PREFAZIONE DELL' AUTORE

3193 Words
PREFAZIONE DELL' AUTORE Aggiustata la cavezza, sistemato il carro, Già fatti i saluti... ma duro è partire (Prior) L’autore dei Romanzi di Waverley ha ottenuto nel tempo una crescente popolarità e, nel suo specifico ambito letterario, potrebbe essere definito come l’ enfant gâté [1] del successo. Nonostante ciò, era prevedibile che una tale frequenza di pubblicazioni avrebbe, prima o poi, affievolito l’interesse del pubblico, a meno che non si fosse trovato un espediente per donare un’apparenza di novità alle successive pubblicazioni. I costumi scozzesi, così come il dialetto e i personaggi più importanti, essendo questi gli elementi con cui aveva maggiore familiarità, furono la base che l’autore ha sfruttato per dare risalto alle proprie opere. Era comunque prevedibile che, se utilizzati ripetutamente, tali argomenti finissero col suscitare un senso di monotonia e che il lettore si sarebbe alla lunga immedesimato nelle parole di Edwin nel racconto di Parnell [2] : «Cambia l’incantesimo», grida, «E vediamo se dà buoni risultati. La capriola è già stata vista». Nulla può essere più dannoso (se può evitarlo), per il buon nome di un autore di grande importanza, di accettare di passare per un manierista, oppure essere considerato capace di ottenere successo solamente in uno stile particolare e limitato. Il pubblico, in genere, è portato a credere che un autore che l’ha soddisfatto con le proprie opere di un determinato genere, proprio grazie a quel talento, non sia capace di accontentarlo in altri campi. L’effetto di tale avversione da parte del pubblico nei confronti di chi è riuscito a soddisfare i propri gusti, nel momento in cui l’attore o l’artista tenti di ampliare la propria creatività, si può riscontrare da sempre nelle stroncature di una certa critica volgare. C’è qualcosa di vero in questi giudizi, così come avviene sempre per ciò che diventa opinione comune. Può spesso accadere sul palcoscenico che un attore dotato delle qualità necessarie a dare forza alla commedia, possa essere privato del diritto di aspirare all’eccellenza tragica; mentre nella pittura o nella letteratura, un artista o un poeta possa padroneggiare esclusivamente i modi di pensare e le capacità espressive che li confinano ad una singola sfera di argomenti. Molto più spesso, la stessa capacità che porta popolarità ad un uomo in un ambito specifico, lo porterà al successo anche in un altro campo e ciò accade molto più facilmente nella composizione letteraria, piuttosto che nella pittura o nella recitazione, poiché colui che si cimenta in quel campo non è limitato dalle sue peculiarità fisiche adatte ad un ruolo piuttosto che ad un altro, né da qualche particolare abitudine ad usare il pennello, limitata ad una particolare sfera di soggetti. Che tale ragionamento sia corretto, oppure no, l’autore ha sentito che, limitandosi a soggetti esclusivamente scozzesi, non soltanto avrebbe sfibrato l’indulgenza dei suoi lettori, ma avrebbe anche limitato enormemente la sua capacità di divertirli o soddisfarli. In un paese tanto raffinato, dove mensilmente così tanto talento è impiegato nell’intrattenimento del pubblico, un argomento nuovo, come quello che lui stesso ha avuto la fortuna di scoprire, è come una sorgente nel deserto: «Gli uomini benedicono le stelle e le considerano un dono» Ma quando gli uomini e i cavalli, il bestiame, i cammelli e i dromedari hanno ridotto tale sorgente in fanghiglia, essa diventa imbevibile a coloro che ne hanno sempre attinto e colui che ebbe il merito di scoprirla, al fine di preservare la propria reputazione all’interno della tribù, deve dimostrare il proprio talento scoprendo sempre nuove fresche sorgenti. Se un autore che si scopre limitato ad una particolare categoria di argomenti, tenta di mantenere intatta la propria reputazione sforzandosi di aggiungere nuove attrattive alle proprie tematiche che gli diedero successo, esistono concreti motivi per cui, prima o poi, sarà destinato a fallire. Anche ammettendo che la miniera non sia ancora esaurita, la forza e la capacità del minatore prima o poi andranno ad esaurirsi. Se lo scrittore continuerà ad imitare la narrativa che l’ha portato al