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Per altri sentieri

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Blurb

La nostalgia, il desiderio, l’amore, la bellezza, il tempo... e i viaggi attraverso il tempo: sentimenti, circostanze o frangenti incontrati o percorsi per altri sentieri, immersi in atmosfere surreali, evanescenti quanto apparentemente tangibili, in un intreccio caleidoscopico di magia, sogni, incubi e follia che si mescolano, riflessi tra la realtà e l’incredibile. Questi sono gli elementi che accomunano i racconti di Angela Di Bartolo, dieci racconti di genere e stile diverso, con ispirazione mitologica o storica o vagamente fantascientifica o fantasy. Un allucinante viaggio nel tempo, dal mito di Ulisse all’antica Roma, da una gita a Pompei ai riverberi di una Venezia sommersa, dalla rinascita di un pittore a uno scrittore perduto nel tempo, fino all’ultimo dei Centauri.

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Nostos
Nostos Dormi. Ti guardo e sei bella come quando ti vidi fanciulla nella casa di tuo padre, il volto radioso, il corpo splendente di giovinezza. Dormi e forse sogni di me, Ulisse re d’Itaca per cui consumasti gli occhi nel pianto, Ulisse che hai atteso in silenzio vent’anni. Non resterò a lungo, ahimè. Ti narrerò ciò che è stato, e se per volere di un dio la mia voce giungerà al tuo orecchio, saprai che t’amo più della vita, mia regina, mia sposa, mia Penelope. Non fosti la sola a versare lacrime: Circe piangeva quando me ne andai ma mi lasciò partire, e fu il suo unico atto d’amore, l’unico istante in cui l’amai per davvero. Levammo l’ancora, Borea gonfiò la vela. Respirai la salsedine, e già in cuor mio ti vedevo intenta al telaio circondata dalle tue ancelle, la fronte increspata da un cruccio segreto. Ti vedevo, e mi pareva di sentire l’odore del mirto sulla scogliera, quello dei lauri sulla soglia di casa. I compagni tacevano, e certo simili ai miei erano i loro pensieri. Al calar della notte lasciai il timone a Euriloco, mi coricai sul sartiame e scivolai nel sonno. E ti vidi, di nuovo. Giacevi nuda sul letto, il nostro letto scavato nel tronco d’ulivo, le membra scomposte, avvinghiata a qualcuno. Vidi il rivolo di sudore sulla tua fronte e le tue guance accese, il tuo petto ansimante, la tua bocca premuta su quella di lui. Ti udii gemere di piacere, e mentre l’ira mi offuscava la mente, scorsi qualcosa in terra tra le vesti del tuo amante: un lungo coltello ricurvo, l’impugnatura d’avorio incisa da simboli strani. Avevo già visto un’arma del genere: prima della guerra, al fianco di Argissos di Tessaglia. «È un kukri» mi aveva detto. «Forgiato dalle genti del Paropamiso, temprato nella neve e nel sangue dei Centauri». In quel pugnale c’erano forza e onore e promessa di vittoria, e già allora lo desiderai. Giurai a me stesso che me ne sarei procurato uno, poi la guerra travolse ogni cosa. Quando rividi il kukri insieme all’uomo che ti possedeva, il desiderio divampò di nuovo, e bramai quella lama per affondarla nelle carni di lui, per straziarlo sotto i tuoi occhi prima di sgozzarvi entrambi. Solo allora avrei trovato pace, e nella reggia vuota, tra gli atri e i focolari spenti, avrei affrontato le Erinni. Cercalo, figlio di Laerte, risuonò nel sogno una voce. Cerca il coltello oltre le Colonne d’Ercole. Mi svegliai di soprassalto. La luna era orlata di rossa foschia, chiazze sanguigne tingevano il mare. Presi il timone e virai a ponente. A Euriloco dissi di aver avuto un sogno, un messaggio degli dèi: c’era oro oltre le Colonne, e tesori di perle e d’argento per ritornare ricchi in patria, per non temere più la miseria, per non aver più bisogno di guerre. Mi credette. Mi credettero tutti, i compagni, mentre cieco di gelosia io continuavo a puntare a occidente, avanti, sempre avanti verso i confini del mondo. Veleggiammo per giorni, spinti dall’Euro