CAPITOLO UNO
Avery appoggiò l’ultima delle scatole sul pavimento del nuovo appartamento della figlia e le venne voglia di piangere. Il camion dei traslochi si era allontanato dal marciapiede al piano terra da cinque minuti e ormai non si poteva più tornare indietro: ormai Rose aveva una casa tutta sua. Avery sentiva una stretta allo stomaco; vivere in un dormitorio del college, dove c’erano amici a ogni angolo e la sicurezza della polizia del campus era tutta un’altra cosa.
Rose stava andando a vivere da sola. E Avery non lo aveva ancora accettato. Poco tempo prima la figlia era stata in pericolo per via del suo ultimo caso, che era una faccenda per cui lei provava ancora un enorme senso di colpa. Lasciare che Rose vivesse da sola dopo un simile evento le sembrava totalmente da irresponsabile. La faceva sentire un fallimento come madre. E la spaventava moltissimo. Che non era una cosa da poco per una decorata detective della Omicidi.
Ha diciotto anni, pensò Avery. Non puoi tenerla stretta a te per sempre, specialmente visto che il vostro rapporto è stato blando, se non addirittura inesistente, durante i suoi anni formativi.
Come aveva fatto Rose a crescere così in fretta? Come era diventata una donna tanto bella, indipendente e motivata? Di sicuro Avery non poteva prendersene il merito, essendo stata assente per la maggior parte della sua vita.
A parte tutto, guardare la figlia che sistemava i piatti e li metteva nella sua nuova credenza la rendeva orgogliosa. Nonostante l’infanzia e gli anni tumultuosi dell’adolescenza che aveva passato, Rose ce l’aveva fatta. Davanti a lei si stagliava il suo futuro e iniziava mettendo i piatti del Dollar Store nella credenza del suo primo appartamento.
“Sono orgogliosa di te, piccola,” disse Avery. Attraversò il labirinto di scatoloni che occupava il pavimento del soggiorno di Rose.
“Per cosa?” disse Rose.
“Per essere sopravvissuta,” rispose Avery con una risata. “So che non ti ho reso le cose facili.”
“Infatti. Ma papà è stato bravo. E non lo dico per ferirti.”
Avery provò una fitta di dolore.
“Lo so.”
Sapeva che fare un’ammissione come quella era stato difficile per Rose. Era ovvio che sua figlia stesse ancora cercando di trovare le basi del loro rapporto. Per qualunque madre e figlia estraniate, la riconciliazione non era facile. Ma nell’ultimo periodo loro due avevano vissuto l’inferno. Dalle minacce contro Rose da parte di un serial killer e il suo trasferimento in una casa sicura, al disordine da stress post-traumatico con cui Avery stava venendo a capo, scatenato dal salvataggio della figlia, c’erano ostacoli grandi quanto montagne da superare. E persino una cosa semplice come trasportare scatole nel nuovo appartamento della figlia era un grosso passo in avanti nella riparazione del rapporto che Avery desiderava stringere con lei.
Fare quel passo richiedeva una certa dose di normalità, una normalità che non era sempre stata presente nel mondo della detective ossessionata dal lavoro.
Raggiunse Rose e la aiutò a svuotare le scatole etichettate come CUCINA. Mentre lavoravano insieme per disfarle, Avery si sentì di nuovo vicina alle lacrime.
Ma che accidente mi succede? Quando sono diventata così emotiva?
“Credi che starai bene?” chiese la detective, facendo del suo meglio per mantenere viva la conversazione. “Qui non è come il dormitorio del college. Te la dovrai cavare da sola. Ti senti pronta dopo…. beh, dopo tutto quello che hai passato?”
“Sì, mamma. Non sono più una bambina.”
“Beh, questo è ovvio.”
“Oltretutto,” continuò la ragazza, mettendo via l’ultimo piatto e accantonando la scatola vuota. “Non sono più del tutto sola.”
Ed eccole arrivate al punto della questione. Ultimamente Rose era stata un po’ distratta ma anche di buon umore, e un ovvio buon umore era un avvenimento raro per Rose Black. Avery aveva supposto che potesse c’entrare un ragazzo e quello era un altro argomento scomodo che non era preparata ad affrontare. Non era stata lei a spiegare il ciclo mestruale a Rose, non era con lei che la figlia aveva parlato della sua prima cotta, del primo ballo e del primo bacio. Ora che potenzialmente aveva davanti la vita amorosa della figlia diciottenne, si rendeva conto di tutto quello che si era persa.