successo, sarà destinato a “stupirsi che non piaccia più”. Se invece l’autore s’impegna a trattare gli stessi argomenti sfruttando un diverso punto di vista, scoprirà ben presto quanto era evidente, piacevole e naturale si è esaurito e, al fine di ottenere l’indispensabile fascino della novità, sarà obbligato a ricorrere a delle caricature; per evitare di essere ripetitivo, dovrà diventare stravagante. Non è forse necessario enumerare tutte le ragioni per cui l’autore dei Racconti scozzesi , come erano generalmente chiamati, desiderasse cimentarsi su un soggetto prettamente inglese. Era suo proposito, allo stesso tempo, rendere tale esperimento il più completo possibile presentandolo al pubblico come il tentativo di un nuovo candidato aspirante al suo favore, affinché nessun pregiudizio, che fosse favorevole o contrario, potesse influire su di esso, in quanto nuova opera dell’autore di Waverley ; tale intento, però, fu abbandonato per ragioni che verranno trattate in seguito. Il periodo scelto per la narrazione è quello del regno di Riccardo I, chiamato Cuor di Leone, non solo perché abbondante di personaggi i cui stessi nomi creano un’attrattiva generale, ma anche perché permette un deciso contrasto tra i sassoni, coltivatori, e i normanni, che ancora dominavano come conquistatori, riluttanti a mescolarsi con gli sconfitti e a riconoscersi come un unico popolo. L’idea di questo contrasto è stata ispirata dalla geniale e sfortunata tragedia Runnamede di Logan, in cui, più o meno nello stesso periodo storico, l’autore vide i baroni sassoni e normanni opporsi ai lati della scena. Logan non ricorda che ci furono già stati alcuni tentativi di mettere a confronto i costumi e i sentimenti dei due popoli; infatti, la storia presentava i sassoni dell’epoca come una stirpe di nobili illuminati e fieri. Essi erano sopravvissuti come popolo e alcune delle antiche famiglie sassoni possedevano ancora ricchezze e potere, sebbene fossero delle eccezioni rispetto alle generali umili condizioni del loro popolo. L’autore riteneva che il contrasto dei due popoli potesse interessare il lettore. Quello dei vinti, che si distinguevano per i loro modi semplici e schietti, nonché per il loro spirito libero instillato dalle loro antiche istituzioni e leggi; e quello dei vincitori, mossi dalle loro ambizioni di glorie militari, avventure personali, e comunque qualsiasi cosa che li potesse distinguere come “il fiore della cavalleria”. Comunque sia, la Scozia è diventata il palcoscenico più utilizzato per il cosiddetto romanzo storico, tanto che si è resa necessaria la lettera preliminare del signor Lawrence Templeton. Ad essa, quasi come fosse un’introduzione vera e propria, è rimandato il lettore, come espressione dell’intento dell’autore nell’intraprendere questo genere letterario, tenendo sempre presente che egli è ben lontano dal credere di aver raggiunto lo scopo che si proponeva. È quasi inutile aggiungere che non c’era intenzione o desiderio di far passare il Sig. Templeton come una persona reale. Tuttavia, di recente è stata tentata da uno sconosciuto una specie di prosecuzione dei miei Racconti del mio locandiere e si è pensato che la Lettera di Dedica potesse passare come un’imitazione dello stesso genere, depistando i curiosi e inducendoli a credere di trovarsi davanti all’opera di qualche nuovo autore. Dopo che una grande parte del lavoro era stata fatta e stampata, gli editori, che sostenevano d’intravedere un germe di popolarità, si dimostrarono strenuamente contrari che apparisse come una produzione anonima, sostenendo di voler sfruttare il nome dell’autore di Waverley . Egli, d’altro canto, non oppose particolare resistenza, in quanto cominciava ad essere della stessa opinione del Dottor Wheeler nell’ottimo racconto di Miss Edheworth, Manoeuvring , secondo cui un “trucco dopo l’altro” poteva essere troppo per la pazienza di un pubblico indulgente e considerato un modo di catturare in modo superficiale la sua benevolenza. Il libro, ad ogni modo, apparve come una dichiarata continuazione dei Romanzi di Weaverly ; e sarebbe ingiusto non riconoscere che incontrò la stessa favorevole accoglienza dei suoi predecessori. Queste annotazioni, per