1.
Cominciò tutto con un salvataggio. Cioè, fui io quella a essere salvata. Avevo dovuto lasciare la mia casetta al Village per affittare un piccolo appartamento nel Lower East Side. Era un brutto quartiere e giravo con una bomboletta di Mace in borsa.
In realtà, sapevo che non sarebbe servito a molto, se mi fossi trovata davvero nei guai, ma non potevo permettermi un posto migliore e speravo nella fortuna.
In seguito mi resi conto che mi avevano seguito dal Tomcat Bar, il locale in cui facevo la cameriera. Credo che il nome dica tutto. Era uno di quei locali. Di quelli con le cameriere semi-nude che cercano costantemente di scansare le mani dei clienti senza far cadere i vassoi.
La mia divisa si potrebbe descrivere come... un body nero. Tutto qua. O meglio, magari fosse stato tutto lì: il body aveva anche una coda da coniglio sul sedere.
Comunque, qualcosa per mangiare dovevo ben farlo, no?
Mi ero trasferita a New York per combinare qualcosa nel campo dell’arte, ma nel frattempo dovevo pagare le bollette.
Naturalmente, quando uscivo dal Tomcat non indossavo più il maledetto body. Anzi, quella sera, visto che faceva freddo, mi ero coperta fino ad assomigliare a una palla. Dal bar al mio palazzo c’erano sei isolati, cinque e mezzo se prendevo una scorciatoia in un vicolo. Non la prendevo mai, perché, insomma, lo sanno tutti che cosa succede a prendere le scorciatoie. Facevo sempre religiosamente il giro dell’isolato.
Neanche quella sera passai per il vicolo. Ci passarono loro.
Spuntarono dal vicolo e mi tirarono dentro.
Cercai di prendere il Mace nella borsa, ma mi resi subito conto che ero fregata.
Erano tre. Il vicolo era molto buio. Gridai. Un singolo grido, che dato il quartiere in cui eravamo non cambiò assolutamente nulla. Subito dopo uno dei tre mi tappò la bocca con una mano, mentre un altro mi bloccava le braccia. Il terzo, infine, mi fece vedere un coltello.
Ripensandoci, non mi ricordo che nessuno abbia detto qualcosa.
Ripensandoci, la scena fu completamente silenziosa, tranne quel mio grido iniziale.
E fu tutto estremamente ben concertato, come se l’avessero già fatto in precedenza. Il tizio con il coltello mi puntò la lama alla gola, mentre con l’altra mano mi tirava giù la cerniera del giaccone. Terrorizzata, smisi di divincolarmi. Qualcuno mi slacciò la cintura e i pantaloni, abbassandomeli fino alle caviglie. Mi colpirono con uno schiaffo. Persi l’equlibrio e caddi a terra. L’uomo con il coltello mi afferrò i capelli e mi tirò su la testa, per poi puntarmi di nuovo la lama alla gola. Il cuoio capelluto mi faceva male, davvero male, e avevo la guancia destra in fiamme. Mi tennero ferme le gambe e sentii un rumore particolare: quello della fibbia di una cintura che si slaccia.
L’uomo con il coltello continuava a tirarmi la testa verso l’alto, mentre dietro di me qualcuno mi metteva in posizione e mi stringeva sbrigativamente il sedere, piantandomi le dita nelle natiche. Le ginocchia mi strofinavano sull’asfalto. Piangevo terrorizzata e sapevo benissimo che cosa stavano per farmi. Sapevo che era questione di secondi.
Decisi coscientemente di stare ferma per non farmi fare più male.
Credo che Kael entrò nel vicolo in quel momento. Non posso saperlo con certezza, perché stavo guardando verso il basso.
«Cazzo» sentii dire, dietro di me.
E in quel momento... non so come spiegarlo, ma in quel momento fu come se il tempo avesse ripreso a scorrere normalmente, come se fosse tornato l’audio. Fu come se il mondo mi colpisse all’improvviso, come uno schiaffo.
L’uomo con il coltello si guardò alle spalle. Anch’io guardai alle sue spalle. Oltre l’imboccatura del vicolo la strada era normalmente illuminata. Vidi chiaramente la sagoma di un uomo, in controluce. «Fermi. Zitti. Tutti quanti, anche tu» disse la sagoma dell’uomo. Aveva qualcosa in mano e a quel punto ne vidi il bagliore: una pistola. La puntava contro l’uomo con il coltello o forse contro qualcuno dietro di me.
