Prologo

1184 Words
Prologo Jena Berry credeva che una formazione ricca di esperienze eterodosse sfociasse quasi inevitabilmente in una coscienza più elastica della norma. Lei stessa era un ottimo esempio di come questo assioma funzionasse e, in effetti, era proprio su se stessa che si erano basate per lo più le sue osservazioni. A partire dal suo nome, niente in lei era stato tranquillo e banale. “Jena” era il nome con cui era stata presentata da sua madre al suo futuro tutore, subito prima che lei se la svignasse e fosse inghiottita per sempre dalla folla senza nome delle persone scomparse. La donna, che si chiamava Hazel, lo pronunciava “Iena”, come gli sghignazzanti animali del deserto, ma Alexander Nabokov aveva iniziato subito a pronunciarlo “Gena”, con la g morbida di “ginger”, o, alle volte, se così gli girava, con la j del je (io) francese. Al contrario di quel che ci si potrebbe aspettare, la pronuncia alla francese non coincideva quasi mai con i momenti in cui Jena veniva vezzeggiata, ma piuttosto con quelli in cui Alexander era di pessimo umore con lei. Anche se, in tutti gli anni in cui vissero nella stessa casa, non arrivò mai al punto di chiamarla “Iena”. Alexander Nabokov era, sotto più di un punto di vista, un uomo bizzarro. In molti erano convinti che fosse pazzo, ma naturalmente si sbagliavano di grosso. Alexander Nabokov era sanissimo di mente. Troppo sano, in effetti. Guardava al mondo con occhi privi di qualsiasi lente deformante, vedeva le cose per quel che erano, senza abbellirle e senza peggiorarle. Non era colpa sua se quello che vedeva difficilmente lo entusiasmava. Ed era per rendere questa continua delusione più accettabile che aveva sviluppato un particolare tipo di humor nerissimo che applicava a qualsiasi circostanza, dalle pulizie domestiche ai funerali. Quando aveva capito che Hazel non sarebbe ritornata a prendere sua figlia – e l’aveva capito pochi minuti dopo il suo “arrivederci” – non aveva neppure pensato di rintracciarla e inchiodarla alle proprie responsabilità. Si era solo preoccupato di darle un cognome e procurarle un’identità legale, perché sapeva bene che erano dettagli come quello che potevano rovinarti la vita. Non sapeva quale fosse il cognome di Hazel e non si sentiva ancora intimo a sufficienza con la bambina. Nabokov, per di più, era uguale al nome di uno scrittore famoso e controverso, non sarebbe stato un gran bel lascito. La chiamò “Berry” e fece in modo che avesse tutti i documenti necessari a provarlo. Fin da piccola Jena dimostrò di possedere uno sguardo grigio dei più preoccupanti, dei capelli così chiari da sembrare incolori e la capacità di fissarti con un’aria seria che ti avrebbe fatto sentire in colpa anche se eri innocente. I successivi anni non furono molto facili per nessuno dei due. Malgrado il cognome russo, Alexander era la quintessenza della britannicità. Alto e ossuto, il naso simile a un becco e i capelli di quel colore tutto britannico, a metà strada tra ogni altro colore possibile, che può essere descritto come un ricco color topo, Alexander, a trentasette anni, si era trovato in braccio un fagotto con dentro una bambina e la cosa l’aveva lasciato “per niente stupito” per quasi una settimana. Sarebbe rimasto stupito se avesse conosciuto meno il mondo. Dato che però sapeva come andavano le cose, trovarsi una bambina a carico, per quanto sembrasse la trama di un libro di Dickens, non lo stupì. Lo turbò, questo sì, e lo infastidì anche, ma ormai era successo e Alexander non era il tipo da rimuginare sul passato, neppure quando il passato è passato da pochi minuti. Nabokov non aveva un lavoro ben preciso. Per la maggior parte del tempo inventava cose, quindi forse si sarebbe potuto definire un inventore, ma rispetto agli inventori