quanto possano essere utili al lettore nel comprendere i personaggi dell’Ebreo, del Templare, del Capitano dei mercenari o dei Liberi Compagni, così come furono chiamati, sono aggiunte con parsimonia in quanto abbastanza informazioni possono essere trovate nei libri di storia. Un episodio che ha avuto la fortuna di trovare il favore di molti lettori, è stato preso in prestito dagli scaffali dei vecchi libri d’avventura. Mi riferisco all’incontro tra il Re e frate Tuck nella cella dell’allegro eremita. Il tono generale della storia appartiene a tutti i ceti e a tutti i paesi che si emulano uno con l’altro nel descrivere i vagabondaggi di un sovrano travestito che, andando alla ricerca d’informazioni o divertimento tra i ceti più bassi della società, s’imbatte in peripezie divertenti per il lettore o per l’ascoltatore grazie al contrasto tra l’aspetto esteriore del sovrano e di ciò che egli è realmente. Il Narratore Orientale [3] utilizza come tema le spedizioni sotto mentite spoglie di Haroun Alraschid coi suoi fedeli servitori Mesrour e Giafar attraverso le vie notturne di Bagdad, mentre la tradizione scozzese utilizza simili avventure di Giacomo V, indicato durante tali escursioni col nome di Goodman di Ballengeigh quando desiderava essere in incognito, così come il comandante dei fedeli si faceva conoscere con il nome Il Bondocani. I menestrelli francesi non hanno ignorato un tema tanto popolare. Infatti, il romanzo scozzese in versi di Rauf Colziar deve esser stato ispirato a un’opera originale normanna, in cui Carlo Magno è presentato come l’ospite sconosciuto di un carbonaio [4] . Sembra che altri poemi del genere ne siano stati derivati. Nell’allegra Inghilterra esistono numerosi poemi su questo tema. Il poema di John the Reeve, o Steward, menzionato dal vescovo Percy nelle Reliques of English Poetry [5] , si dice che abbia trattato un episodio analogo; ad esso si aggiungono Il re e il conciapelli di Tamworth , Il re e il mugnaio di Mansfield e altri. Tuttavia il particolare racconto a cui l’autore di Ivanohe deve la sua riconoscenza è più antico di quelli menzionati di ben due secoli. Quest’opera fu fatta conoscere al pubblico attraverso quel curioso archivio di letteratura antica, raccolto grazie agli sforzi congiunti di Sir Egerton Brydges e del sig. Hazlewood, che è il periodico intitolato The British Bibliographer . Da lì è stato ripreso dal reverendo Charles Henry Hartsborne che ha curato un interessante volume intitolato Antichi racconti in versi, stampati principalmente dalle fonti originali , 1829. In esso non è dato altro riferimento di questo frammento oltre all’articolo del Bibliographer, intitolato Il re e l'eremita. Un breve sunto del suo contenuto mostrerà le sue analogie con l’incontro tra Re Riccardo e Frate Tuck. Re Edoardo (non è chiaro quale tra i sovrani con questo nome, ma dalla descrizione del suo carattere e delle sue abitudini possiamo supporre si tratti di Edoardo IV) parte con la sua corte per una battuta di caccia nella foresta di Sherwood dove, come non è insolito accada per i re nei romanzi, s’imbatte in un cervo di eccezionale stazza e agilità, e decide di seguirlo lasciando indietro tutto il proprio seguito, fino a quando, stremati i cani e il cavallo, si ritrova da solo nel buio della foresta con la notte che sta scendendo. A quel punto, preoccupato per la situazione, il re ricorda che il popolo, quando teme di dover passare una notte all’addiaccio, prega San Giuliano che nel calendario cattolico è il protettore dei viandanti sperduti. Edoardo gli rivolge allora le proprie preghiere e, sotto la guida del Santo, comincia a seguire un piccolo sentiero che lo conduce fino a una cappella nella foresta che accanto ha la cella di un eremita. All’interno il Re sente che l’uomo sta recitando delle preghiere e umilmente gli chiede ospitalità per la notte. «Io non ho modo di ospitare un signore come voi», disse l'eremita, «Vivo di radici e di scorze, qui in solitudine, e non posso ricevere nella mia abitazione neanche l’uomo più povero e sventurato della terra, a meno che non si tratti di salvargli la vita». Il re allora gli chiede quale sia la strada per il paese più vicino ma, comprendendo che