Era il mese di marzo e le piante erano straordinariamente simili ad alberi di bastimento; e fu quella per il piccolo Jon una meravigliosa primavera, che mise però a dura prova le sue ginocchia, i suoi calzoncini e la pazienza di Da, la quale doveva lavare e riaggiustare i suoi abiti. Ogni mattina, appena terminata la colazione, suo padre e sua madre, le cui finestre davano da quella parte, potevano vederlo uscire dallo studio, attraversare la terrazza e arrampicarsi sulla vecchia quercia, col volto risoluto e i capelli lucenti. Cominciava così la sua giornata, perché non aveva tempo di andare lontano nei campi prima delle lezioni. La vecchia pianta non lo stancava mai: aveva albero maestro, albero di trinchetto e parrocchetto, ed egli poteva sempre discenderne lungo le drizze o corde delle vele. Dopo le lezioni, che finivano alle undici, andava in cucina a procurarsi un pezzetto di formaggio, un biscotto e due prugne secche – provvista sufficiente almeno per un canotto –, e le mangiava in qualche forma fantasiosa; poi, armato fino ai denti con fucile, pistola e spada, cominciava il lavoro serio della giornata, incontrando per la via innumerevoli mercanti di schiavi, pirati, indiani, leopardi e orsi. Era difficile che lo s’incontrasse a quell’ora senza un coltellaccio tra i denti (come d**k Needham) in mezzo alle rapide esplosioni delle capsule di rame. Ed erano molti i giardinieri ch’egli colpiva con piselli secchi, le munizioni con cui caricava il suo piccolo fucile. Viveva una vita tutta fatta di azione violenta.
«Jon è terribile», disse un giorno suo padre a sua madre, sotto la quercia. «Ho paura che voglia fare il marinaio, o qualche altro mestiere disperato. Vedi in lui qualche segno che dimostri una certa capacità ad apprezzare la bellezza?»
«No, per nulla».
«E fortuna che ancora non ha la passione per le ruote e per le macchine. Son cose che non posso sopportare. Vorrei che avesse maggiore interesse per la natura».
«È pieno d’immaginazione, Jolyon».
«Sì, di un’immaginazione sanguinaria. Ti pare che ora voglia bene a qualcuno?»
«No, a nessuno in particolare, ma a tutti. Non ho mai visto una creatura vivente più amabile e più amante di Jon».
«È tuo figlio, Irene».
In quel momento il piccolo Jon, sdraiato su un ramo, in alto, sopra le loro teste, li colpì con due piselli; ma quel frammento di discorso rimase nel suo cervello, pur senza essere perfettamente compreso.
Ormai le foglie erano folte, e si avvicinava il giorno del suo compleanno, il dodici di marzo.
Ma tra il suo ottavo compleanno e quel pomeriggio in cui l’abbiamo trovato all’angolo della scala, nella luminosità del sole di luglio, erano accadute diverse cose rilevanti.
Da, stufa di lavargli le ginocchia, o mossa da quell’istinto misterioso che costringe persino le balie ad abbandonare i loro lattanti, se ne andò il giorno stesso del suo compleanno con fiumi di lacrime, per sposarsi – pensate un po’! – con “un uomo”. Il piccolo Jon, al quale s’era tenuta la cosa nascosta, fu inconsolabile per un intero pomeriggio. Non avrebbero dovuto nascondergli una cosa simile! Due grandi scatole di soldati, alcuni cannoni e il libro The young Buglers, che si trovavano tra i regali per il suo compleanno, operarono nel suo dolore una specie di diversivo e, invece di cercare avventure di persona, mettendo in pericolo la propria vita, cominciò a fare giochi immaginari, in cui metteva in pericolo la vita di innumerevoli soldatini di stagno, pezzetti di marmo, pietre e fagioli. Fece collezione di queste diverse forme di chair à canon, e, usandole a turno, combatté la guerra di Spagna, quella dei sette anni, dei trent’anni, e altre ancora di cui ultimamente aveva letto in una grossa Storia d’Europa che era appartenuta a suo nonno. Le modificava a seconda dei suoi gusti e le combatteva sul pavimento della stanza da gioco, in modo tale che nessuno poteva più entrarvi per timore di disturbare Gustavo Adolfo, re di Svezia, o di camminare sull’esercito austriaco. Amava appassionatamente gli austriaci, perché gli piaceva il suono del loro nome e, trovando poche battaglie in cui fossero vittoriosi, ne inventava altre di sua iniziativa. I suoi generali preferiti erano il principe Eugenio, l’arciduca Carlo e Wallenstein. Per Tilly e per Mack (“macchiette di caffè-concerto”, li aveva sentiti un giorno definire da suo padre) non riusciva a provare delle grandi simpatie, benché fossero austriaci. Era innamorato di Turenne, anche qui per ragioni d’eufonia.