Nella strada passò una macchina della polizia con le sirene spiegate. Per un istante mi assordò, ma passò velocemente.
L’uomo si fermò e si portò la mano libera alla bocca. «Fermi» ripeté. Passarono un paio di secondi. «Lasciala, stronzo» disse, poi.
Il tizio con il coltello aprì le dita e mollò i miei capelli. La testa mi ricadde verso il basso. Sentii dei movimenti dietro di me. Suole che strusciavano sull’asfalto, come se qualcuno stesse retrocedendo sul proprio sedere.
«Andatevene. Da questo lato» ordinò l’uomo con la pistola.
Passò un’altra macchina della polizia, dall’altro lato del vicolo. Per un istante i lampeggianti illuminarono la faccia del mio salvatore. Un viso pallido e duro, sudato di paura.
«Andatevene!» ripeté, con più forza.
I miei tre aggressori scapparono come topi di fogna. Li vidi correre via, ingobbiti, preoccupati di prendersi una pallottola nella schiena.
L’uomo li guardò finché non furono più in vista. Emise un lungo sospiro di sollievo e si infilò la pistola nella tasca interna della giacca.
«Oh, Dio...» mormorò, accucciandosi accanto alla mia faccia.
Io continuavo a piangere, senza riuscire a fare assolutamente nient’altro, nemmeno a tirarmi su i pantaloni o mettermi a sedere.
«Merda, senti... stai bene?».
Era una stupida domanda, quindi non risposi. Continuai solo a singhiozzare, sperando che quel tizio chiamasse aiuto. Più aiuto.
«Adesso ti aiuto ad alzarti, okay?» disse lui. Annuii leggermente. Non riuscivo a fare assolutamente nulla. Era come se non avessi più nemmeno un osso nel corpo, mi sentivo di gelatina.
Lui mi prese per le ascelle e mi tirò su. Barcollai e inciampai nei miei pantaloni. Lui non si avvicinò, si limitò a sostenermi.
«Mi... mi chiamo Kael. Non voglio farti del male. Non ho idea di cosa fare, adesso» mi spiegò, deglutendo.
«La... chiamare la... polizia» provai a spiegare io.
Lui scosse la testa. «Non posso. Non posso proprio. Mi rendo conto che non è... senti...». Prese fiato lentamente. «Senti, stai sanguinando?».
Capii che non aveva visto bene e che, dopo, aveva cercato di non guardare. Scossi la testa. «No, sei arrivato in tempo. Mi sento... se mi lasci andare cado, però».
«Okay...» mormorò lui. «Okay...».
La notizia che non mi avevano stuprata sembrò renderlo più tranquillo e più padrone di sé. «Ti aiuto io» decise. «Posa una mano sulla mia spalla, se pensi di cadere».
Sul momento non capii. Un istante dopo mi lasciò andare (fino a quel momento aveva continuato a tenermi in piedi) e si chinò. Mi tirò su i pantaloni e gli slip in un unico gesto, cercando di non guardare. Barcollai e mi appoggiai davvero alla sua spalla. Lui si rialzò e mi allacciò il bottone dei jeans.
«Abiti lontano?» mi chiese.
Io scossi la testa.
«Ti accompagno a casa» decise. «Riesci a camminare?».
«Non molto. Mi sento come...»
Mi interruppi. Non sapevo nemmeno come spiegarlo. «È come se avessi perso tutte le forze».
«Adrenalina. Calo della tensione. Prendimi il braccio, non possiamo restare qua. Come ti chiami?».
«Sevil».
«Okay, Sevil. È facile. Un passo dopo l’altro. Con calma».
Feci come mi diceva. Camminammo lentamente fino alla fine del vicolo. Mi sembrava di essere un’invalida, ma non riuscivo proprio ad andare più veloce di così.
Piano-piano, le mie gambe si rimisero in moto.
Guardai la luce dei lampioni della mia strada. Le facciate di mattoncini sporchi dei palazzi. Le scale anticendio di ferro scuro.
«Abito lì» dissi, indicando il mio edificio con il mento.