“Che cosa vuoi dire?” chiese Avery.
Rose si morse un labbro, come se fosse pentita di aver parlato.
“Io… beh, potrei aver incontrato qualcuno.”
Lo disse casualmente e come se non fosse niente di importante, rendendo ovvio che non era interessata a parlarne.
“Ah, sì?” domandò Avery. “Quando è successo?”
“Circa un mese fa,” rispose Rose.
Cioè precisamente da quando ho notato il suo buon umore, pensò Avery. A volte era inquietante quanto le sue abilità di detective fossero utili nella vita privata.
“Ma… lui non vivrà qui, vero?” chiese Avery.
“No, mamma. Ma potrebbe essere qui spesso.”
“Non è il genere di cosa che la madre di una diciottenne vorrebbe sentirsi dire.”
“Dio, mamma. Andrà tutto bene.”
Avery sapeva che avrebbe dovuto lasciar correre. Se Rose voleva parlarle di questo ragazzo, lo avrebbe fatto con i suoi tempi. Insistere avrebbe solamente peggiorato le cose.
E invece l’istinto maturato sul lavoro prese il sopravvento e non riuscì a trattenersi dal farle altre domande.
“Posso incontrarlo?”
“Uhm, assolutamente no. Non ancora, in ogni caso.”
Avery percepì l'opportunità di approfondire la questione, di affrontare l'imbarazzante conversazione sul sesso sicuro e i rischi delle malattie e delle gravidanze giovanili. Ma sentiva quasi di non averne il diritto, dato i loro rapporti tesi.
Essendo una detective della Omicidi però, le era praticamente impossibile non preoccuparsi. Sapeva che razza di uomini c’erano là fuori. Non aveva visto solo assassinii, ma anche casi gravi di abusi domestici. E anche se questo ragazzo nella vita di Rose era un perfetto gentiluomo, per lei era più semplice dare per scontato che fosse una minaccia.
Tuttavia, a un certo punto, non avrebbe dovuto iniziare a fidarsi dell'istinto di sua figlia? Non le aveva appena fatto i complimenti per come era cresciuta bene, nonostante la sua educazione?
“Basta che fai attenzione,” raccomandò Avery.
Rose era chiaramente in imbarazzo. Alzò gli occhi al cielo e iniziò a mettere in ordine i dvd nel piccolo salotto che dava sulla cucina.
“E tu?” chiese la ragazza. “Non ti stanchi mai di stare da sola? Lo sai... anche papà è ancora single.”
“Lo so,” disse Avery. “Ma non è un problema mio.”
“È il tuo ex marito,” sottolineò Rose. “Ed è mio padre. Quindi sì, è anche un problema tuo. Potrebbe farti bene vederlo.”
“Non sarebbe positivo per nessuno dei due,” rispose Avery. “Se lo domandassi a lui, sono certa che ti direbbe la stessa cosa.”
Avery era sicura che fossi così. Anche se non avevano mai parlato della possibilità di tornare insieme, tra di loro c'era un accordo inespresso, qualcosa che era stato nell'aria sin da quando aveva perso il lavoro da avvocato e nelle settimane seguenti si era praticamente rovinata la vita. Si sarebbero tollerati a vicenda per Rose. Anche se provavano ancora sentimenti di mutuo rispetto e affetto, sapevano che non era possibile tornare insieme. Jack si preoccupava solo della stessa cosa che interessava a lei. Voleva che Avery passasse più tempo con Rose. E stava a lei capire come farlo. Nelle ultime settimane si era messa d’impegno per elaborare un piano, e anche se richiedeva un sacrificio da parte sua, era pronta a provarci.
Sentendo che avevano già superato la nube temporalesca che era il difficile argomento di Jack, Avery cercò di affrontare quello del sacrificio in questione. Non c’era modo di arrivarci per vie traverse, quindi decise di dirlo e basta.
“Stavo pensando che potrei chiedere meno ore di lavoro i prossimi mesi. Mi sono detta che potremmo provare davvero a far funzionare le cose tra di noi.”
Rose si fermò per un istante. Sembrò presa in contropiede e genuinamente sorpresa. Fece un piccolo cenno in segno di assenso e tornò a svuotare le scatole. Emise un lieve sbuffo.