Questa passione, che preoccupava i suoi genitori, perché lo tratteneva in casa quando avrebbe dovuto starsene fuori, durò per tutto maggio e la metà di giugno, finché suo padre non vi pose fine portandogli a casa Tom Sawyer e Huckleberry Finn. Quando ebbe letto questi libri, maturò in lui un nuovo cambiamento, e uscì subito fuori di casa, alla ricerca ansiosa di un fiume. Ma a Robin Hill non c’erano fiumi, ed egli dovette perciò accontentarsi dello stagno, in cui fortunatamente si trovavano ninfee, libellule, zanzare, giunchi e tre piccoli salici. In questo stagno, dopo che suo padre e Garrat ne ebbero esaminato il fondo, assicurandosi che non era in nessun punto più alto di due piedi, poté varare una canoa sconquassata, in cui passava ore e ore, remando e sdraiandosi in fondo per non essere visto da Indiana Joe e da altri nemici. Sulla riva dello stagno, poi, si fabbricò una capanna indiana di circa quattro piedi quadrati, con vecchie scatole di biscotti, applicandovi un tetto di ramicelli. E in questa capanna accendeva dei fuochi, per cuocere gli uccelli che non aveva colpito col suo fucile, cacciando nel bosco ceduo e nei campi, o i pesci che non aveva pescato nello stagno semplicemente perché non ce n’erano. In queste occupazioni trascorse il resto di giugno e tutto il mese di luglio, mentre suo padre e sua madre erano in Irlanda. Condusse una vita solitaria fatta di finzioni in quelle cinque settimane d’estate, col fucile, la capanna indiana, l’acqua e la canoa; e, per quanto il suo cervellino cercasse in tutti i modi di non lasciar penetrare il senso della bellezza, essa s’insinuava in lui a tratti, sulle ali di una libellula, con lo splendore delle ninfee, con l’azzurro che gli sfiorava gli occhi, mentre giaceva supino, in agguato.
La zietta June, che avrebbe dovuto accudirlo, aveva in casa una “persona adulta” con la tosse e un gran pezzo di cemento da cui cercava di modellare una faccia: e non andava quasi mai a cercarlo presso lo stagno. C’era andata una volta però, portando con sé altre due “persone adulte”. Il piccolo Jon, che proprio allora aveva finito di dipingere il suo corpo nudo a strisce lucenti azzurre e gialle, coi colori della scatola di suo padre, adornandosi il capo con delle penne di anatra, li vide venire e si mise in imboscata, dietro i salici. Come ben aveva previsto, essi si diressero subito alla capanna e s’inginocchiarono per guardare dentro; allora lui gettò un terribile grido che fece accapponar la pelle e drizzare i capelli alla zietta June e all’altra donna adulta, prima che lo vedessero e lo baciassero. Le due persone adulte si chiamavano “zietta” Holly e “zio” Val; quest’ultimo aveva il volto bruno, zoppicava leggermente, e lo prese in giro in modo terribile. Jon provò subito una gran simpatia per la zietta Holly, la quale doveva essere anche lei una specie di sorella; ma essi se ne andarono quello stesso pomeriggio e lui non li vide più. Tre giorni prima che tornassero suo padre e sua madre, anche la zietta June era partita in fretta, conducendo con sé l’uomo che tossiva e il suo blocco di cemento; e mademoiselle aveva detto: «Poveretto, era molto ammalato. Vi proibisco di andare nella sua camera, Jon». Il piccolo Jon, che assai di rado faceva le cose soltanto perché gli proibivano di farle, non ci andò, benché si sentisse seccato e solitario. Ormai anche la passione per lo stagno era passata e la sua anima traboccava per l’inquieto desiderio di qualche cosa –non albero, né fucile – qualche cosa di più dolce. Quei due ultimi giorni gli erano sembrati due mesi, nonostante avesse letto Cast Up by the Sea – le prodezze di Mother Lee e il suo terribile rogo naufragante. Aveva fatto le scale su e giù almeno un centinaio di volte in quei due giorni e si era insinuato spesso dalla sua camera in quella della mamma e nello spogliatoio: aveva guardato tutto, senza toccare; poi aveva aperto furtivamente l’armadio della mamma, aspirando a lungo un profumo che gli pareva lo portasse più vicino a… non sapeva precisamente a che cosa.
Aveva appunto finito di far questo, quando lo trovammo in piedi nella striscia di sole, a discutere tra sé e sé sul modo migliore di scendere le scale lungo la ringhiera. Ma tutti gli esercizi che gli erano soliti gli apparvero sciocchi in quel momento e, preso da un improvviso languore, discese le scale adagio, un gradino alla volta. Mentre scendeva, ricordava chiarissimamente la figura di suo padre: la barbetta grigia, i profondi occhi scintillanti – separati da un solco –, il sorriso arguto, la silhouette sottile, che pareva sempre così alta al piccolo Jon; ma non riusciva a ricordare sua madre. Pensando a lei aveva soltanto l’impressione di qualcosa di ondulante, con due occhi neri che si voltavano a guardarlo; e gli pareva di sentire il profumo che emanavano i suoi vestiti.