l’avrebbe trovata con difficoltà persino con la luce del sole, annuncia al frate che, con o senza il suo consenso, avrebbe passato la notte lì con lui. Viene quindi fatto entrare, non senza qualche protesta da parte dell’eremita che gli ricorda che se non fosse per i propri abiti monacali si curerebbe molto poco delle sue minacce e che lo accetta non per paura ma per evitare uno scandalo. All’interno, il sovrano trova gettati a terra due sacchi di paglia come giaciglio, ma si consola pensando che almeno ora ha un tetto sopra la testa e che: «Una notte passa presto». Tuttavia, sorgono altri bisogni e l’ospite comincia a pretendere la cena: «Come ti dissi, puoi esserne certo, anche se il giorno è stato triste, sempre è seguita una lieta notte». Ma questo accenno alle sue preferenze per la buona tavola, unita all’annuncio di essere al seguito della Corte e di essersi smarrito durante la grande partita di caccia, non convincono l’avaro eremita a offrire miglior cibo che pane e formaggio, per i quali l’ospite mostra poco appetito, e una “bevanda leggera” che risulta ancor meno gradita. Alla fine il re incalza il padrone di casa su un punto su cui aveva insistito più volte, senza ricevere però una risposta soddisfacente: «Disse allora il re: “Grazie a Dio abitate in luoghi propizi per la caccia, se ne foste capace, e, quando il guardacaccia va a riposare, potreste avere i cervi migliori: non sarebbe un grave danno se aveste arco e frecce, anche se siete un frate”». L’eremita, in risposta, manifesta la propria apprensione che il suo ospite voglia farlo confessare reati contro la legge forestale, cosa che potrebbe costargli la vita. Edoardo gli risponde assicurandogli di mantenere il segreto e insiste sulla necessità di avere un po’ di cacciagione. L’eremita però gli risponde ricordandogli i propri doveri di uomo di chiesa e continua affermandosi innocente: «Da molto tempo sono qui e mai ho mangiato carne, ma solo latte di mucca; ora scaldatevi e andate a letto, vi coprirò con la mia tonaca perché possiate dormire bene». A questo punto sembrerebbe che il manoscritto sia lacunoso, perché non si capiscono le ragioni che inducono il frate ad accontentare alla fine il re. Riconoscendo però che l’ospite è un «brav’uomo». Sono portate in tavola due candele che illuminano del pane bianco e pasticci al forno, insieme con cacciagione sia sotto sale che fresca di cui i due si servono generosamente. «Avrei dovuto mangiare pane secco - disse il re - se non avessi insistito a parlare di caccia, ma ora che ho mangiato come un re, se avessi anche da bere…». Alla fine, anche questo viene offerto dall’ospitale eremita, che manda un assistente a prendere una brocca di quattro galloni in un angolo segreto vicino al suo letto, e tutti e tre si mettono a bere seriamente. La baldoria è diretta dal frate che, prima di bere, impone a ogni commensale di ripetere certe parole bizzarre, in una sorta di gioco che regola ogni bevuta, dato che i brindisi entrarono in uso solo più tardi. Un bevitore deve dire fusty bandias a cui il successivo bevitore deve rispondere strike pantnere , mentre il frate scherza sui vuoti di memoria del sovrano che dimentica con facilità le parole da ripetere. Trascorrono così la notte con questo allegro passatempo e il mattino dopo, prima di ripartire, il re invita a corte l’anfitrione promettendo di contraccambiare l’ospitalità di cui si dichiara soddisfatto. L’allegro eremita accetta di avventurarsi a corte, dove avrebbe dovuto chiedere di Jack Fletcher , il nome assunto dal re. Dopo che l’eremita esibisce la propria bravura davanti a Edoardo in alcune prove di tiro con l'arco, l’allegra coppia si separa. Il re cavalca verso casa e raggiunge il suo seguito. Il racconto, essendo lacunoso, non spiega bene come avvenga la scoperta, ma probabilmente avviene nello stesso modo di altri romanzi sullo stesso tema, dove il padrone di casa, temendo di essere mandato a morte per aver mancato di rispetto al suo sovrano, mentre questi si trova in incognito, ha poi la sorpresa di ricevere onori e ricompense. Nella biblioteca del sig. Hartshorne si trova un romanzo dello stesso genere, intitolato Re Edoardo e il pastore [6] che, come descrizione delle