Capitolo V

1803 Words
Capitolo V La mattina dopo, Bazàrov si svegliò prima degli altri e uscì di casa. “Eh, - pensò, guardandosi intorno - non si può dire che sia un bel posticino...” Quando Nikolàj Petròvič aveva diviso la terra con i suoi contadini, aveva dovuto assegnare alla nuova casa padronale quattro ettari di terra nuda e piatta. Aveva costruito la casa, i depositi e la masseria, tracciato i confini del giardino, scavato uno stagno e due pozzi, ma gli alberi giovani attecchivano male, l'acqua raccolta nello stagno era poca e quella dei pozzi aveva un sapore salmastro. Solo il pergolato di serenelle e acacie, dove qualche volta venivano serviti il tè o il pranzo, era cresciuto abbastanza bene. Bazàrov percorse in pochi minuti tutti i vialetti del giardino, entrò nel cortile e nella scuderia, chiacchierò con due ragazzetti che facevano parte della servitù e andò con loro a caccia di ranocchi in uno stagno distante una versta da casa. “ Mi dici che cosa te ne fai dei ranocchi, signore?” chiese uno dei due ragazzi. “ Sì.” rispose Bazàrov, che aveva il dono di conquistare la fiducia delle persone semplici sebbene non le trattasse con benevolenza ma con indifferenza. “Le squarto e guardo che cosa hanno dentro e così, poiché anch’io e te siamo dei ranocchi, con l'unica differenza che camminiamo su due gambe, vengo anche a sapere che cosa c'è dentro di noi.” “ Perché lo vuoi sapere?” “ Per non sbagliarmi se ti ammalerai e dovrò curarti.” “ Allora sei un dottore?” “ Sì.” “ Vàs'ka, hai sentito? Il signore dice che io e te siamo uguali ai ranocchi. Bello, eh?” “ Io ho paura dei ranocchi.” rispose Vàs'ka, che era scalzo, aveva sette anni, la testa bianca come il lino e una casacchina grigia col colletto rigido. “ Perché? Mordono?” “ Su, entrate in acqua, filosofi!” esclamò Bazàrov. Intanto anche Nikolàj Petròvič si era alzato ed era andato da Arkàdij. L'aveva trovato già pronto e, insieme, erano usciti sulla terrazza; all'ombra della tenda, vicino alla balaustra, sul tavolo, tra grandi mazzi di serenelle, bolliva il samovar. Subito comparve la bambina che il giorno prima era scesa incontro ai nuovi arrivati. “ Fedòs'ja Nikolàevna. – disse la bimba, con una voce sottile - non si sente bene e non può venire, mi ha ordinato di chiedervi se desiderate versarvi il tè da soli o se deve mandarvi Dunjàša.” “ Lo verserò io. - rispose in fretta Nikolàj Petròvič - Tu, Arkàdij, come lo prendi il tè, con la panna o col limone?” “ Con la panna.” rispose Arkàdij e, dopo un attimo di silenzio, aggiunse in tono interrogativo: “Papà...?” Nikolàj Petròvič lo guardò, incerto. “Dimmi.” Arkàdij abbassò gli occhi. “ Forse ti sembrerò indiscreto, ma la sincerità con la quale mi hai parlato ieri m’incoraggia a essere altrettanto sincero. Non te ne avrai a male?” “ Ti ascolto.” “ Ecco, tu mi dai il coraggio di chiederti se... se Fen... se lei non viene a versare il tè perché ci sono io.” Nikolàj Petròvič voltò appena appena la testa. “ Forse sì. - disse infine. - Penso che... sì, che lei si vergogni.” Arkàdij rivolse a suo padre un rapido sguardo. “ Non deve vergognarsi. Prima di tutto tu sai come la penso io. - Arkàdij provò un gran piacere nel pronunciare queste parole - E inoltre non vorrei mai che, a causa mia, cambiassero la tua vita e le tue abitudini. Sono sicuro che non puoi aver fatto una scelta sbagliata; se le hai permesso di vivere con te, sotto lo stesso tetto, è perché lo merita. In ogni caso un figlio non può giudicare il padre e tanto meno io potrei giudicare un padre che non ha mai ostacolato la mia libertà.” Arkàdij aveva cominciato a parlare con voce tremante, si sentiva generoso e, nello stesso tempo, capiva che stava impartendo una lezione di morale a suo padre, ma poiché ci si rincuora sempre nell'ascoltare se stessi, riuscì a trovare alla fine un accento fermo e quasi enfatico. “ Grazie, Arkàša.” rispose Nikolàj Petròvič con voce atona e