dei film non aveva una casa disseminata di buffi spreminoccioline o sgusciacappelli. Lui, nelle giornate buone, si definiva un “immaginatore”. Immaginava praticamente di tutto. Ricette di alta cucina che non aveva la minima intenzione di provare e che vendeva a prestigiose riviste per cuochi. Trame di romanzi non ancora scritti che vendeva a scrittori. Pneumatici anti-gelo puramente teorici che vendeva a case automobilistiche. Ma la cosa che immaginava meglio di ogni altra erano le truffe, e c’è solo una categoria di persone a cui si può vendere una truffa appena pensata: i truffatori. Da questo punto di vista, quindi, si poteva dire che Nabokov fosse un truffatore. Ma man mano che Jena cresceva, Nabokov era solito dire che un giorno o l’altro per comprarle nuovi vestiti avrebbe dovuto vendere quella ventina di omicidi perfetti che ogni assassino avrebbe comprato a peso d’oro. Da quest’altro punto di vista, quindi, definirlo un truffatore sarebbe stato un po’ riduttivo. Ed ecco come crebbe Jena Berry. Fino ai cinque anni poteva assomigliare a ogni altra bambina capace di gelarti con una singola occhiata. Indossava vestitini abbastanza carini e scarpe comode non necessariamente intonate, e aveva i capelli quasi bianchi tagliati in un ordinato caschetto. Nessuno capì mai perché Hazel l’avesse mollata proprio a Nabokov. Quando glielo chiese, le spiegò che non era suo padre, proprio no. Non avrebbe potuto esserlo, dato che lui e Hazel non avevano mai fatto sesso. E, quando era più giovane, Nabokov aveva avuto l’occasionale avventura, certo. Per un motivo o per l’altro conquistarsi le grazie delle signore non gli riusciva difficile, forse perché, come diceva lui, le donne prediligono i veri furfanti. Ma con Hazel non aveva mai avuto nessuna relazione, avventura, o nottata di sesso occasionale. La conosceva appena e per un periodo avevano frequentato lo stesso giro, nient’altro. Ma ormai era fatta: la bambina era di Nabokov. Alle scuole elementari Jena ebbe la sua prima grande delusione quando scoprì che, parole sue, gli altri bambini erano “molto ordinari”. Nabokov non si sentì di contraddirla. Quando diventò più grande la sua opinione rimase sostanzialmente immutata. Era diventata una ragazzina flessuosa, forse troppo snella, e con un bellissimo paio di zigomi. Aveva una bocca sfrontata che emetteva spesso sentenze imbarazzanti. Ma, a parte qualche occasionale incomprensione con il corpo docente, i suoi risultati scolastici furono più che soddisfacenti e a diciassette anni si diplomò con ottimi voti. Se ne andò di casa subito dopo. Lei e Nabokov avevano avuto una discussione, ma il motivo non era neppure quello. Semplicemente, Jena sapeva come badare a se stessa e intendeva farlo. Si iscrisse alla facoltà di medicina e iniziò a frequentare i corsi con ottimo profitto. Tuttavia, quando Nabokov finì investito da un adolescente sbronzo di fronte alla porta di casa, morendo sul colpo, Jena abbandonò l’università, disgustata. A cosa serviva saper trapiantare un cuore, se non avevi il tempo o la possibilità di farlo? Alexander Nabokov, che era stato suo padre, suo amico e suo confidente, e che le aveva insegnato, come amava dire, “tutto quello che serve sapere”, la lasciò con un buco nell’anima del tutto inaspettato. Per quanto l’avesse preparata con scrupolo, non l’aveva preparata alla possibilità del dolore improvviso. Fu in questo modo che, a ventitré anni, Jena Berry si trovò proprietaria di una casa a due piani in un sobborgo di Londra privo di interesse, di una somma in banca sufficiente per tirare avanti per un po’, di un’automobile poco usata e di una tomba nuova di zecca e già occupata. Come avrebbe detto Nabokov, era tutto quello che le serviva.
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