«Eri quasi arrivata a casa, eh?» commentò lui. Adesso lo vedevo bene. Era vestito di nero, con un giubbotto opaco, di materiale tecnico, e uno zainetto nero. I suoi capelli erano molto scuri, di una mezza lunghezza. Era bello, mi resi conto, un po’ allucinata. Allucinata perché non capivo come potesse venirmi in mente in quel momento. Però lo era. Aveva dei lineamenti perfetti, resi ancora più perfetti dagli zigomi alti e dalle guance leggermente incavate. E i suoi occhi erano così blu da essere quasi viola, sottili e calmi. Mi accompagnò fino al portone e io iniziai a cercare le chiavi nelle tasche della mia giacca.
«Vengo su con te» mi disse.
«Eh?» feci io. «Guarda che in casa c’è il mio...»
«Se vuoi non salgo, ma non c’è proprio nessuno, in casa» mi interruppe lui. Non sembrava né seccato, né offeso. Fece un gesto vago. «Non credo che dovresti restare da sola. Se avessi voluto farti qualcosa, l’avrei già fatto, no? Inoltre, fermarmi da te potrebbe essermi utile».
Socchiusi gli occhi, mentre avevo l’impressione che una luce improvvisa mi rischiarasse il cervello. «Perché non hai voluto chiamare la polizia?» chiesi.
Lui sorrise leggermente, divertito. «Perché ho appena rubato gioielli per quasi centomila dollari da un furgone portavalori».
+++
Aprii il portone ed entrai. La luce, nell’androne, non funzionava, così bisognava fare diversi metri al buio fino a raggiungere l’interruttore delle scale. Lo feci, accesi la luce delle scale e iniziai a salire.
«Non è sicuro neanche questo» considerò Kael, seguendomi. «Voglio dire: sai quanta gente viene aggredita nel suo portone?».
«Grazie per il supporto morale» borbottai.
Lui emise una risatina nervosa. «Scusa, hai ragione».
Aprii la porta del mio bilocale, pensando che comunque non era sicura nemmeno quella. Non era blindata e la serratura non sembrava molto solida. Ma che cosa potevo farci? Non avevo deciso di vivere lì, ci ero stata costretta.
Precedetti Kael nel mio minuscolo appartamento, sperando che non fosse ridotto troppo male. Proprio non me lo ricordavo, in quel momento. C’era una tazza vuota davanti al divano con dentro dei resti marroncini (cioccolata calda) e diversi vestiti lanciati qua e là, ma non era così pessimo.
Mi lasciai cadere sul divano. Davvero non ce la facevo a essere ospitale. Tremavo.
Kael chiuse la porta e mollò lo zaino per terra, sedendosi accanto a me.
«Ehi, Sevil» mi chiamò.
«Scusa. Non... non so che cosa farci. Sono nel panico» ammisi.
Lui aprì la cerniera dello zaino e tirò fuori un sacchettino di scamosciato verde. «Lo so. Respira. Vuoi vedere una cosa che ti farà stare meglio?».
Annuii, anche se non sapevo che cosa avrebbe potuto farmi stare meglio.
Lui aprì il sacchettino e prese qualcosa all’interno. Aprì la mano e sul palmo c’era una collana d’oro, come un serpentello lucente, con appese una miriade di pietruzze trasparenti.
«È... bella» dissi.
Kael me la mise in mano. «È tua. Varrà qualche migliaio di dollari, però non provare a venderla subito. Lascia passare due o tre mesi, poi vai in una gioielleria decente e la vendi, raccontando che è un regalo del tuo ex marito o roba del genere. Lo sai fare?».
Gliela ridiedi. «Non lo so fare e non posso nemmeno accettare. Perché, poi?».
Lui sorrise nervosamente. Ai lati della bocca gli si formarono delle rughe piuttosto carine. «Sto cercando di comprare il tuo silenzio. Sono... ah, sono un po’ nella merda. Non avrei dovuto dire niente, della rapina, ma poi non mi avresti fatto salire e credo che la polizia mi stia ancora cercando, qua attorno».
«No, non me ne frega niente se hai rapinato un portavalori» gli dissi, scuotendo la testa. Mi alzai. «Senti... vado a farmi una doccia. Guarda pure nel frigo, se vuoi qualcosa».
Kael annuì, un po’ spiazzato. Capivo che il mio comportamento non fosse il massimo della normalità, ma neppure il suo lo era, se proprio volevamo fare i pignoli.
E avevo davvero, davvero bisogno di lavarmi. Mi sentivo ancora addosso quelle mani sconosciute, mi sentivo sporca e sudata. Entrai nel mio microscopico bagno e mi liberai velocemente dei vestiti. Mi buttai nella doccia e alzai al massimo la temperatura dell’acqua. Rimasi lì, sotto il getto rovente, insaponandomi molte più volte del necessario e pensando alla mia fortuna. Se Kael non fosse entrato in quel vicolo in quel momento avrei potuto essere morta. E se non morta, di certo messa parecchio male.
Gli occhi mi si riempirono di nuovo di lacrime e mi accucciai sul piatto della doccia, ricominciando a piangere. Era proprio tutto sbagliato, pensai. Quella casa, quel quartiere, il lavoro schifoso che facevo. Era pericoloso. Era una fatica bestiale e io mi sentivo svuotata, completamente demotivata e non ce la facevo più. La vita mi stava scivolando via dalle mani e non avevo idea di come rimetterla in sesto.
«Sevil?».
Era la voce di Kael, il mio rapinatore custode. Be’, in un quartiere come quello probabilmente era anche meglio di un angelo. «Ora esco» mormorai. Le mie parole si persero nello scroscio dell’acqua. In realtà non ero molto sicura di riuscire a rialzarmi.
La porta si aprì e la tendina venne scostata.
Kael chiuse il getto dell’acqua e mi aiutò a mettermi il piedi.
«Dovevo saperlo che saresti andata K.O.» disse, in tono gentile. «Va bene questo accappatoio?».
Annuii. Era il mio accappatoio. Era verde e un po’ spelacchiato. Kael mi aiutò a indossarlo e mi tirò su il cappuccio, stringendomi bene la cintura in vita.
«S-scusa, non...» balbettai.
«No, è normale. Quando ti rendi conto che stavi per morire fa uno strano effetto. Il mio palo... gli hanno sparato. Credo che sia morto». Mi asciugò i capelli con il cappuccio, strofinando forte. «Se non lo dicevo a qualcuno impazzivo» aggiunse.
Lo guardai nello specchio, nelle zone non appannate dal vapore. Era pallido e sudaticcio. Sembrava sconvolto e spaventato. «O-okay» dissi.
Mi voltai verso di lui e lo guardai direttamente, senza sapere bene che cos’altro aggiungere. Nel mio bagno c’era troppo caldo e troppo poco spazio. Eravamo praticamente incastrati tra la doccia e il lavandino. Mi alzai sulla punta dei piedi e lo baciai. Mentre lo facevo mi chiesi: Sevil, che cavolo ti salta in testa? Ma continuai a farlo, persino con una certa prepotenza, stringendo il maglione di Kael con entrambe le mani.
Lui allontanò la bocca di qualche centimetro, con in viso un’espressione confusissima. «Ma sei sicura?» chiese, in tono stranito.
Annuii e lo tirai verso di me. Lo baciai ancora più furiosamente, finché non cominciò a baciarmi a sua volta. Sembrò che volessimo mangiarci la bocca a vicenda. Gli strattonai il maglione verso l’alto, cercando di toglierglielo. Kael collaborò non appena capì quello che stavo facendo. Mi strinse i fianchi. Poi sembrò sbloccarsi e partire sul serio. Mi infilò una mano tra i capelli ancora bagnati, tirandomi verso di sé. Mi slacciò l’accappatoio e mi palpò una natica, schiacciandomi contro il lavandino.
Non restai ferma. Lo spinsi fuori, slacciando tutto quello che riuscivo a trovare da slacciare. Incespicammo fino alla camera da letto. Kael come un granchio, sospinto da me, sbattendo contro il divano e poi contro lo stipite della porta. A quel punto io ero nuda e avevo le sue mani da tutte le parti. Mi strizzava le tette e le natiche e mi aveva infilato due dita nella fica. Per quanto assurdo fosse, ero grondante.
Lo spinsi sul letto e gli tirai giù i pantaloni e i boxer. Non mi preoccupai delle scarpe... slacciarle mi avrebbe preso troppo tempo. Kael riuscì a sfilarsene una e si contorse fino a liberarsi una gamba dai pantaloni.
Gli strinsi l’uccello nel palmo della mano. Era così duro che pensai che stesse per venire. Lui gemette di piacere. Gli salii sopra e lo guidai dentro di me. Da quando l’avevo baciato non poteva essere passato più di un minuto, ma non mi interessava. Volevo sentirmelo dentro. Avevo bisogno di sentirmelo dentro – proprio all’istante.