si passò di nuovo la mano sulle sopracciglia e sulla fronte. “Le tue supposizioni sono giuste. Certo, se questa ragazza non avesse meritato... Non si tratta di un capriccio. Mi è difficile parlarne con te, ma puoi capire che non sarebbe stato semplice per lei venire qui, ora che ci sei tu, soprattutto il giorno del tuo arrivo.” “ Allora andrò io da lei! - esclamò Arkàdij e, tutto pervaso da sentimenti generosi, si alzò di scatto. - Le spiegherò che non ha nessun motivo di vergognarsi di me.” Anche Nikolàj Petròvič si alzò in piedi. “ Arkàdij, - disse - ti prego... Non puoi... La... Non ti ho ancora avvertito che...” Ma Arkàdij non lo ascoltava più e si allontanò di corsa. Nikolàj Petròvič lo seguì con lo sguardo, poi si lasciò cadere su una sedia, in preda all'angoscia. Il cuore gli batteva forte... Sarebbe impossibile dire se in quel momento pensasse all’inevitabile particolarità dei suoi futuri rapporti con il figlio o se ritenesse che sarebbe stato più rispettoso, da parte di Arkàdij, non interessarsi affatto a quell'argomento o se, infine, non si rimproverasse la propria debolezza. Tutti questi sentimenti si agitavano in lui come impressioni confuse, ma il rossore non spariva dal suo viso e il cuore seguitava a battergli forte. Si udirono dei passi affrettati e Arkàdij tornò sulla terrazza. “ Abbiamo fatto conoscenza, padre!” esclamò e aveva in viso una dolce e affettuosa espressione di trionfo. “Fedòs'ja Nikolàevna si sente davvero poco bene oggi e verrà solo più tardi. Ma perché non mi hai detto che ho un fratello? Sarei andato a baciarlo ieri sera, come ho fatto ora.” Nikolàj Petròvič avrebbe voluto rispondergli, alzarsi, stringerlo a sé... Arkàdij gli buttò le braccia al collo. Si udì alle loro spalle la voce di Pàvel Petròvič. “ Ma che cosa vedo, vi abbracciate di nuovo!” Padre e figlio furono entrambi contenti di vederlo comparire proprio in quel momento: ci sono situazioni commoventi dalle quali si vorrebbe uscire il più presto possibile. “ Ti pare strano? - disse allegramente Nikolàj Petròvič - Erano secoli che aspettavo che Arkàša tornasse. Da ieri non smetto di guardarlo e ancora non mi basta.” “ Non mi pare strano. - osservò Pàvel Petròvič - anzi, vorrei riabbracciarlo anch'io.” Arkàdij si avvicinò allo zio e sentì ancora i suoi baffi profumati sfiorargli le guance. Pàvel Petròvič si sedette a tavola. Indossava un elegante completo da mattina di stile inglese e sulla testa gli spiccava un piccolo fez. Quel fez e la cravatta sottile, annodata con negligenza, erano concessioni alla libertà della vita di campagna, ma il colletto duro della camicia, sia pure non bianca ma colorata, come si usa la mattina, bloccava, con la consueta rigidezza, il suo mento ben rasato. “ Dov'è il tuo nuovo amico?” chiese ad Arkàdij. “ Non è in casa, è abituato ad alzarsi presto la mattina e a uscire. Meglio non badargli molto, non gli piacciono le cerimonie.” “ Già, si vede subito.” Pàvel Petròvič si mise, senza fretta, a spalmare il burro sul pane. “Sarà nostro ospite per molto tempo?” “ Non so. Si è fermato da noi prima di andare da suo padre.” “ Dove abita suo padre?” “ Nel nostro governatorato. Ha una piccola proprietà a circa ottanta verste da qui. Era un medico militare.” “ Ah, ecco perché mi chiedevo dove avevo già sentito questo cognome. Non c'era, Nikolàj, un medico che si chiamava Bazàrov nella divisione di nostro padre?” “ Mi pare di sì.” “ E quel medico è il padre dell'amico di Arkàdij. Pàvel Petròvič storse le labbra e aggiunse: “Ma, il signor Bazàrov che cosa fa, che cos'è?” “ Che cos'è Bazàrov? - Arkàdij sorrise - Vuole che glielo dica, zio?” “ Sì, mi piacerebbe saperlo, mio caro nipote.” “ Bazàrov è un nichilista.” “ Come?” chiese Nikolàj Petròvič, mentre Pàvel Petròvič rimaneva immobile, con in mano il coltello sul quale aveva infilato un pezzetto di burro. “ È un nichilista.” ripeté Arkàdij. “ Nichilista, - rifletté Nikolàj