usanze, è ancora più interessante del Re e l’eremita, ma non è pertinente a questo argomento. Il lettore può trovare qui la leggenda da cui è stato tratto l’episodio del romanzo e identificare frate Tuck della storia di Robin Hood con l’eremita è un logica conseguenza. Il nome di Ivanhoe è stato suggerito da una vecchia filastrocca. Tutti i romanzieri hanno desiderato una volta nella vita, al pari di Falstaff, di avere a disposizione una scorta di bei nomi. In uno di questi momenti, l’autore si è ricordato di una poesiola che riportava tre nomi di manieri perduti dall’antenato del celebre Hampden, colpevole di aver colpito il Principe Nero con la racchetta durante una partita a tennis: «Tring, Wing e Ivanhoe, tutti li perse Hampden per quella volta che colpì, e fu contento di cavarsela così». Il nome Ivanhoe si adattava alle intenzioni dell’autore per due concreti motivi: per prima cosa aveva un suono inglese antico e secondariamente non dava alcuna anticipazione sull’argomento della storia. Quest’ultimo motivo è stato considerato di non poca importanza. Quello che è definito un titolo allettante serve direttamente all’interesse del libraio o dell’editore, i quali possono in questo modo vendere un’edizione mentre si trova ancora in stampa. Tuttavia, se l’editore permette che la sua opera attiri troppa attenzione prima che appaia nelle librerie, pone se stesso nell’imbarazzante situazione di aver alimentato un’eccessiva aspettativa che, se poi non sarà in grado di soddisfare, potrà rivelarsi un grosso danno per la sua reputazione letteraria. Oltre a ciò, quando ci si trova davanti a titoli come La Congiura delle Polveri, o qualsiasi altro titolo correlato con argomenti storici, ciascun lettore, prima ancora di vedere il libro, si sarà già fatto un’idea del modo in cui si svolgerà la storia, e della natura della soddisfazione che potrà averne. E, nel caso probabile, che ne verrà deluso, incolperà l’autore o l’opera stessa e così che l’avventuriero letterario sarà criticato non solo per aver mancato il bersaglio a cui mirava, ma addirittura di non aver tirato la sua freccia nella direzione giusta. A seguito di un simile rapporto tra l’autore e il lettore, egli potrà aggiungere il piccolo particolare che un elenco di guerrieri normanni, citato nel manoscritto di Auchinleck, gli diede il suggerimento per il formidabile nome Front-de-Boeuf. Quando comparve, Ivanhoe ottenne un grande successo e si può dire che ha procurato al suo autore una certa libertà dalle regole editoriali, poiché da quel momento ha potuto esercitare le sue capacità di romanziere tanto in Inghilterra quanto in Scozia. Il personaggio della bella ebrea trovò tanto successo agli occhi di alcune lettrici che lo scrittore ne è stato criticato perché, nel distribuire le sorti ai protagonisti, non ha concesso la mano di Wilfred a Rebecca piuttosto che alla meno interessante Rowena. Tuttavia, oltre al fatto che i pregiudizi dell’epoca rendevano una tale unione quasi impossibile, l’autore può osservare, tra l’altro, che a suo parere un personaggio di virtuosi sentimenti viene degradato, anziché esaltato, dal tentativo di ricompensare la sua virtù con vantaggi materiali. Tale non è la ricompensa che la Provvidenza giudica degna dei meriti di chi soffre, ed è pericoloso e deleterio insegnare ai giovani, i più comuni lettori di romanzi, che la rettitudine della condotta e di principi è la naturale alleata della gratificazione delle nostre passioni e desideri, oppure ne è ricompensata in modo adeguato. In poche parole, se un personaggio virtuoso viene alla fine ricompensato con ricchezze materiali, onore e rango o con l’appagamento di sentimenti impulsivi come quelli di Rebecca nei confronti di Ivanohe, il lettore ne concluderà che la virtù ha avuto alla fine la propria ricompensa. Tuttavia, un’occhiata al grande quadro della vita, mostrerà che gli obblighi dell’abnegazione e il sacrificio della passione sono raramente così ricompensati. E che l’intima coscienza del dovere compiuto produce una più adeguata ricompensa sotto forma di pace, di quella pace che il mondo non può dare né portare via. Abbotsford, 1 settembre 1830.
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