CAPITOLO II.
«Se nel tirare a segno è sì perfetto,
«All’erta! disse il Re. Non me la sento
«D’aspettar che gli venga un dì il talento
«Di far bersaglio ai dardi il nostro petto.»
William Bell.
Nella mattina successiva, l’ufiziale di giustizia, di cui vedemmo essere tornata vana l’autorità per impedire la celebrazione de’ funerali, si trasferì, senza perder tempo, alla casa del lord Cancelliere per ragguagliarlo de’ motivi, pe’ quali egli non potè eseguire la commissione statagli affidata.
In quell’ora, il nostro uomo di Stato era nella vasta sala che servì un giorno ai conviti nel castello di Ravenswood, e divenutane, sotto il nuovo proprietario, biblioteca. Gli stemmi feudali dell’antico signore vedeansi tuttavia scolpiti sulla soffitta e sui fregi di essa, che erano di castagno di Spagna, e dipinti sulle lastre delle finestre, per traverso alle quali il sole levandosi vibrava i raggi contro i lunghi ordini delle assi della scanzia che inarcavansi sotto il peso delle collezioni di codici e di comenti intorno alle leggi; a questi si univano alcune storie scritte per mano di frati; e consisteva in esse la parte più copiosa e apprezzata della biblioteca di uno storico scozzese: sulla grande tavola a cui stava seduto scorgeasi un affastellato miscuglio di lettere, di istanze, di rapporti, nell’esame de’ quali le delizie e le molestie della vita di ser Guglielmo Asthon erano poste.
Di grave ed anche nobile fisonomia, avea contegno quale addicevasi ad uomo insignito di una fra le più rilevanti cariche dello Stato, talchè i suoi difetti a primo aspetto non apparivano. Facea mestieri ad un estraneo l’avere seco lui un colloquio, e lungo, ed intrinseco, e sopra argomenti incalzanti che immediatamente ferissero personali interessi, per discoprire quanto ei fosse vacillante ed incerto nelle sue deliberazioni, irresoluto nelle massime: quanto pauroso sempre di mancar di prudenza e riguardi: quanto dissimulato per principio d’orgoglio, ed anche di politica, perchè sapendo in propria coscienza come si lasciasse spesse volte vincere da motivi che non dovrebbero essere ad un magistrato di verun peso, avea continuo timore che gli altri se ne accorgessero.
Ascoltò, dando a dividere il massimo sangue freddo, l’esagerata narrazione che il messo di giudicatura gli fece sulla scena accaduta in ordine alle esequie di lord Ravenswood e al disprezzo che mostrato erasi per l’autorità del gran Cancelliere, e per quella della Chiesa e dello Stato. Ma non parve che molto il commovesse un tale racconto, e nemmeno, comunque con tutta fedeltà ripetute, le espressioni ingiuriose e minaccevoli contro la persona del gran Cancelliere, usate dal giovine Edgardo e da alcuni amici di questo. Serbò la medesima tranquillità, quando questo ministro gli ridisse tutto ciò che avea potuto raccogliere sulla natura de’ brindisi fatti durante il convito, e de’ patti di lega che lo terminarono. Ciò non pertanto notò esattamente tutte le ascoltate cose, non dimenticando farsi indicare i nomi di tutti coloro che avrebbero potuto utilmente essere citati per testimonj, sempre che egli avesse trovato opportuno il tener dietro a questa bisogna. Rimandò poscia il delatore, rimanendo p**o in suo animo di trovarsi fin d’allora padrone e del poco retaggio che restava al giovine Ravenswood, e, all’uopo, della libertà del medesimo.
Partito costui, il lord Cancelliere si stette per alcuni istanti immerso in profonde meditazioni. Levandosi poi d’improvviso, incominciò a far grandi passi lungo la sala com’uomo in procinto di prendere serie risoluzioni. «Il giovine Ravenswood è mio! finalmente egli disse: è mio! mi si è dato fra le mani, e converrà che il ramo pieghi, o si rompa. Oh! non ho mica dimenticato con quale ostinazione ferma e continua il padre di costui mi abbia disputato palmo a palmo il terreno dinanzi a tutti i tribunali di Scozia. Non ho mica dimenticato con quale arroganza disdegnò tutti i partiti d’accomodamento che gli feci, o come tentasse di rovinarmi nella riputazione, quando vide che, in via giuridica, io stava dietro a una torre. Questo figlio rimasto dopo di lui, questo giovine Edgardo, questo pazzo insensato ha fatto naufragio prima di uscire del porto. Convien dunque impedire che qualche ritorno di grosso fiotto non lo aiuti a rimettersi in mare. Sì; la scenetta accaduta, purchè la si dipinga come va agli occhi del Consiglio privato, può essere definita un atto di sommossa, di vera ribellione contro le autorità civili ed ecclesiastiche. Può multarsi con forte ammenda chi ne è stato il capo; vi è anche luogo a farlo custodire nella rocca di Edimburgo, o nel castello di Blackness. Chi sa che sopra qualcuna delle espressioni sfuggitegli non si potesse anche fondare un’accusa di alto tradimento?...... Però, Dio mi guardi dallo spingere le cose sì in là! No, non ne farò nulla; voglio rispettare i suoi giorni, quando anche fossero nelle mie mani ......... ma, pensiamoci anche un momento; s’egli vive, e se gli affari pubblici prendessero mai un andamento diverso, che cosa succederebbe? Non potrei io trovarmi alla necessità di restituire..... o fors’anche essere vittima della sua vendetta? Già so che il vecchio Ravenswood era giunto a farsi promettere protezione dal marchese di Athol; ed ecco adesso il figlio, che, solo e con quella tenuissima prevalenza che ha, cerca suscitarmi contro una fazione. Oh! non v’ha dubbio; se costui vivesse sarebbe uno stromento opportunissimo nelle mani di coloro che vorrebbero un cambiamento politico di amministrazione.»