senza vedere terra. Poi a sinistra emerse una linea bruna, un’altra comparve a dritta: coste rocciose che s’innalzavano ardite, accostandosi sempre più l’una all’altra finché non restò che un pertugio di fronte a noi. Vidi i compagni impallidire, li redarguii spronandoli e mi si rivoltarono contro. «Torniamo indietro, torniamo a casa! Non sfidiamo gli dèi!» «Gli dèi ci hanno voluto qui! Vorreste tornare dopo vent’anni alle vostre mogli, ai vostri figli, stracciati e laceri come servi, mentre altri han recato da Troia trofei d’armi e schiavi e i tesori di Priamo?» Li persuasi ancora una volta. In silenzio varcai le Colonne, l’oceano infinito ci accolse. Navigammo per settimane verso una meta ignota. L’acqua cominciò a scarseggiare, il cibo negli orci stava finendo, da giorni non riuscivamo a pescare più niente. I compagni ripresero a mormorare. Restai al timone due giorni e due notti senza mangiare e senza dormire, e il terzo giorno, all’orizzonte fra cielo e mare, si accese una stella. Si alzò lentamente finché divenne un’erta montagna, sfavillante contro il cielo chiaro come un faro nella notte. Sei giunto, figlio di Laerte, sussurrò la voce del sogno, e mentre i compagni gridavano e si abbracciavano pensandosi già ricchi e in salvo, puntai esultante alla volta dell’isola. Per tutto il giorno volammo sul mare, e quando il tramonto tinse il cielo di rosso, la montagna rifulse come un rubino. Il mio sguardo si posò sulla cima, bruna contro il sole calante, e un moto d’orrore mi serrò le viscere. Ché dalla sponda dell’isola, in un istante, si era levata una muraglia d’acqua che correva verso di noi rombando, crestata di schiuma: mani di schiuma nera, gelidi artigli che ghermirono il nostro legno trascinandoci nell’abisso. Mi risvegliai sulla spiaggia. Nel grigiore dell’alba, fra i rottami sparsi sul mare, galleggiavano i corpi dei miei compagni. Non versai lacrime, non provai quasi dolore. Non mi chiesi quale dio mi salvò. Non sentivo altro che fame e sete e voglia di vendetta. Sulla sabbia nera si mosse qualcosa: era una tartaruga, e si trascinava verso l’acqua sforzando le grosse pinne. La raggiunsi in un balzo, la bloccai col ginocchio e sfoderai il pugnale, ed essa prese a parlare con voce umana. «Non uccidermi» disse. «Per amore di Zeus, risparmiami, e io ti prometto che quando si compiranno i tuoi giorni, esaudirò il tuo ultimo desiderio.» «Il mio ultimo desiderio è non morire di fame» risposi, e le affondai il coltello nel collo. La mangiai arrostita su un fuoco di sterpi, e mai carne mi sembrò più gustosa. Avevo trovato una sorgente tra gli alberi dell’interno, e quando fui sazio di carne e d’acqua, mi gettai sulla rena e finalmente piansi: sui compagni che avevo ingannato e condannato a una morte senza sepoltura, sui miei sogni spezzati, sull’amore tradito, sulla vendetta inseguita invano. E mentre mi disperavo, vidi una donna sbucare dagli alberi e imboccare un sentiero che saliva sulla montagna. Mi alzai e presi a seguirla. Era alta, magra, vestita di nero, e camminava scalza sui sassi coperti da un velo di neve. I capelli bianchi le scendevano fino alla vita, e appeso sulla schiena, infilato nella cintura, portava un kukri. Affrettai il passo, mi arrestai, avanzai di nuovo. L’idea di assalire una vecchia mi ripugnava, ma eccolo lì a portata di mano, il kukri promesso dalla voce divina, l’arma favolosa, temprata nel sangue dei Centauri, che mi avrebbe reso giustizia. Tornai ad allungare il passo, ma per quanto io andassi veloce la donna era sempre davanti a me, alla stessa distanza da me. In preda a sgomento e collera mi misi a correre sul sentiero innevato, e ancora la vecchia mi precedeva, lenta, irraggiungibile. Mi ritrovai su di un altopiano. La donna era scomparsa, nessun suono si udiva. Il mare sotto di me era bianco, immobile come una lastra di vetro. Ed ecco, dal mare esalò una nebbia che coprì la