«Grazie» disse, tra un boccone e l’altro, «digiuniamo da due giorni».
Anche le sue sorelle si avventarono sul cibo con la stessa bramosia. Mi si strinse il cuore al pensiero della fame che dovevano aver sofferto e anche al pensiero della compostezza con cui avevano guardato in silenzio il cibo che agognavano.
Mangiarono tutta la frutta sui vassoi, in modo sempre più civile man mano che i morsi della fame si attenuavano. Quando ebbero finito mio padre fece segno a Varte di portarne dell’altra.
«È stata una dura prigionia, non è vero?» chiese, con espressione dispiaciuta.
«Tuttavia è stata breve» disse Zenith.
«Me ne puoi parlare?».
Non sapevo perché volesse farsi raccontare da lui cose che sapeva già, ma immaginai che fosse per capire il loro punto di vista.
Zenith sembrò pensieroso. «Siamo stati catturati nei nostri nidi. Chi ha combattuto è stato ucciso, ma sia io che le mie sorelle siamo cantori del vento, non guerrieri. Siamo stati portati nella spianata con tutti gli altri prigionieri e siamo rimasti al sole, senza acqua, per molte ore. Alla sera ci hanno messi in una grande tenda e ci hanno dato da bere da un secchio. Quasi tutti siamo stati obbligati a intrattenere i vostri soldati, specie le nostre femmine. Non fa parte delle nostre usanze» spiegò con un certo sussiego.
Io ero praticamente agghiacciata, ma non ero sicura che gli Scuri avessero capito di essere stati violentati – e forse era meglio così.
«Il mattino seguente hanno portato via quelli che nel frattempo erano morti. Ci è stata data dell’altra acqua e siamo rimasti stipati nella tenda, senza aria. Ancora ci è stato ordinato di intrattenere i vostri soldati. Siamo un popolo molto paziente, ma eravamo stanchi e affamati. Le nostre lamentele hanno provocato un... come si dice? Pestaggio. Solo alla sera ci è stato consentito di lavarci un po’, poi ci hanno incatenato e portato dove ci hai riscattati».
Mi chiesi che cosa ne sarebbe stato del loro intero popolo. Gli Scuri sfuggiti ai miei connazionali dovevano essere pochissimi. Quelli uccisi erano stati centinaia. Quelli catturati erano meno di mille, ed erano stati divisi in gruppi. Alcuni di loro sarebbero stati venduti come schiavi da compagnia, gli altri sarebbero stati usati per i lavori pesanti.
Alcuni Scuri erano stati presi quasi subito da qualche generale o dalla sua famiglia, ne avevo sentito parlare quel mattino. Sembrava che le mie connazionali, specie se ricche e annoiate, li considerassero interessante materiale da copula. Alle donne sarebbe andata peggio – alle donne va sempre peggio, in queste circostanze.
Inspirai lentamente e poi espirai. Piano, come mi era stato insegnato per calmarmi. Mi sentivo impotente. Mi vergognavo per la mia stessa gente. Ad Assiat la schiavitù era vietata... teoricamente. Ma i prigionieri di guerra – e il nostro era un popolo bellicoso – che cos’erano, in pratica? Schiavi.
A nessuno sembrava importare. Tutti lo davano per scontato.
E per di più gli Scuri non erano umani. Ma poi... anche i prigionieri umani venivano trattati come loro. Che razza di giustizia poteva permetterlo?
Disgustata, mi scusai, mi alzai e me ne andai.
+++
Un giorno dovrei essere uno stratega, come mio padre. La nostra è una famiglia nobile e quando ho compiuto sedici anni ho potuto scegliere tra un destino da civile e un futuro nel genio militare. Mio padre mi stava ancora istruendo, ma tra non molto tempo avrei preso servizio anch’io, diventando... che cosa? Uno degli oppressori per qualche popolazione innocente.
Il giorno dopo mi svegliai presto e, finché era ancora abbastanza fresco, andai a respirare il vento del canyon.