Agitato da queste idee il politico mestatore, e cercando persuadere a se stesso che era necessario alla propria sicurezza e a quella de’ suoi amici l’approfittarsi, per perdere il giovine Ravenswood, dell’occasione dallo stesso giovine somministratagli, corse al suo studio, e si accinse a comporre il rapporto con cui doveano essere notificati al Consiglio tutti gl’inconvenienti accaduti alle esequie di lord Ravenswood. Ei sapea che il fatto di sua natura accenderebbe di sdegno i suoi colleghi nel Consiglio, e sperava che essendo odiosi ai medesimi anche i nomi degli altri colpevoli, si sarebbero risoluti a dare un esempio sul figlio del morto Ravenswood, almeno in terrorem.
Gli era d’uopo ciò non pertanto usar di molta accortezza nella scelta delle espressioni, affinchè la reità degli accusati apparisse con evidenza agli occhi di ognuno, senza che paresse il suo rapporto una formale denunzia; la qual cosa potea rendere sospette ed odiose le asserzioni di ser Guglielmo Asthon, antico antagonista del padre di Edgardo. Intanto che in questo suo componimento s’infervorava cercando accuratamente i termini più acconci a diffamare, salvo le indicate cautele, il povero Edgardo gli accadde, nel meditare una frase, di alzare gli occhi verso gli stemmi della famiglia, contro l’erede della quale stava allora arrotando il ferro della legge. Già abbiam detto poc’anzi che questi stemmi erano scolpiti in molte parti della soffitta di quella sala. Presentavano essi una testa di bue nero colla impresa: Aspetto il momento. Il motivo per cui la famiglia di Ravenswood adottò questa impresa è singolare sì, che merita quivi esser narrato, anche per la corrispondenza direttissima che esso aveva colle attuali meditazioni del lord Cancelliere.
Una tradizione generalmente ammessa volea che un certo Malisio di Ravenswood, a cui un possente usurpatore avea tolto il castello e i dominj, fosse stato costretto per qualche tempo a lasciargli godere in pace i frutti del suo ladroneccio. Finalmente, un giorno in cui il padrone intruso doveva celebrare splendida festa entro il castello, Ravenswood trovò modo d’introdurvisi con un picciolo drappello di amici valorosi e fedeli, cosa riuscitagli tanto più agevole attesa la confusione che regnava allora per ogni banda. Tardando le vivande a comparir sulla mensa, l’usurpatore ne rimproverò i servi ordinando che s’imbandisse sull’istante: «Aspetto il momento» sclamò Ravenswood mescolatosi coi convitati, e nel momento medesimo gettò sulla tavola una testa di bue nero, simbolo di morte a que’ giorni tra gli Scozzesi. Essendo queste parole il segnale inteso tra i congiurati, sguainò ciascun d’essi le sciabole, e uccisi e l’usurpatore, e tutti coloro che ne vollero prendere la difesa, restituirono l’antico possessore ne’ suoi dominj. O fossevi in questo avvenimento, allora notissimo, e spesse volte ripetuto, qualche cosa che metteva in agitazione la coscienza di ser Guglielmo, o per qual altra ragione non sapremmo assegnare, certamente ei si alzò d’improvviso, e chiuso accuratamente nella sua cartella e quel poco di scritto che avea composto, e le note che preso avea poco prima, uscì della biblioteca con intenzione di passeggiare, come uomo che volesse nuovamente raccogliere le idee, e meditare sulle conseguenze dell’atto che divisava, per non dover poi pentirsene troppo tardi.
Attraversando una grande anticamera, ser Guglielmo Asthon udì i tuoni del liuto che la figlia di lui arpeggiava. L’armonia ne produce doppio diletto e un sentimento misto di sorpresa, tutte le volte che la persona per opera di cui si fa udire, non è ai nostri occhi visibile; e ne rimembra allora il concento degli augelletti nascosti fra i rami di folta boscaglia. Comunque il cancelliere non fosse avvezzo ad aprire il cuore a commozioni così semplici e naturali, era però uomo e padre; onde si fermò ascoltando la figlia sua che adattava collo stromento e colla voce alla musica di una antica ballata le seguenti parole:
«Ad inviti lusinghieri
Cedi parco e con cautela.