Kael mi rivoltò e mi infilzò con un colpo energico dei fianchi. Lo sentii arrivarmi in fondo, riempiendomi tutta, allargandomi, piantandosi dentro di me. I miei gemiti salirono di tono, mentre lui mi stringeva le tette e ansimava. La sua bocca mi leccava e mi mordeva ovunque. Le sue mani mi stringevano. Allargai le cosce più che potevo tirandolo verso di me. Emisi una serie di “ah” sempre più urgenti ed eccitati, mentre lui accelerava ancora. «Cristo» lo sentii boccheggiare. Il suo pube mi schiacciava il clitoride a ogni affondo e io tremavo di piacere, a quel punto. Mi contrassi tutta attorno al suo uccello, gridando di piacere. Stavo per esplodere. Stavo per morire. Ne volevo ancora, e ancora, e ancora. Gli graffiai la schiena, mentre lui gemeva forte, rallentando e affondando ancora più in profondità nella mia fica. Infiammata di piacere, mossi freneticamente il bacino, arrivando all’orgasmo. Sentii Kael che grugniva, poi che rallentava ancora, come se dovesse abituarsi piano-piano al fatto che era tutto finito e stava tornando morbido. Lo guardai in faccia. Grondava sudore, aveva i capelli appiccicati alla fronte e sopra a un occhio, respirava pesantemente. Mi scivolò fuori, lasciandosi dietro una scia bagnata, e crollò di faccia sul materasso, ancora parzialmente sopra di me.
«Cristo» ripeté.
Non risposi. Stavo ancora riprendendo fiato e in realtà non sapevo nemmeno bene che cosa dirgli. Gli ero saltata addosso come una matta e probabilmente si stava facendo delle domande sul mio conto, ora che era venuto.
«Senti...» disse, ancora con il respiro accelerato.
«Mh?» feci, vaghissima. Ero congelata dalla vergogna, a quel punto.
«Non voglio sembrarti invadente né niente, ma mi piacerebbe infilarmi tra le coperte, perché inizio ad avere freddo».
«Vado ad accendere il riscaldamento» dissi io, schizzando fuori dalla camera da letto. Tra l’altro faceva freddo davvero. Inoltre era un’ottima scusa per non parlargli per qualche secondo.
Ma che cavolo avevo fatto?
Come cavolo mi era venuto in mente?
Senza nemmeno sapere chi fosse (a parte il fatto che era un rapinatore) e senza... niente, no? Non un preservativo, non un minimo sforzo anticoncezionale... solo sesso frenetico e irragionevole.
Quando tornai indietro, prima di entrare sbirciai dentro la mia camera da letto. Ero nuda e scalza, quindi non mi illudevo di poter ritardare molto a lungo il momento in cui avrei dovuto guardarlo di nuovo in faccia.
Kael era sotto alle coperte, a pancia in giù, con gli occhi socchiusi, e la guancia sul mio cuscino.
«Vengo sotto anch’io, eh?» annunciai, entrando.
«È tuo, il letto» borbottò lui. Si spostò leggermente da un lato per farmi un po’ di spazio.
Mi spolverai i piedi e scivolai sotto il piumino. «Oh, c’è caldo» dissi, rendendomi conto che il suo corpo aveva scaldato le lenzuola.
Kael mi lanciò una mezza occhiata assonnata. «Ti avverto che sto per addormentarmi. Mi sta scendendo... non so, tutto. La paura, l’adrenalina, l’eccitazione. Mi sembra di aver preso un colpo in testa. Non ti darò fastidio, lo giuro».
Sorrisi appena. «Va bene. Ti ho praticamente aggredito».
Lui sbadigliò. «Puoi aggredirmi quando vuoi».
+++
Dormii un sonno pesante, insensibile, spesso. Mi sembrò di essermi svegliata dopo pochi minuti, ma erano passate delle ore e la luce stava entrando dalla finestra. L’alba era stata almeno un’ora prima, perché la mia stanza è in ombra, quindi da me il giorno arrivava un po’ più tardi che dagli altri. Quando arrivò, tuttavia, mi svegliai di colpo e gemetti.