Petròvič - viene dal latino nihil, cioè niente, per quanto ne so io, quindi un nichilista... non crede a niente?” “ O piuttosto non rispetta niente.” disse Pàvel Petròvič e tornò a occuparsi del suo burro. “ Un nichilista si pone di fronte a ogni cosa con un atteggiamento critico.” osservò Arkàdij. “ E non è lo stesso?” chiese Pàvel Petròvič. “ No, non è lo stesso. Il nichilista non s'inchina davanti all'autorità di nessuno e non accetta nessun principio, anche se si tratta di un principio cui tutti obbediscono.” “ E ti sembra che sia un bene?” lo interruppe Pàvel Petròvič. “ Per alcuni sì e per altri no, zio.” “ Ah, è così! Vedo che non si tratta di una questione di nostra competenza. Noi siamo all'antica e crediamo che senza principi, - (Pàvel Petròvič dava a questa parola un suono dolce, alla francese, mentre Arkàdij la pronunciava con durezza, calcando la voce) - senza principi in cui credere non si può muovere un passo, non si può nemmeno respirare... Vous avez changé tout cela, che Dio vi conceda la salute e magari anche il grado di generale e noi ci limiteremo ad ammirarvi, signori... come si dice?” “ Nichilisti.” rispose Arkàdij, scandendo le sillabe. “ Sì, prima c'erano gli hegeliani e adesso ci sono i nichilisti. Vedremo se riuscirete a vivere nel nulla, nel vuoto. Ma adesso, Nikolàj Petròvič, fratello, è ora che io beva il mio cacao. Suona il campanello.” Nikolàj Petròvič suonò il campanello e gridò: “Dunjàša!” Invece di Dunjàša, uscì sulla terrazza Fenečka. Aveva ventitré anni, la carnagione bianca e morbida, gli occhi e i capelli scuri, la bocca fresca, piena, come quella di un bambino, le mani piccole e delicate. Portava un vestitino di cotone, molto in ordine, e sulle spalle rotonde un fazzoletto nuovo, azzurro. Aveva in mano una tazza di cacao, la posò davanti a Pàvel Petròvič e, intimidita, arrossì; il sangue giovanile diffuse un'ondata scarlatta sotto la pelle sottile del suo bel viso. Con gli occhi bassi, restò ferma vicino alla tavola, tenendovi appoggiate le punte delle dita. Sembrava che si vergognasse di trovarsi lì, ma che nello stesso tempo sentisse di averne il diritto. Pàvel Petròvič aggrottò le sopracciglia. Nikolàj Petròvič era imbarazzato. “ Buongiorno, Fenečka.” mormorò, con le labbra strette. “ Buongiorno.” rispose lei, con voce leggera ma ferma, diede un'occhiata in tralice ad Arkàdij, che le sorrideva amichevolmente, e uscì in silenzio. Camminava dondolandosi un po', ma le si addiceva. Per qualche minuto sulla terrazza regnò il silenzio. Pàvel Petròvič beveva il suo cacao, poi, improvvisamente alzò la testa. “ Ecco il signor nichilista.” disse sottovoce. Bazàrov, infatti, si avvicinava, attraverso il giardino, calpestando le aiuole. Aveva il soprabito e i calzoni inzaccherati, una pianta di palude attorcigliata attorno al suo cappello tondo e, in una mano, un sacchetto nel quale si agitava qualcosa di vivo. Si avvicinò alla terrazza e, con un cenno del capo, disse: “ Buongiorno, signori, chiedo scusa se ho fatto tardi per il tè. Vi raggiungo subito, prima devo sistemare queste prigioniere.” “ Che cos'ha lì dentro, sanguisughe?” chiese Pàvel Petròvič. “ No, rane.” “ Le mangia o le alleva?” “ Mi servono per fare degli esperimenti.” rispose Bazàrov con indifferenza, ed entrò in casa. “ Adesso si metterà a sezionarle. - disse Pàvel Petròvič - Non crede nei principi, ma crede nelle rane.” Arkàdij guardò lo zio con commiserazione e Nikolàj Petròvič scrollò le spalle di nascosto. Pàvel Petròvič capì che la sua osservazione era stata inopportuna e si mise a parlare della masseria e del nuovo fattore che, il giorno prima, era venuto a lamentarsi del bracciante Fomà che ″svicolava″ ed era troppo indisciplinato. “È un Esopo, - gli aveva detto, tra l'altro - ha fatto brutte figure dappertutto, si ferma ora qua ora là e improvvisamente, senza ragione, se ne va.”
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