“Che c’è?” chiese Avery.
“Ma tu ami il tuo lavoro.”
“È così,” confermò lei. “Ma sto pensando di farmi trasferire dalla Omicidi. Se lo facessi, avrei molto più tempo libero.”
Rose lasciò perdere le scatole del tutto. Nel giro di un secondo tutta una gamma di emozioni le attraversò il volto. Avery fu felice di vederne una che sembrava essere speranza.
“Mamma, non devi farlo.” La sua voce era tenera e vulnerabile, quasi come la bambina che Avery ricordava bene. “È come se stravolgessi la tua vita.”
“No, non lo è. Sto invecchiando e ho capito di essermi persa molte cose della mia famiglia. È quello che mi serve per andare avanti… per stare meglio.”
Rose si sedette sul divano coperto di scatole e vestiti sparsi. Alzò lo sguardo su Avery, con quella luce di speranza ancora negli occhi.
“Sei sicura che sia quello che vuoi?” chiese.
“Non lo so. Forse.”
“E poi,” aggiunse Rose, “ho capito da dove viene la mia abilità a cambiare argomento. Abbiamo già smesso di parlare della faccenda della solitudine.”
“Te ne sei accorta, allora?”
“Sì. E a essere sinceri, anche papà lo ha notato.”
“Rose…”
Rose si voltò verso di lei.
“Gli manchi, mamma.”
Avery si ritirò in se stessa. Rimase ferma lì, in silenzio per un momento, incapace di rispondere.
“A volte anche lui mi manca,” ammise. “Solo non abbastanza da chiamarlo e riaffrontare fuori tutto il nostro passato.”
Gli manchi, mamma.
Avery rifletté su quelle parole. Raramente pensava a Jack in un senso veramente romantico. Ma aveva detto la verità: lui le mancava sul serio. Le mancava il suo buffo senso dell’umorismo, il modo in cui il suo corpo sembrava sempre un po’ troppo freddo al mattino, e come la sua voglia di sesso fosse comicamente imprevedibile. Più di ogni altra cosa però, le mancava guardarlo essere un ottimo padre. Ma ormai era tutto finito, parte di una vita che Avery stava cercando con impegno di lasciarsi alle spalle.
E tuttavia non riusciva a evitare di chiedersi come sarebbe stato, consapevole di aver avuto l’occasione di godersi una bella vita. Una vita fatta di staccionate bianche, raccolte di fondi scolastici e pigre domeniche pomeriggio trascorse in cortile.
Ma quell’occasione era svanita per sempre. Rose non aveva potuto avere quella vita perfetta e Avery incolpava ancora se stessa.
“Mamma?”
“Scusa, Rose. È solo che non credo che io e tuo padre potremmo aggiustare le cose, capisci? Oltretutto,” aggiunse, e fece un profondo respiro, preparandosi alla reazione di Rose, ”forse tu non sei l’unica ad aver incontrato qualcuno.”
Rose si voltò verso di lei e Avery fu sollevata di vederla sorridere. La ragazza la guardò con quella specie di sorrisetto malizioso che si scambiavano le amiche quando parlavano di uomini davanti a un cocktail. Scaldò il cuore di Avery in un modo a cui non era preparata, né che riusciva a spiegarsi.
“Che cosa?” chiese Rose, fingendosi scioccata. “Tu? Dettagli, grazie.”
“Ancora non ci sono dettagli.”
“Beh, chi sarebbe?”
Avery ridacchiò, sapendo quando sarebbe sembrato sciocco. Fu quasi sul punto di non dirlo. Che diavolo, aveva a malapena detto all’uomo in questione quello che provava. Ammetterlo ad alta voce davanti a sua figlia sarebbe stato surreale.
Almeno lei e Rose stavano facendo progressi. Non aveva senso reprimerli per via del suo imbarazzo nel provare sentimenti per un uomo che non fosse il padre di Rose.
“È un uomo con cui lavoro. Ramirez.”
“Siete stati a letto insieme?”
“Rose!”
Rose scrollò le spalle. “Ehi… volevi una relazione aperta e sincera con tua figlia, no?”
“Sì, immagino di sì,” rispose lei con un sorriso. “E no… non siamo stati a letto insieme. Però credo di provare qualcosa per lui. È gentile. Divertente, sexy, e ha un certo fascino che all’inizio mi irritava ma ora… è interessante, in un certo modo.”