Non mi chiesi che cosa ci facesse un tizio addormentato nel mio letto, dato che purtroppo mi ricordavo tutto perfettamente. La sera prima ero stata quasi stuprata. Poi avevo quasi stuprato quel tizio. “Quasi” perché non aveva opposto una strenua resistenza, a dire il vero.
Comunque, ero andata a letto con uno di cui sapevo solo il nome e che aveva rapinato un portavalori, non avevo rispettato le più elementari norme di sicurezza e mi sentivo la passerina bella infiammata, segno che l’avevamo fatto come furie proprio come ricordavo.
Kael aprì uno spiraglio di occhi e io mi affrettai a richiudere i miei, dato che proprio non sapevo che cosa dirgli.
«Guarda che ti ho visto» borbottò.
Sbadigliò, si alzò e uscì dalla stanza. Per un istante vidi le sue natiche sode e la sua schiena tutta graffiata. Sentii l’acqua che scorreva, in bagno, lo sciacquone e di nuovo l’acqua che scorreva. Kael ritornò e chiuse le tende. Poi si rinfilò tra le coperte. Aveva fatto tutto con gli occhi ancora socchiusi, come se non volesse svegliarsi del tutto.
«Non so che cosa mi è preso» ammisi, sottovoce.
Lui sbadigliò. Mi resi conto che aveva richiuso gli occhi e pensai che volesse dormire ancora.
«Strizza» rispose, però, un secondo più tardi. «Quando uno si spaventa tanto è come se dopo impazzisse. Mi dispiace solo di aver fatto così schifo, ma sai... ero nel panico più totale. Tu adesso puoi razionalizzare e riprendere la tua vita, ma io sono abbastanza nella merda».
Mi voltai verso di lui. Aveva la fronte aggrottata e una smorfia preoccupata in faccia. nonostante questo confermai il mio primo giudizio: era bello.
«Perché hai rapinato un portavalori» dissi.
«Perché l’ho fatto per ripianare un debito, ma il tizio che mi avevano incollato probabilmente è morto... oppure l’hanno arrestato, no?». Riaprì gli occhi solo per richiuderli subito dopo, con una smorfia. «Dio, è brutto da dire, ma speriamo che sia morto. E comunque può darsi che diano la colpa a me. In quel caso quello che muore sarò io».
Aprii la bocca, ma non sapevo davvero che cosa dire.
Gli accarezzai l’esterno di un braccio. «Mi dispiace».
Lui annuì appena. «Pensi che potrei restare qua, oggi?».
«Penso di sì» risposi, prima di riflettere. «Sarà pericoloso?» aggiunsi, subito dopo, un po’ pentita di aver accettato così velocemente. Ancora mezzo secondo più tardi mi dissi che quel tizio, in ogni caso, la sera prima mi aveva salvata. Avrebbe potuto tirare dritto. Aveva la polizia alle costole e tutto. E il mondo era un posto schifoso, quindi se avesse tirato dritto non mi sarei stupita più di tanto. «Oh, non importa. Certo che puoi restare».
Kael sospirò di sollievo. «Grazie. Non penso che sia pericoloso... nessuno sa che sono qua. Senti... ora stai bene, sì?».
Gli rivolsi un sorriso un po’ incerto. «Sì, credo di sì. Sei stato... gentile».
«Non mi è andata per niente male. Peccato che forse mi uccideranno, avrei voluto conoscerti meglio» fece lui, divertito. Poi il suo sguardo si addolcì. «Sono felice di essere arrivato al momento giusto. Li conoscevi?».
«Non proprio. Penso che mi abbiano seguita dal bar. Sai, il Tomcat. È lì che lavoro».
Lui inarcò un sopracciglio. «Cameriere vestite da conigliette?».
Alzai una mano. «Presente».
Kael sporse il labbro inferiore, come a dire: “che ci vuoi fare, eh?”. Però poi disse, in tono un po’ preoccupato: «Dovreste almeno uscire in coppia, no?».
«Stacchiamo a orari diversi e abitiamo in direzioni diverse. E, credimi, quando hai corso qua e là per delle ore su un paio di tacchi a spillo non hai tutta questa voglia di allungare la strada». Scossi appena la testa e sospirai. «Devo cambiare lavoro. Devo proprio cambiare lavoro, eh. Sono mesi che lo dico, ma poi... sono troppo stanca per cercare un altro lavoro. Vado in bagno anch’io. E poi dormirei un altro po’, non so tu».
Per tutta risposta lui sbadigliò.