Temi il tosco che si cela
Entro il nappo de’ piaceri.
Quando i re snudan lo stocco
Resta in casa, fa l’allocco.
Come tuoi, gli altrui contenti
Mira in pace, e di lor godi.
Periglioso suon di lodi
La ragion non t’addormenti.
Di timor scarso e d’affanni,
Sfida allor la morte e gli anni.»
Appena la figlia del lord Cancelliere si stette dal canto, egli entrò nella stanza della medesima. Le parole che ella avea scelte sembravano fatte all’uopo di dipingere l’indole stessa della cantante; perchè i lineamenti di Lucia Asthon, vezzosi, ma alquanto infantili, erano i più convenevoli ad esprimere la pace dell’animo, la serenità e l’indifferenza ai vani piaceri delle società rumorose. I suoi capelli di un bel color biondo, vedeansi bipartiti sopra una fronte splendida per bianchezza; e tutte le esterne forme della donzella indicavano soavità e straordinaria timidezza, che somme erano in lei. L’avvenenza di lei apparteneva a quella onde ammiriamo le Madonne di Rafaello; e le qualità morali da noi indicate le derivavano forse da gracil salute e dall’uso di convivere con persone di indole altera, imperiosa, e soggette ad impeti che ella era ben lontana dal provare in se stessa.
Non quindi credasi che la passiva tranquillità di Lucia fosse l’effetto di un’anima indifferente, o sorda alle voci della passione. Lucia Asthon avea non so che di romanzesco nelle sue inclinazioni e nei suoi sentimenti; onde secondandone l’impulso, dilettavasi di leggere in segreto quelle antiche storie cavalleresche, ove trovansi così luminosi esempli d’inalterabile affetto e di servitù prestata senza limiti all’amore; nè di tali studj la faceano schifa le inverisimiglianze e gli avvenimenti soprannaturali di cui cotesti racconti si veggono sparsi, e può dirsi che la immaginazione della giovine fabbricava castelli in aria in mezzo ai dominj della magia. Ma solamente in segreto, il dicemmo, abbandonavasi a tal sua inclinazione favorita; ed ora nella solitudine del suo appartamento, ora nel silenzio d’ameno boschetto, che ella chiamava il suo giardino, distribuiva premj al vincitor di un torneo, animava coll’influsso de’ suoi sguardi i combattenti, errava in compagnia di Una per mezzo ai deserti, e credeva essere ella in persona la ingenua e nobil Miranda nell’isola delle Maraviglie o degl’Incanti.
Ma nelle sue corrispondenze reali col nostro mondo, Lucia riceveva facilmente gli impulsi dal premeditato volere di quelli che le stavano intorno: indifferente per lo più all’alternativa delle cose, non nasceva in lei nemmen l’idea di resistere. Nè spiacevale di trovare nell’opinione dei suoi genitori, un motivo per risolversi; motivo che forse avrebbe cercato invano nel proprio cuore. Ciascuno de’ nostri leggitori può avere osservato, in qualche famiglia di sua conoscenza, alcuna di tali persone, mansuete e pieghevoli per indole, che trovandosi fra individui d’indole inflessibile ed impetuosa, si lasciano condurre dalla volontà altrui, non pensando ad opporsi, più del fiore alla corrente ove è caduto. Accade per l’ordinario che le persone fornite d’indole cotanto docile ed arrendevole, e avvezze a seguire senza querelarsi il cammino che viene loro additato, si acquistino la tenerezza di coloro cui mostrano sagrificare le proprie inclinazioni, benchè tal sagrifizio non costi ad esse nè molestia, nè sforzo.
Tanto rispetto a Lucia Asthon era avvenuto. Il padre di lei, ad onta della sua politica, della sua prudenza, e de’ suoi fini affatto mondani, provava per essa un affetto cotanto forte, che, quasi per sorpresa, eccitavagli straordinarie commozioni nell’animo. Il fratello primogenito che nel correre le vie dell’ambizione si prefiggea mire ancor più orgogliose che il padre suo, amava parimente con tenerezza la propria sorella; e benchè militare e dedito a secondar tutte le proprie passioni, la anteponeva all’uopo ai passatempi, alle cure del fasto, agli onori. Anche il più giovine dei fratelli, benchè in quella età non avesse volto l’animo che ad inezie fanciullesche, la volea confidente di ogni suo desiderio, di ogni sua angustia, de’ suoi buoni successi nelle dispute che avea col suo mentore o cogli altri maestri; e Lucia dal canto suo ascoltava pazientemente, e mostrandone persin vaghezza, tutte queste particolarità, come se cose inconcludenti non fossero. Sapea di far piacere con tal contegno ad Enrico, e ciò bastava perchè ne provasse piacere ella stessa.