“Anche tu gli piaci?” chiese Rose.
“Sì. O comunque gli piacevo. Credo di aver rovinato tutto. Lui è stato paziente ma credo che non abbia più voglia aspettare.” Ciò che non disse fu che aveva preso la decisione di dire a Ramirez quello che provava per lui ma che non aveva ancora trovato il coraggio di farlo.
“Lo hai allontanato?” domandò Rose.
Avery sorrise.
“Accidenti, che intuito.”
“Te l’ho detto, è ereditario.”
Rose sorrise di nuovo, sembrando dimenticarsi per un momento delle scatole da svuotare.
“Vai e colpisci, mamma!”
“Oh, mio Dio.”
Rose scoppiò a ridere e presto Avery si unì a lei. Probabilmente era stato il momento di maggior vulnerabilità che avevano avuto da quando avevano iniziato ad aggiustare il loro rapporto. All'improvviso l'idea di allontanarsi dalla Omicidi e prendersi un po' di tempo dal lavoro sembrò una necessità piuttosto che un'idea speranzosa.
“Hai dei progetti per questo fine settimana?” chiese Avery.
“Devo svuotare gli scatoloni. Forse un appuntamento con Ma... il tizio che per ora rimarrà senza nome.”
“Che ne dici di una giornata tra ragazze con la tua mamma, domani? Pranzo, un film, una pedicure.”
Rose arricciò il naso all'idea, ma sembrò prenderla seriamente in considerazione. “Posso scegliere io il film?”
“Se devi proprio.”
“Sembra divertente,” commentò Rose con un pizzico di eccitazione. “Ci sto.”
“Fantastico,” rispose Avery. Poi sentì il bisogno di fare una domanda—una domanda strana, ma che andando avanti sarebbe stata fondamentale per il loro rapporto. La consapevolezza di ciò che stava per domandare a sua figlia era umiliante, ma in una strana maniera, liberatoria allo stesso tempo.
“Quindi a te andrebbe bene se io andassi avanti?” chiese Avery.
“Che cosa vuoi dire?” domandò Rose. “Se trovassi qualcuno che non sia papà?”
“Sì. Un altro uomo, ma anche se superassi quella parte della mia vita, la parte che ha reso le cose difficili a tutti noi. Per me significherebbe non essere più gravata dal senso di colpa per ciò che avrebbe potuto essere. E per farlo devo allontanarmi anche da tuo padre. Gli vorrò bene per sempre e lo rispetto per averti cresciuta mentre io non c'ero, ma fa parte di quella vita da cui devo prendere le distanze. Lo capisci?”
“Sì, lo capisco,” disse Rose. La sua voce era di nuovo bassa e vulnerabile. Sentirla fece desiderare ad Avery di andare da lei sul divano e abbracciarla. “E non ti serve il mio permesso, mamma,” continuò la ragazza. “Lo so che ci stai provando. Lo vedo, davvero.”
Per la terza volta in quindici minuti, Avery si sentì vicina alle lacrime. Sospirò e ricacciò giù la voglia di piangere.
“Come hai fatto a venir su così bene?” domandò.
“È genetica,” rispose Rose. “Anche se hai fatto qualche errore, sei sempre stata una tosta, mamma.”
Prima che Avery riuscisse a formulare una risposta, Rose le si avvicinò e l’abbracciò. Fu un abbraccio genuino, che non riceveva da sua figlia da molto tempo.
Quella volta, Avery lasciò che le lacrime scendessero.
Non riusciva a ricordarsi quando fosse mai stata tanto felice. Per la prima volta dopo moltissimo tempo, si sentì come se stesse veramente facendo qualcosa per sfuggire dagli errori del suo passato.
Una grossa parte di ciò sarebbe stato parlare con Ramirez e fargli sapere che aveva finito di nascondere quello che stava nascendo tra di loro. Voleva stare con lui, qualsiasi cosa ciò implicasse. All'improvviso, con le braccia di sua figlia strette attorno a sé, Avery non vide l'ora di parlare con lui.
In effetti, sperava che non avrebbero solo parlato. Sperava che avrebbero finito per fare molto di più, lasciando finalmente che la tensione che era cresciuta tra di loro raggiungesse la sua naturale risoluzione.