Nell’atrio c’era Bella, occupata ad aprire le grosse tende e la porta d’ingresso. Il piccolo Jon le disse, carezzevole:
«Bella!».
«Signorino Jon».
«Fate preparare il tè sotto la quercia quando arriveranno; io so che saranno più contenti».
«Volete dire che voi sarete più contento».
Il piccolo non meditò neanche un momento.
«No, lo saranno anche loro, per far contento me».
Bella sorrise.
«Bene, preparerò fuori, se starete qui tranquillo e non farete guai prima che arrivino».
Il piccolo Jon sedette sull’ultimo gradino, e accennò di sì col capo. Bella gli andò vicino e lo esaminò da breve distanza.
«Alzatevi!», disse.
Il piccolo Jon si alzò. Lei l’osservò anche di dietro; il fondo dei calzoncini non era verde e le ginocchia parevano pulite.
«Benissimo!», disse. «Caro! Come siete abbronzato! Datemi un bacio!»
E gli diede una sfregata ai capelli.
«A che cosa sono le marmellate?», chiese. «Sono così stufo di aspettare!»
«Ribes e fragola».
Per Diana! Erano proprio le sue preferite!
Quando Bella se ne fu andata, rimase tranquillo per un minuto buono. Tutto era pacifico nell’ampio atrio aperto a oriente; ed egli poteva vedere uno dei suoi alberi prediletti, un brigantino, che veleggiava lentamente attraverso il prato davanti. Nell’atrio esterno tenui ombre scendevano oblique lungo le colonnine. Il piccolo Jon si alzò e girò attorno al gruppo di piante di ireos che riempivano la conca di marmo bianco-grigio nel centro. I fiori erano belli, ma odoravano troppo poco. Si fermò sulla soglia e guardò fuori. E se non fossero venuti? Aveva aspettato tanto, e sentiva che non avrebbe potuto sopportare un altro ritardo; ma la sua attenzione fu attratta improvvisamente dal polverio che appariva nell’azzurrino raggio di sole che penetrava fin là. Tese la mano, cercando di afferrarlo. Bella avrebbe dovuto badare che non ci fosse più polvere! Ma forse quella non era polvere, bensì la sostanza stessa della luce solare; ed egli guardò fuori, per vedere se fosse lo stesso. No, era diverso. Aveva detto che se ne sarebbe stato tranquillo nell’atrio, ma non ne poteva proprio più; attraversò il vialetto coperto di ghiaia e si sdraiò sull’erba del prato. Strappò sei margherite, le battezzò precisamente: Sir Lamorac, Sir Tristan, Sir Lancelot, Sir Palimedes, Sir Bors, Sir Gawain, e le fece combattere a coppie finché soltanto a Sir Lamorac, che aveva scelto con uno stelo specialmente solido, rimase ritta la testa e, dopo altri tre scontri, apparve anche lui curvo e sciupato. Uno scarabeo moveva lentamente, nell’erba già alta. Ogni filo d’erba era per lui come un piccolo albero, intorno al cui tronco era costretto a girare. Il piccolo Jon allungò Sir Lamorac coi piedi in avanti, e toccò l’animaletto, che fuggì via in fretta, penosamente. Il piccolo Jon rise, perse ogni interesse e sospirò. Sentiva un vuoto al cuore. Si volse e si sdraiò sulla schiena. I tigli in fiore odoravano di miele, e il cielo era di un azzurro intenso, con delle nuvolette bianche che avevano l’aspetto, e forse anche il sapore, di gelati al limone. Sentì Bob suonare un’aria malinconica col suo concertino, e provò un sentimento triste e dolce. Si voltò ancora e appoggiò l’orecchio al suolo – gli indiani potevano sentire chi arrivava da lontano, ma lui non sentiva nulla: nulla, soltanto il concertino! E quasi in quello stesso momento udì un rumore di ruote e il debole suono di un corno. Sì! Era l’automobile – veniva – veniva! Balzò in piedi. Doveva aspettarli sotto il portico o precipitarsi di sopra e, quando fossero entrati, gridare “Guardate!” e scivolar lungo la ringhiera, a testa avanti? Come fare? L’automobile entrò nel viale. Era troppo tardi. Ed egli rimase ad attendere, saltando su e giù, pieno di eccitazione. L’automobile arrivò rapidamente, girò rombando, si fermò. Ne discese suo padre, identico a quello ch’egli ricordava. Si chinò per baciarlo, e il piccolo Jon cercò di alzarsi, e picchiarono la testa insieme. Suo padre disse: