di allargare l’infermeria, riprese il suo cammino, somministrando medicamenti e parlando allegramente come se nulla fosse in beche-de-mer english5 per sostenere i sofferenti. Ogni tanto, dall'altra parte della piantagione, arrivava un lamento. Una volta arrivato, vide che a lamentarsi non era un malato. Improvvisamente si arrabbiò.
— Perché continui a gridare quel nome? — chiese.
— Lui morire.
— Tu gridi, e lui fratello — fu la sua risposta. — Lui morire.
— Tu gridi, e lui fratello morire — esclamò minaccioso il bianco. — Perché gridi? Sei tu che lo fai morire subito. Tu finisci di urlare, hai capito? Se tu non finisci di urlare, ti farò finire io molto molto presto.
Minacciò l’uomo col pugno alzato, e il nero si piegò davanti a lui guardandolo con occhi pieni di rabbia.
— Non va bene gridare — continuò più tranquillamente. — Non devi gridare. Scaccia le mosche. Ci sono troppe mosche. Prendi l'acqua, lava fratello che ti appartiene. Lavalo bene. Vai adesso... — gridò alla fine con un tono di voce alterato, sottomettendo il nero con la forza della sua reazione, cosa che lo fece balzare verso il malato per scacciare gli sciami di mosche sempre più insopportabili.
Poi uscì fuori nell'aria bollente. Si aggrappò stretto al collo del nero, e respirò a pieni polmoni: l’aria stagnante sembrava seccare i suoi polmoni, così lasciò cadere la testa e sonnecchiò finché arrivarono alla casa. Resistere era una vera tortura, ma doveva per forza resistere. Diede al nero che l'aveva trasportato un sorso di gin. Viaburi, il ragazzo della casa, gli portò acqua e cloruro mercurico6, e lui si lavò con quel liquido antisettico. Prese una dose di acido cloridrico, si tastò il polso, si provò la febbre, e si distese supino sul letto con un gemito represso. Era pomeriggio inoltrato, aveva completato il terzo giro di quel giorno. Chiamò il ragazzo.
— Prendi il grande occhio per cercare Jessie — ordinò.
Il ragazzo portò il cannocchiale sulla veranda e guardò verso il mare.
— C'è una goletta laggiù... lontano... — rispose. — Jessie...
Il bianco si fece sfuggire un sospiro di sollievo.
— Se è la Jessie, cinque trecce di tabacco sono per te — gli disse.
Ci fu un silenzio, durante il quale attese impaziente.
— Forse Jessie, forse è altra goletta... — fu la sua conclusione.
L’uomo raggiunse l’orlo del giaciglio e scivolò sul pavimento con le ginocchia. Aiutandosi con una sedia si alzò in piedi. Appoggiandosi ancora alla sedia, che sosteneva la maggior parte del suo peso, si trascinò fin sulla veranda. Il sudore gli scorreva lungo le guance e gli bagnava le spalle attraverso la camicia. Si mise a sedere sulla sedia, respirava a fatica, quasi svenuto. Dopo pochi minuti si alzò di nuovo. Il ragazzo appoggiò l’estremità del cannocchiale contro uno dei montanti della veranda, mentre l’uomo scrutava l’orizzonte. Alla fine riconobbe le vele bianche della goletta e le osservò con attenzione.
— Non è Jessie... — disse tranquillamente. — … Malakula.
Andò dalla sua seggiola alla sedia a sdraio. Un centinaio di metri più lontano, il mare finiva dolcemente la sua corsa in brevi ondate sulla spiaggia. A sinistra era visibile la linea bianca dei cavalloni, che segnava il banco di sabbia davanti alla foce del fiume Balesuna, e, più in là, il profilo aspro dell’isola di Savo7. Proprio davanti a lui, attraverso il canale di dodici miglia, c'era Florida Island. E più lontano, a destra, nascosta dalla nebbia e dalla distanza Malaita — l’isola inospitale, nascondiglio per assassini, ladri e cannibali — il posto dove erano stati reclutati i duecento operai della piantagione. Fra la veranda e la spiaggia c'era una palizzata di tronchi aguzzi che circondava la casa. Era socchiusa, così mandò il ragazzo a chiuderla. All’interno del recinto cresceva un certo numero di palme da cocco basse. Dall’altra parte, sui due lati del sentiero che portava al cancello, si ergevano due grandi pennoni. Erano piantati su due monticelli di terra alti tre metri. La base di ciascuno dei due pennoni era circondata da bassi pali, dipinti in bianco e collegati da pesanti catene. E i pennoni stessi erano simili agli alberi di una nave, dalle sembianze veramente nautiche, con sartie, picchi e dirizze. Due bandiere ricadevano mollemente dal picco dei pennoni. Una era a quadri bianchi su campo azzurro, l’altra bianca, con un disco rosso al centro. Era il segnale di pericolo del codice internazionale.
Su un angolo del recinto era appollaiato un falco. L’uomo lo guardò e capì che anche l’animale era malato. Si chiese se era malato quanto lui e provò un brivido di divertimento nel pensare alla similitudine che c'era fra lui e l’uccello. Si alzò per suonare la grande campana: era il segnale che ricordava agli uomini della piantagione che la giornata di lavoro era finita e che potevano tornare alle loro baracche. Poi salì sul suo cavallo umano e fece l’ultimo giro per quel giorno.
Nell’infermeria c'erano due nuovi casi. Diede loro olio di ricino. Si congratulò con se stesso. Era stata una buona giornata. Erano morti solo in tre. Controllò il lavoro di disseccamento della copra, che continuava nonostante l’epidemia, e andò verso le baracche per vedere se ci fosse qualche malato nascosto capace di sfidare le sue istruzioni di distanziamento. Tornato a casa, ricevette i rapporti dei capisquadra e diede istruzioni per il giorno dopo. Il capo dell’equipaggio delle barche lo rassicurò che le baleniere, come al solito, erano al sicuro sotto chiave per la notte. Era una precauzione inevitabile, perché i neri erano agitati per l’epidemia che si era scatenata fra loro, e una sola baleniera lasciata sulla spiaggia avrebbe significato la perdita di venti di loro. E ogni nero valeva almeno trenta o trentacinque dollari. La piantagione avrebbe difficilmente sopportato una perdita del genere. Le baleniere non costavano poco nelle Salomone. E le tante morti riducevano di giorno in giorno la manodopera. Sette erano fuggiti nei boschi la settimana prima, e quattro erano tornati indietro spontaneamente per colpa della febbre, raccontando che altri due erano stati uccisi e kai-kai'd8 dagli indigeni selvaggi. Il settimo era ancora al largo, e dicevano che si aggirasse lungo la costa in cerca di una canoa per rubarla e tornare nella sua isola.
Viaburi portò due lanterne accese perché il bianco le ispezionasse. Lui le guardò, e vide che bruciavano bene, le fiamme erano chiare e larghe. Fece di sì col capo. Una fu issata sul picco del pennone, e l’altra fu collocata sulla veranda. Erano le luci di direzione per l’ancoraggio di Berande, e ogni notte dell’anno erano ispezionate e issate all’esterno.
Il bianco tornò al suo giaciglio sospirando di sollievo. Il lavoro del giorno era finito. Una carabina giaceva sul lettino Accanto a lui aveva una carabina e la pistola era a portata di mano. Passò un'ora durante la quale lui non si mosse. Era semincosciente, quasi in stato comatoso. Ma si risvegliò quasi subito. Uno rumore sulla veranda. La camera era a forma di elle. L’angolo in cui si trovava era nella penombra, ma la lampada sospesa nella parte principale della camera, sopra il bigliardo e proprio intorno all’angolo, in modo da non mandare i raggi direttamente su lui, faceva molta luce. Anche la veranda era bene illuminata. Attese senza muoversi. I rumori continuarono, e capì che all’esterno c'era qualcuno.
— C'è qualcuno? — gridò.
La casa, sopraelevata di qualche metro sul terreno, fu scossa dalle fondamenta mentre i visitatori scappavano.
— Stanno diventando troppo audaci — sussurrò. — Bisogna fare qualcosa.
La luna piena spuntò su Malaita e illuminò Berande con la sua luce. L’aria era immobile. Dall’infermeria arrivava il gemito dei malati. E nelle baracche col tetto di paglia, quasi duecento cannibali dormivano distrutti dalla stanchezza di un'intera giornata di fatiche, mentre alcuni alzavano la testa per ascoltare le imprecazioni pronunciate da uno che malediva quell’uomo bianco che non dormiva mai. Sulle quattro verande della casa brillavano le lanterne. Anche l’uomo bianco, fra la carabina e il revolver, si lamentava ogni tanto nel suo sonno agitato.