spiaggia e salì per i fianchi della montagna, e c’erano voci in quella nebbia, e sagome umane. Riconobbi Euriloco e Perimede e gli altri miei compagni, periti lontano dalla terra dei padri; vidi il piccolo Astianatte scagliato giù dalle mura di Troia, il vecchio re Priamo trucidato sui gradini dell’altare, Agamennone massacrato nella sua casa. Vidi mia madre morta di dolore per causa mia, e ancora piansi lacrime amare. Poi la nebbia si dissolse, il mare svanì e c’erano campi al suo posto, e città e montagne e strade sconosciute fin dove arrivava lo sguardo. Insieme, sotto i miei occhi, c’erano tutti i regni della terra: quello di Creta e di Sparta, di Micene e d’Egitto, e imperi senza nome già estinti all’alba del mondo. C’erano terre lontane oltre il grande oceano, re dagli elmi piumati e templi rivestiti d’oro; c’erano città immense, scintillanti foreste di torri, ordigni che solcavano il cielo, sterminati campi di sangue. E lontano, al limite estremo dell’orizzonte, avvolta in una luce d’aurora, c’era Itaca; c’era la sposa fedele al lavoro, gli occhi asciutti di chi non ha più lacrime. Mi sentii trafiggere il cuore e lacerare dal dubbio: era questa la vera Penelope o l’altra, la meretrice che insozzava il mio letto? Oh dèi, datemi un segno! Chiusi gli occhi, e quando li riaprii c’era soltanto il mare; alle mie spalle desolazione e silenzio, e la neve tutt’intorno. Allora urlai, corsi per l’altopiano urlando e implorando Zeus di risparmiare almeno la mia ragione, e mentre come un folle vagavo in mezzo alla neve, vidi che la piana digradava in una cavità circolare. Scorsi un sentiero e una grotta sul fondo, e senza pensare incominciai a scendere. Mi arrestai sulla soglia della caverna. Al chiarore fioco di una lampada c’era la vecchia di prima, intenta a filare. Mille rughe le solcavano il viso, ma da tutta la sua figura emanava un che di potente e di sacro. Timoroso, chiesi il permesso di entrare. «Sarebbe contro le regole» rispose lei senza alzare lo sguardo. «Ma poiché il Fato ti ha condotto fin qui, entra, straniero.» Obbedii. La donna torceva rapida il filo, e in grembo teneva il kukri sguainato. «Chi sei?» domandai con un tremito. Lei non rispose ma si fermò un istante per dipanare la matassa, e in quell’istante vidi un nome inciso sul legno del fuso: il mio nome. Mi sentii gelare le midolla. Atropo... Atropo che fila il destino, Atropo l’inesorabile, pronta a recidere il filo. Il fuso ruotava veloce, il mio tempo era quasi compiuto: finito senza rivederti, mia terra, mia sposa, figlio mio che non ho conosciuto… Così acerbo era il mio dolore, così ardente il desiderio che pensavo, folle, che forse non tutto era ancora perduto. «Figlia della Notte» pregai «tu che conosci i disegni del Fato, dimmi, potrò ritornare, rivedrò mai la mia casa?» «Anche leggere il futuro sarebbe contro le regole. Ma un dio ti protegge, Ulisse, e per riguardo a lui ti darò risposta: ritornerai. Ritornerai a casa.» Così disse la Mòira senza guardarmi, e c’era nella sua voce un misto di pena e disprezzo che mi turbò nel profondo. Sentii che molto mi aveva taciuto, e intanto il fuso ruotava riempiendosi: poco tempo mi restava ancora. Giocai il tutto per tutto. «Dèi dell’Olimpo!» gridai voltandomi, e per la prima volta Atropo si distrasse e si girò a sua volta. Con un balzo le strappai la conocchia e la gettai a terra, e il filo si srotolò dal fuso prima che tutto piombasse nel buio. Mi ritrovai sulla spiaggia nera, sfinito da fame e sete. Di nuovo, distrattamente, guardai i compagni galleggiare sul mare, di nuovo vidi la tartaruga dirigersi verso l’acqua. Di nuovo le saltai sopra e sfoderai il coltello, e ancora una volta l’animale parlò. Fu identica la preghiera. Identica la promessa, identica l’arsura che mi divorava. Serrai convulsamente il pugnale, pregai Zeus padre di non lasciarmi fallire di nuovo. E Zeus mi soccorse. Affondai la