Forse avrei dovuto scegliere una vita da civile, anche se non aveva nessuna attrattiva, per me. Le donne della mia classe sociale non lavorano, se non per servire il proprio paese. Neppure gli uomini, è ovvio. Mi sarei dovuta trovare il rampollo di un’altra famiglia della piccola nobiltà e mettere su famiglia con lui. Entrambi nullafacenti annoiati come ne conoscevo molti.
Guardai le pareti rosse della vallata, su cui le abitazioni di legno, di giorno, quasi si mimetizzavano, e mi chiesi come doveva essere, per i lontani antenati degli Scuri, planare verso il fiume sfruttando le correnti.
«Dice la leggenda che un giorno voleremo ancora».
Mi voltai. Zenith era uscito dalla casa, con addosso i suoi pantaloni color ocra e i capelli intrecciati in un modo diverso, rispetto alla sera precedente.
Mi rivolse un sorriso appena accennato. «Tutti quando guardano giù pensano a come dev’essere» spiegò.
«Quindi un giorno volerete di nuovo?» chiesi, un po’ scettica.
«Ah, sono favole per pulcini. No, non voleremo più. Abbiamo scelto moltissimo tempo fa di restare a terra. Le nostre ossa si sono fatte pesanti, le nostre piume sono cadute. Quasi tutte». Mi mostrò il braccio con quello che avrebbe potuto essere un guizzo di divertimento nello sguardo, facendomi vedere la fila di piccole penne nere che gli ornava il profilo delle spalle e scendeva fino al gomito. Erano minuscole penne, lunghe forse uno o due centimetri, e se non ci facevi caso ti sembravano peli. Anche se, ripensandoci, non pareva che gli Scuri avessero dei peli, se non sulla testa (i capelli e le sopracciglia). Osservai il mento di Zenith e mi resi conto che era anche privo di barba.
«Penserai che io sia sciocco, ma non ho capito perché siete venuti qua» aggiunse.
Indicai i resti delle Reti del Tempo. «L’Ambra Sacra».
«Ve la vendevamo» replicò Zenith, perplesso. «A un prezzo equo».
«Ti sembra che la mia gente se ne faccia qualcosa, di un prezzo equo? Quando possono semplicemente prendersi quello che vogliono?».
Zenith puntò il naso verso l’alto. Assomigliava un po’ al becco di un uccello, pensai. «Ma avete rotto le reti. Avete preso le nostre scorte, è vero, solo che per un bel pezzo non ne avrete altra».
«Ti sembra che alla mia gente importi essere intelligente, quando può menare le mani?».
Lui inclinò la testa da un lato. «Che cosa vuol dire?».
Sospirai. «Fare la guerra».
«Ah. Quindi mi stai dicendo che vi piace la guerra».
«A quanto pare...»
Lui allargò le braccia nel vento tiepido del primo mattino, inspirando a pieni polmoni. «A te piace la guerra, Sybil Malachian?».
Scossi la testa.
Zenith mi rivolse un lento sorriso. «Siete diversi, tu e tuo padre. Vuoi vedere come si canta il vento?».
Non avevo idea di che cosa significasse, ma annuii.
Zenith inspirò e poi espirò lentamente, emettendo un suono basso e melodioso che assomigliava un po’ a quello di un oboe. Tenne la nota per una ventina di secondi, per poi cambiarla, scegliendone una più bassa, e poi ancora più bassa. Il suono continuava e continuava, senza interruzioni, e cercai di capire come facesse a respirare. Avevo sentito parlare di una tecnica, detta del fiato continuo, che consentiva di non interrompersi mai e giunsi alla conclusione che Zenith stesse usando qualcosa di simile. Le note che cantava – a bocca chiusa – si fecero sempre più basse e vibranti. Mi resi conto che mi era venuta la pelle d’oca. Era un suono stranamente emozionante.
Zenith continuò a cantare, immobile, con le braccia aperte come ad abbracciare il vento, i capelli bianchi che si agitavano sulle sue spalle e il torace che si alzava e abbassava lentamente.
Dopo un tempo che non saprei quantificare il canto di Zenith sfumò, fino a spegnersi. Lui si schiarì la voce e scosse le spalle come a sgranchirsi.