lama nella sabbia e crollai esausto, e la voce della tartaruga tornò a risuonare. «Mi compiaccio, Ulisse. Hai superato la prova, meriti la ricompensa.» Ed ecco l’animale non c’era più, e al suo posto c’era una giovane donna. Le sue vesti erano candide, il volto luminoso e io riconobbi Atena, la dea dagli occhi splendenti. Ed ella disse: «Esaudirò il tuo ultimo desiderio, ma devi esprimerlo adesso, ché la Mòira ha già reciso il tuo filo, e solo la magia di quest’isola lega ancora, e ancora per poco, il tuo spirito al corpo. Ombra tu sei, Ulisse figlio di Laerte: perché hai offeso Afrodite, hai tradito l’amore della tua sposa fedele e hai tradito i compagni, accecato com’eri da Poseidone al quale tu avevi accecato il figlio. Ciò che gli dèi hanno fatto, io non posso disfare. Pure, ho il potere di ridarti la vita se lo vorrai: andrai tra popoli sconosciuti, per terre nuove e mari mai solcati da nave d’uomo, acquisterai conoscenza e potere. Ma le coste di Itaca ti saranno precluse, ché il Fato inesorabile vieta che tu le riveda da vivo. Esprimi dunque il tuo desiderio, Ulisse, e quello che chiedi si compirà.» Rimasi in silenzio, meditando quelle parole. Poi dissi: «Triste è il destino dell’uomo: tardi comprende ciò che conta davvero. Ma se ho trovato grazia ai tuoi occhi, o figlia di Zeus, fa’ che io riveda Itaca, e che ombra qual sono, dica addio a mio figlio prima di scendere all’Ade. Fa’ che riveda la sposa e per l’ultima volta me la stringa al petto.» «Rivedrai Itaca, Ulisse, ma nessuno ti vedrà. Vedrai Penelope, le parlerai, ma lei non udrà la tua voce. Vorrai stringerla, e le tue mani d’ombra non sentiranno il calore della sua pelle. Il desiderio di lei sarà tuo compagno negli Inferi.» Così parlò la dea, e una nube luminosa la sottrasse alla vista. Di colpo si fece buio, e un vento furioso mi travolse e mi trascinò con sé. Un profumo di mirto e di sale. Odore di pietre spaccate, di erbe amare e oleandri sul sentiero bianco, abbacinato dal sole meridiano. Itaca… Chiusi gli occhi e respirai la mia terra, il mio cielo, il mio mare scintillante e immenso. Guardai la casa sulla scogliera e caddi in ginocchio, piangendo di gioia e di nostalgia. Le lacrime caddero fitte senza bagnare il suolo. Percorsi il viottolo assordato dalle cicale, tra gli ulivi e le capre immobili sotto le magre ombre. Nessuno mi vide, nessuno mi udì, neppure il fedele Eumeo che stava legando le viti e non si voltò al mio saluto, neppure la vecchia Euriclea, che pure si arrestò un istante corrugando la fronte. Non mi vide Telemaco, dolce figlio che lasciai bambino. Solo il mio Argo annusò la terra intorno ai miei piedi, e agitò la coda e mugolò incerto, prima di tornare zoppicando al suo osso. Varcai non visto la porta di casa, non visto attraversai gli atri ed entrai nella stanza, la nostra stanza, Penelope. Ti ritrovai com’eri: ancora d’ebano sono i tuoi capelli, la tua pelle profuma ancora di rose di Pieria. Dinanzi al tuo casto letto, implorai il tuo perdono. Tu dormi ancora. Dorme la casa, mentre disteso al tuo fianco contemplo le tue forme, respiro il tuo respiro. Amore spira dalle tue labbra. Oh, potessi baciarti! Potessi almeno sfiorare il tuo volto, i tuoi fianchi che nessuno dopo di me ha accarezzato! Amara è invero quest’ora, ma è tempo oramai. Il sole cede alle ombre, e certo un dio prolunga il tuo sonno perché tu non mi veda partire: già troppo hai sofferto, regina. Solo mia sarà oggi la pena, ché queste rupi odorose di ginestra, questa tua pelle che il tempo ha lasciata intatta, io non le rivedrò. Addio, mia sposa. Sii felice, regna in pace sulla nostra terra. E se puoi farlo senza dolore, ricordami. Narra ai nipoti la storia di Ulisse re d’Itaca, lo scaltro Ulisse che ingannò la Mòira e ritornò indietro, e rinunciò alla vita per rivedere una sola volta Penelope, Penelope amata.

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