«Ah, le mie corde vocali sono tutte annodate» mormorò, in tono autoindulgente. Guardò verso l’alto, il bordo superiore del canyon. «Se le reti fossero ancora al loro posto ora avrei un piccolo frammento di Ambra Sacra. Ma sono rotte, ho cantato solo per far sapere al vento che non l’ho abbandonato».
«Non... non capisco» ammisi. Ero ancora scossa per il suo canto, così bello e toccante, pur senza parole e senza una vera melodia.
Le iridi blu di Zenith tornarono a spostarsi su di me. Il suo viso color ossidiana opaca era immobile e pensieroso.
«Il vento. Lasciamo che ci attraversi e lo cantiamo. Lo trasformiamo, no? Lo scolpiamo. Le vibrazioni si propagano sulle pareti della valle e salgono alle reti. Piccoli cristalli di ambra si... come si dice? Aggregano. Si coagulano. E lentamente si forma una nuova pepita».
Mi avvicinai, eccitata dalla scoperta. Non sapevo come si formasse l’Ambra Sacra. Non lo sapeva nessuno di noi. Pensavamo che gli Scuri la estraessero dalla montagna.
«Il vento... in che modo il vento ti attraversa?» chiesi.
Zenith inclinò la testa da un lato, impassibile come un grosso corvo. «Mmh... qua, nella pancia».
Mi prese le mani e le posò sul suo stomaco, subito sopra il punto in cui avrebbe dovuto avere l’ombelico (ma non lo aveva, me ne accorsi solo in quel momento). La sua pelle era calda per via del sole, ma non era sudata. Inspirò ed emise di nuovo una nota bassa, musicale, vibrante. Sentii la vibrazione sotto alle dita, come il veloce battito d’ali di un uccello. «Il... diaframma?» chiesi.
Zenith lasciò sfumare la nota. Allontanai le mani un po’ a malincuore, perché...
Cercai di non arrossire, mentre mi rendevo conto di quanto avessi trovato gradevole il contatto con la sua pelle, il calore del suo corpo, quella sua vibrazione interna e la consistenza della muscolatura del suo torace.
«Dia-fram-ma» ripeté lui, completamente all’oscuro della mia confusione. «Una sorta di membrana, proprio qua in mezzo. Si chiama diaframma nella vostra lingua, quindi».
Annuii, cercando di ricompormi nonostante Zenith non si fosse accorto di nulla. «Sì, è... mh, l’ho sentito vibrare, penso. È una tecnica trascendentale, vero? Una magia, se vogliamo».
«Se vogliamo, sì».
All’improvviso capii una cosa. Era ovvio, ma fino a quel momento non ci avevo pensato. Era un’idea semplice ma audace. Forse... forse poteva funzionare, riflettei, mentre sviluppavo quell’illuminazione in un embrione di pensiero.
«Zenith non devi dire niente di... questo. Del canto, dell’Ambra Sacra... puoi tenere il segreto?» gli chiesi, con urgenza, stringendogli un polso senza neanche accorgermene.
Lui socchiuse gli occhi. «Perché? Per te?».
Scossi la testa. «No, no... non per me. Per voi. È una cosa... non sono sicura, capisci? Non sono sicura, ma forse posso farla diventare una buona cosa per voi. Per ridarvi la libertà. Ma se venissero a saperlo alcuni dei miei connazionali diventarebbe un motivo ulteriore per imprigionarvi. Scusa, è ancora tutto confuso e tu non mi conosci nemmeno...»
«Ma certo che ti conosco» ribatté lui, tranquillo. «Volevo sapere se era semplicemente un favore che chiedevi per te. Perché siamo amici. Ora dovrai spiegarmi questa cosa, però».
Spostò lo sguardo alle mie spalle. «Dopo» aggiunse. «Le uova di Serna».
Mi voltai a mia volta: Varte stava rientrando, con il capo coperto da un cappello a tese larghe, fissato sotto al mento da una fettuccia, e un grosso paniere di vimini sottobraccio.